FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 19
luglio/settembre 2010

Eros

 

ANTONIO PENNACCHI, CANALE MUSSOLINI

di Alessio Brandolini



Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati e lì stavano tutti i nostri parenti. Conoscevamo ogni ruga del posto e ogni pensiero dei vicini. Ogni pianta. Ogni canale. Chi ce lo faceva fare a venire fino qua?

Questo è l’incipit dell’ultima fatica letteraria di Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, uscito da qualche mese per Mondadori, di cui già si è parlato molto e ora finalista al Premio Campiello e vincitore del Premio Strega. Denso e bellissimo romanzo che racconta in prima persona la storia dei Peruzzi, una delle tremila famiglie che, a partire dal 1932, si trasferiscono dal nord Italia al Sud. Un esodo, un’emigrazione interna di senso inverso a quelle che avverranno, alcuni decenni più tardi, durante il boom economico alla fine degli anni cinquanta. Per tre anni di seguito parte un treno al giorno e trentamila persone si stabiliscono nelle terre “redente” dell’Agro Pontino, dove fino a pochi mesi prima regnavano la palude, la malaria e la morte. Lì, dove vivevano una cinquantina di briganti per sfuggire alla legge, germoglia la vita umana e si forma un nuovo popolo, quello veneto-pontino.
Una specie di marcia che va dalla miseria a una vita dignitosa, attraversando le difficoltà dei primi anni (la terra deve “imparare” a essere fertile), quelle legate alla storia d’Italia e alle guerre fasciste. Una marcia di gente operosa e ostinata, di famiglie unite e numerose: nonni, tanti fratelli e sorelle, figli e nipoti, con qualche figlio illegittimo, e le amate bestie.
La ricostruzione dei poderi dell’Agro da parte dell’autore è millimetrica: le case razionali dell’Opera combattenti, con la stalla e il pozzo nero alla giusta distanza. Tutto descritto perfettamente e in ogni dettaglio. Le mura esterne celestine, la scala che sale al primo piano, la grande cucina con il focolare che disperderà pure il calore ma è il centro della casa. Famiglie numerose, inimmaginabili nella nostra epoca (di dieci e più figli) con almeno un componente reduce della Grande Guerra, provenienti non solo dal Veneto ma anche dall’Emilia e dal Friuli. Famiglie che manterranno, nel corso dei decenni, i propri costumi e la propria lingua, ma con un “impasto” di usanze fra le varie provenienze e poche aperture all’esterno.

Gli abitanti del Monti Lepini non vedono di buon occhio i nuovi arrivati: faticano a capirsi “cispadani” e “marocchini”, e poi le donne del Nord vanno in bicicletta! e, soprattutto, quei polentoni gli hanno portato via le loro terre... Conflitto vivo tutt’ora, stemperato dal tempo e dall’espansione demografica (ora sulla vecchia palude vivono cinquecentomila persone), ma sostanzialmente le famiglie dei coloni si sono mescolate poco con la gente di Sezze, Sermoneta, Cori e gli altri paesi circostanti.
Il centro del romanzo è il Podere 517 che l’Opera Combattenti ha assegnato alla famiglia Peruzzi (anche per via delle imprese squadriste degli anni venti), il perno su cui girano tutte le storie del libro e forse, in tal senso, il titolo del romanzo poteva anche essere “Podere 517”. Non a caso quando uno dei Peruzzi torna dalla guerra d’Abissina la prima cosa che fa è quella di stringersi alle vacche maremmane dalle lunghe corna ricurve e piangere in ginocchio sulla propria terra, sul proprio sacro Podere: quello è il nucleo essenziale intorno al quale gravitano le esistenze dei Peruzzi. Senza quella terra ci si perde e distaccandosene (la famiglia si allarga e occorre altro spazio) si rischia di smarrirsi, di ritrovarsi da soli: più deboli e insicuri.

A proposito di animali. Uno dei personaggi più belli e poetici del romanzo, che di personaggi ne ha davvero tanti, è Armida, la moglie di Pericle, che parla con le bestie e, soprattutto, con le api. Le api sono parte integrante del libro: lo vivono, percepiscono i pericoli, mettono in guardia Armida. Un po’ come accade per il mantello nero che ogni tanto la nonna si sogna e annuncia sciagure. Un romanzo, quindi, fatto non solo di uomini ma di terra, di alberi (come gli eucalipti che drenano l’acqua eccessiva e placano i venti del Tirreno), di animali e la storia dei Peruzzi che s’intreccia a quella dell’Italia, alle sciagure del secolo passato (la marcia su Roma, le leggi razziali, il lungo conflitto mondiale, il crollo del fascismo e la guerra civile).
Una storia complessa ma che si legge tutta d’un fiato e sbalordisce per l’agilità dei passaggi, le digressioni nel tempo (non ha un procedimento strettamente cronologico), l’arguzia e l’ironia del suo autore. Un romanzo al quale si augura, parafrasando Richard Yates, non solo il “successo”, ma tantissimi lettori. Lettori italiani che possano, leggendo questa coinvolgente storia di Antonio Pennacchi, amare di più la nostra Patria, costruita così faticosamente e con tanto spargimento di sangue, e ora così vilipesa. Magari festeggiarla il 2 giugno, come non fanno da sempre deputati e ministri leghisti.
Canale Mussolini non è un romanzo agiografico sulla bonifica delle Paludi Pontine, né soltanto una saga contadina, è una storia forte e intensa e, insieme, uno specchio che mostra i lati oscuri del carattere italiano: la semplicità nel lasciarsi abbindolare da chi promette miracoli; la facilità nel perdere la memoria; la stupidità con cui si distruggono le cose buone, magari per sentirsi più moderni: a partire dagli eucalipti immersi nel paesaggio dell’Agro Pontino, i ponti dei canali di scolo che tracciano la valle e che per decenni sono stati punto d’incontro dei coloni e luogo di “appoggio” per solitari fumatori (come nonno Peruzzi).

Le vicende dei Peruzzi sono narrate da uno che conosce bene i fatti (non è il caso di rivelarne l’identità, sarà una bella sorpresa per il lettore) e che, sentendola molto, esalta le vicende della propria famiglia, dei coloni dell’Agro Pontino, con il sole che sbuca ogni volta che Mussolini si affaccia da quelle parti. Così, talvolta, fascisti e nazisti sembrano associazioni di boy scout protese al benessere comune, Mussolini un bonaccione e non il criminale di guerra che fu, per esempio per aver autorizzato l’uso massiccio di iprite sulla popolazione abissina, sui raccolti, sui fiumi e la strage successiva (di cui il romanzo dà conto) all’attentato a Graziani. Mussolini “Uomo-Dio... Una specie di Messia come per gli ebrei, e del resto non era stato proprio il Papa Pio XI a dirgli Uomo della provvidenza?”
Così gli si resta fedeli, al Duce, fino alla fine e presso il Canale Mussolini i coloni (o almeno una parte di quelli rimasti dopo lo sbarco delle forze alleate) combattono accanto a tedeschi e repubblichini per difendere i poderi, l’onore e – sembrerebbe – la libertà. Ma l’abbaglio dei coloni ci può stare, rientra nei tempi, nel fanatismo, nella propaganda e se il racconto (“il filò”) ne esalta il coraggio, l’ostinazione e quel po’ di follia che gli ha permesso di staccarsi dalle proprie radici e progredire, non esclude un ripensamento: quando un nipote dei Peruzzi chiederà allo zio Adelchi (che in Abissinia ne aveva viste di tutti i colori) delle barbarie commesse, lui che da reduce le aveva giustificate (à la guerre comme à la guerre), si fa triste avvertendo, ora, tutto il peso di quelle atrocità.
Rimanere con i piedi ben piantati nella Storia vuol dire anche questo, riviverla e riesaminarla ogni volta, non dimenticare/edulcorare, analizzarne i particolari sotto una luce nuova e con maggior consapevolezza. Apprendere dai fatti passati per non commettere gli stessi errori.

Parlavo della marcia di un popolo contadino che dal nord si reca al sud e lavora una terra vergine (“il nostro Mar Rosso”), fino a pochi mesi prima del tutto paludosa (e parecchi tentativi, nel corso dei secoli, erano falliti miseramente), fonda borghi e città moderne (Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia...), combatte la miseria e la malaria. Forse proprio per questo mi è venuto in mente, leggendo Canale Mussolini, il poderoso romanzo di E. L. Doctorow La marcia, che narra dell’ultimo periodo della guerra civile americana, delle migliaia e migliaia di umili persone (c’erano anche italiani) che si ritrovarono impaludati in una guerra crudele e fratricida.

Chiudo questo commento aggiungendo altre due cose.
Ci sono dei passaggi molto drammatici nel libro (e questo lo si è capito), ma anche istanti di comicità genuina e irresistibile, come quando il Duce e Cencelli – l’ideatore della costruzione della città – inaugurano Pontinia (il 19 dicembre del 1934):

Ci sono ancora in giro queste foto del Duce che mette la calce con la cucchiara sulla prima pietra, e a fianco Cencelli che pare una mummia, dentro la divisa della milizia con la camicia nera, ma con tutte le fasce e le garze bianche a fasciargli il collo, il mento, metà della faccia e la capoccia tutta intera sotto il fez nero. Pare Tutankhamon.

L’ultima cosa, last but not least, la lingua narrativa di Pennacchi è vivissima, ironica e travolgente, talvolta dantesca e spavalda: sempre diretta e con precisi innesti dialettali che le danno ancora più forza, e spontaneo è l’accostamento al grande Giovanni Verga. La forza di un trattore inarrestabile che traccia solchi profondi nella storia collettiva del nostro paese.
Aprono e chiudono il libro due disegni, firmati dallo stesso Pennacchi e dal pittore Stefano Cardinali, delle Palude Pontine nel 1926 e dell’Agro Pontino nel 1939, con tanto di anofele malarica e mucca maremmana.


Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, Milano 2010, pp. 461, euro 20 (Premio Strega).




da Canale Mussolini

All’Armina comunque oramai mancava solo la lettera scarlatta sulla fronte. Non poteva più uscire o andare al borgo. Né a novene né a messe la domenica e neanche a Natale. Chiusa in casa se arrivava qualcuno. Non si doveva proprio vedere. E come la incrociavano – specie le femmine – subito di sbieco facevano “Putana”. Se al borgo invece qualcuno per caso chiedeva: “Gàla sgravà la vaca?”, a noi Peruzzi nemmeno ci passava per la testa che intendessero la Venezia pezzata bianca e nera che aspettava anche lei un vitello, subito pensavamo che ce l’avessero con l’Armida. E il senso di vergogna ci riempiva a tutti quanti: “Bruta spórca maiala”. solo mio nonno, quando la incrociava da solo per casa, le diceva dolce “Tosa”. Solo lui e Santapace.

Lei – l’Armida – camminava da sola per i campi con il suo pancione e le api dietro. Anche i figli cominciavano già a tenerseli loro e a non lasciarli andare con lei. “Ma che hai fatto, mama, che hai fatto!” le piangeva allora addosso, abbracciata, la Adria. “Perdóname fiòla, perdóname” faceva l’Armida. Un giorno che zia Santapace dalla finestra del piano di sopra l’ha vista giù di sotto nell’aia, ferma davanti al pozzo che quel giorno per caso era scoperto, ha detto alla madre, mia nonna, che era lì in camera con le: “Mama! Ma no è che quella si butta nel pozzo?”. “Magari fiòla!” ha detto mia nonna: “Éla e ‘l só bastardo!”. E pregava: “Signore, Signore, fa che non torni più mio figlio, se no qua chissà che succede”.




ANTONIO PENNACCHI
è nato a Latina, dove vive, nel 1950. Ha lavorato in fabbrica fino cinquant’anni. A quarantaquattro anni si laurea in Lettere, sfruttando un periodo di cassa integrazione, e inizia a scrivere libri. Collabora a “Limes”. Ha pubblicato:

  • Mammut,Donzelli, 1994;
  • Palude, Donzelli, 1995;
  • Una nuvola rossa, Donzelli, 1998;
  • Il fasciocomunista, Mondadori, 2003 (Premio Napoli), da cui è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti;
  • Viaggio per le città del Duce, Asefi, 2003;
  • L’autobus di Stalin, Vallecchi, 2005;
  • Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni, Mondadori, 2006;
  • Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Laterza, 2008;
  • Canale Mussolini, Mondadori, 2010 (Premio Strega).


alexbrando@libero.it