PER PINO REGGIANI (Forlì 1937, vive a Roma)
Pittura come poesia: fare, inventare, in un altrove che pure trattiene, incanta. E, prima e dopo le molte esperienze, dopo tecniche e strumenti e prove, la tensione di chi perennemente si cerca e cerca il mondo. E prima e dopo e dentro un’energia, segreta e indomabile, che sola rende necessario e vitale quel cumularsi di affermazioni e di cancellazioni che conducono all’espressione e la fermano.
Così Pino Reggiani, da decenni, supera i fantasmi e le ossessioni di tanta arte contemporanea per trovarsi in altri gesti, cenni, sensi, frammenti. Una misteriosa allegria lo sommuove, lo porta: per questo schiude altre porte, percorre altre vie, s’inoltra nei labirinti. Che altro è una tale inquietudine se non l’avidità di esistere, di capire?
Stavolta è la musica, con i suoi viluppi ed echi, il continente immenso e larvale che traversa. Vi accoglie simmetrie che presto interrompe. Inserra spazi dentro gli azzurri, i grigi, i neri assoluti. Apre gialli assolati. Traccia, come in un gioco infantile, case minuscole. I rossi preludono a definitivi silenzi, a ultime notti.
La musica dilata cieli e strade. Si levano note-colori compresi di linee spezzate, di geometrie veloci. I triangoli sono pensieri netti, gli archi sono tenere labbra. L’uomo-fantasma-dio ghermisce i suoni, li tiene per annientarli. Mercurio accompagna, ma verso quale salvezza? Quali sapienze nei numeri stretti di Dürer?
Per un’inattesa implosione l’universo trabocca di linfe, di frutti maturi. Stagioni e mesi s’inseguono. Luci e ombre si sovrappongono, fino ai rosa-placenta dei nati: figli insicuri di quel che verrà.
E nudi, intatti, impastati di se stessi, incontaminati come desideri, i celesti e i verdi fluttuano: nubi, bolle, frammenti di un pianeta in viaggio.
Va l’uomo-pianeta, grumo di memorie e di attese, occhio che misura, orecchio curvo, intento. Instancabile andare: ad ogni traguardo la successiva partenza, ad ogni sosta una domanda ulteriore.
Ma tutto si colma di musica: approdo sicuro e mare aperto. Allora il segno diviene canto, vento che scioglie il corpo e travalica il sogno e s’appresta a una voglia diversa. Allora, dalle tenebre traspaiono i segnali di una nuova intesa, il percorso di un’ansia che perdurando si disfa.
PER DOMENICO COLANTONI
Quadri in cui si entra. Vi si scopre altro, altro: un fiore, un albero, ombre, slarghi, rientranze, anfratti, abissi, strade verso i colli, foglie, arbusti minuscoli, orizzonti distesi sotto cieli immensi.
Un fiato antico, di una pittura che è visione del mondo nella sua vastità e nel suo mistero. Con citazioni del grande paesaggio italiano, quello dietro Santi e Madonne di Cima, di Leonardo.
Due tempi contrapposti: quello di chi guarda e di chi lo abita e lo traversa; il primo li accoglie entrambi, li ferma nell’espressione per amore e sapienza. Due tempi: della natura che vive più a lungo ( alberi, montagne, acque, cieli, stagioni) e quello dei frutti colmi, maturi, già vizzi, già prossimi a disfarsi: e con loro l’estenuarsi, il disseccarsi dei succhi della vita.
Frutti carnali, mostruosi, colmi, avidi. Frutti come creature nel colmo dell’esistere e nell’approssimarsi della fine. Frutti come occhi, mani, passi, gesti. E un silenzio colmo. Una estensione di colori: i rossi di fuoco, gli amaranto, i viola, la famiglia dei verdi. I fichi, le pesche, i meloni, le zucche, i melograni. Dentro i mesi, gli appetiti, le voglie, l’ora che sgrana, cola, si sfalda. E la morte vagheggiata, temuta, mai respinta, mai negata.
Luci, chiarori che s’aprono come acque lattiginose.
Un gran teatro in cui cielo e terra, dopo e prima, persona ed elemento, essere ed apparire si nascondono, si rivelano.
Un godimento che è insieme sofferenza e sfida. Un traguardo tentato. Capacità e furia e forza di rischiare. Dov’è l’uomo che ha dipinto?
PER ANNA ESPOSITO
Si può nominare l’“estro”? Dal greco “oistros”, puntura, quella del tafano, significa per estensione desiderio violento, impeto della mente, stimolo, furore, “commozione vivissima del sentimento e della fantasia”. Appartiene tutto questo all’opera di Anna Esposito per la spinta immediata che se ne riceve e per la mescolanza di ragione e invenzione, gioco e giudizio, irrisione e compassione. Se poi commozione è muovere dentro, il mondo vi si compone e scompone per un’epifania che ogni volta sorprende, lacera, diverte, sovverte.
Viene da lontano un tale operare fra sovversione e quiete. Scaturisce dal pensiero che s’interroga, da una scontentezza che non si risparmia e pure cerca uscite dalla prigione del mondo. Le cerca reinventando la società degli uomini e degli oggetti, degli animali e delle piante, e il susseguirsi delle stagioni e delle storie nel tempo senza soste dell’esistenza. Le reinventa accostandone i frammenti, scollandone e incollandone le scaglie infinitesime. Ne accelera i movimenti, ne scompiglia le trame, e quanto pareva ritrarsi e contrarsi si palesa in una inattesa metamorfosi, quanto pencolava nell’indistinto e nel vuoto s’accinge a una nuova apparenza. In tanto apparire la giornata terrestre si consuma e ripete mai definitivamente cancellandosi.
Sono vari i materiali adoperati da Anna Esposito e diversi i piani sperimentati, ma tutti diventano strumenti di una visione continuamente dilatata e rappresa e, prima ancora, di un’inquietudine prossima al divertimento se travalica l’ansia e la disperazione e incide con leggerezza in chi guarda e comprende, così da lasciare un segno durevole e un reale mutamento insieme alla grazia del dono.
Non invadono queste opere, né sovrastano la percezione; piuttosto subito sorprendono, anche stupiscono: lo stupore del bambino che scopre un altro aspetto della realtà. Allora l’inganno si rivela la sola possibile verità, l’artificio traveste la naturalezza e la contiene, la sapienza è una strada di ombre.
Pochissimi artisti del nostro tempo hanno giocato e giocano così tanto, e così seriamente, come Anna Esposito. Sono numerosissime le sue opere lungo un quarantennio e altrettanti i temi e i traversamenti. Non mancano gli azzardi, le sentenze a sorpresa, le accensioni irridenti. Non mancano le tenerezze, gli abbandoni: la sirena, la tigre, le gabbie in volo, la gru d’acciaio - dinosauro, il nido d’uccello sulle nuvole.
C’è che tutto può diventare altro, mescolarsi, uscire dal possibile e vagolare nel sogno, nel riso che annienta il potere, nella religione che mente addobbandosi, nell’esercito di soldati-oche, nella baracca-navigante, nello spazio dilatato di echi. Tutto può significare un di più che non è rivolta né caos, ma attesa di un altrove che pacifichi, accordi.
E poi le moltitudini, degli edifici, delle città ridotte e insieme esaltate in una pellicola; lo stare insieme in una ressa, in un respiro comune che assorda e, mentre impaurisce, conforta.
Non esiste la morte in queste opere perché è la vita che vi si logora e irretisce, vi si ingarbuglia e si snoda. Le percorre tutte, proprio tutte, un’ironia lieve e vigilata, che vede da lontano, amara e amabile misura di un’intelligenza che è legame con la “cosa” e insieme godimento del vedere, misura del restare.
e.pecora@tiscali.it
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