FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 15
luglio/settembre 2009

In cornice

 

GIACENZA

di Giuseppe Rizza



*

Che quando apri la porta
compari nuda come in un
quadro di Balthus, Chagall,
Klimt, Klee, signora K
o scomposta in tenuta blu, un seno
due labbra, anche quando
mi dici ma che favola sei
la fiammiferaia di Andersen
e invece no, dico io, semmai
il pifferaio di Hamelin
anche se non saprei
giustificare una scelta simile
neppure se ti rifilo quell’altra
favola, mentre ti osservo
chinata a rifare il letto,
delle sirene che non ti resisto
ne parlò per primo
perfino l’autore del Margite
o chi per lui, chiunque fosse.


*

Hai adibito il mio amore
al reparto rottamazioni
cartellino con su scritto in maiuscolo
GIACENZA

(una baby-sitter che non crede nella sua missione
mangia patatine guardando la televisione)

il mio amore è da mesi che gira
solo, smarrito,
su un nastro trasportatore
come un bagaglio non recuperato
volo AO9RFI
aereo arrivato a destinazione.


*

Scrivere un romanzo dal titolo
La responsabilità degli oggetti
così da potersi liberare in anticipo
da eventuali assortimenti di colpe.
Dare la tinta alle tue iridi
color terra dei gerani
lasciati in un vaso ad agosto
su una terrazza all’ultimo piano.
Masticare il tuo nome
esercizi di pronuncia
del poliglotta provetto.
Rendere nota al pubblico
la tua assenza e la mia ricerca
come quando da piccoli
ci si perde in una festa di paese
la Signorina K. è attesa
impazientemente dal figlio.


*

La teina compie il suo decorso
il resto, l’ultimo sorso, utile
per annaffiare le piante secche sulla terrazza
dove trascorrerò l’ennesimo luglio
a scrivere delle gemme che ti fioriscono addosso.
In tua assenza parlerò di oroscopi cinesi
di una sceneggiatura mai scritta
e mi difenderò da una cagna vegetariana.
Una saga familiare per combattere l’afa
primo piano secondo piano terzo piano
o anche sul letto, a sfogliare
e trasformare il discorso indiretto in diretto.
Prima delle passeggiate ad Ognina
compilerò telegrammi telegrafici da spedire
a persone che neppure sospettano
il mio uso avventato di parole.
È ben accetto l’imprevisto.
Purché sufficientemente prevedibile.


*

Per caso hai appresso con te
quel mucchio di note miste a parole
romantiche, che s’incastrano al glicine
che cade dai viali, e che dice ancora c’è tempo,
la tengo in testa da giorni, e non vedo
l’ora che scappi come un canarino dalla gabbia.
Invece tu fabbrichi silenzio, ed eviti
accuratamente le ali mozze delle mie ciglia
inselvatichite dai viaggi, e mi hai parlato
di lui, dei suoi sogni erotici, e io di quell’altra
ma non posso dire di più, non posso scrivere
di croci ebraiche, di sant’andrea, di san giacomo
non sarebbe corretto dicono. Dicono così.
Correggimi le labbra allora, oramai
ho scartavetrato i ricordi di quella casa
e posso venire ogni volta che voglio per
osservare in silenzio dalla terrazza
il dinosauro che avete nascosto in cortile.
Eppure era giugno.
Come di questi tempi.


*

Improvvisando sul momento canovacci
ho distratto la vita mi fai
ma solo per qualche minuto
mentre io immaginavo vite igroscopiche
ed edificavo impalcature soppalchi mansarde
di personaggi ricchi di tendini
con i risultati che puoi immaginare
ho praticato mestieri senza lode mi confidi
leggendo il bagatto, l’appeso, l’imperatore
e urlando fingere amplessi al telefono
o sussurrare parole dolci e zuccherine
quando io piuttosto dormo anche negli intervalli,
inganno dell’accorciare le ore utili,
vecchio trucco da dilettanti amatoriali.


*

Al supermarket avremmo comprato
dell’uva fuori stagione, incartata
nell’ultima pagina della Gazzetta
di ieri l’altro, e avremmo avuto
evidenti difficoltà a graffiarla con
le unghie, l’avresti così nascosta
sotto i tendaggi del tuo corpo
assai poco prosastico c’è da crederci
anche perché Agostino tu m’insegni,
dissertò sull’esatta misura dell’amore
lo hai detto oggi al telefono mentre
cercavo notizie attendibili da sprecare
su Diogene di Sinope che quella volta
ieri l’altro, ci fece dire in cucina
mentre t’entravo in camera
C'è un sogno che ci sta sognando
e non solo nel dirlo, ma anche nel pensarlo
ti baciavo il collo, riempivo di te le mani.


*

Una pioggia di soffioni, in diagonale
polline che graffia i vetri delle mie perpendicolari
parallele, e metrò in deposito per protesta
contro queste giornate di sole, e
sugli scalini di una chiesa senza santi
ad attendere che la notte arrivi.
Pensarti e scriverti è la declinazione massima
che sei un anguilla dei mari del nord
e lo penso mentre m’appunto sulla pelle di
disfarsi ancora una volta, ripromettersi, di spogliarsi
di qualsiasi mittente, che di te
non ho più notizie mi sembra da anni.
L’insonnia è difficile da curare nei treni in movimento
e sai, ho pianto meno di due volte al mese
dormendo disteso su allevamenti di scritture impersonali
e mi hanno riferito e confermato che parlo ancora nel sonno
perfino rido. E tenuto occhi incantati, all’incanto
nel ritrovarti in sogno mentre
t’abbandoni in una poesia
dove racconti della signora Carla
e di una dattilografa, o era un’infermiera
che scambia ciglia sul lavandino per spermatozoi.


*

Sembra che tu sia venuto soltanto
per tamburellare le tue dita
sulla superficie trasparente dei miei vetri
a coltivare tutte le frasi non dette
tutte le parole da non dire
mentre fingi di far prendere appunti alle tue pupille
di cosa parlerai, delle mensole laccate
delle riproduzioni di Gauguin
esotico quanto basta per le mie pareti
magari ti rilassi ascoltando questo disco
che musica ascolti mi dicono chi te la fornisce
come fosse crack o droga da annusare
credo che dovresti dirmelo, estirpati i silenzi
dimmelo che non sei venuto per altro
che non fosse una visita di routine
sullo stato dei miei seni
o magari per sentire le mie labbra
che sapore hanno oggi? Menta?


*

Ero su un’isola sperduta
del pacifico oceano Atlantico
(volevo che ci fosse il mare)
e ora ti chiamo dall’Appia,
amo questo posto
sarà il primo che vedrai.

(Ero in fuga da un amore terminale
disperata ho tolto l’alimentazione).

La mia voce è ancora
macchiata del vino dei colli
ho bevuto nell’attesa di parlarti.
Inoltre vorrei dirti che
il letto su cui mi rigiro
è a una piazza e mezza francese
in due ci si sta comodi.


*

Anni fa ho cercato lavoro
a San Juan, Portorico
ma alla fine tutto si tradusse in un bivacco
una domenica come oggi
eravamo in mare aperto, in barca
lì c’è del plancton fosforescente
se smuovi le acque
ad esempio tu prova
vai in Portorico
se smuovi le acque
e immergi le caviglie nel mare
ti si vedono i piedi luccicanti,
come si dice, luccichio?

(E mentre parli
sgretoli il passato sulla sabbia)
Se dico gabbiani
tu che rispondi?
Se mi dici gabbiani
io rispondo discarica.


La silloge qui proposta è inedita. La terza poesia è apparsa su Nazione indiana e Scuola Holden, l’ultima su Absolutepoetry.



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