“Nodrimento”, spiega il Novellino alla fine del secolo XIII, è sia “cosa che nutre”, sia “ciò che mantiene o alimenta sentimenti, passioni e simili”.
Da sempre, i cardini del discorso sulla più importante tra le funzioni biologiche, l’assunzione del cibo, sono estremamente semplici: dobbiamo nutrirci, per poter vivere; e bisogna nutrirsi bene per svolgere in modo adeguato tutte le nostre funzioni, comprese quelle che ci connotano come esseri senzienti e pensanti.
Ora, c’è chi questa possibilità ce l’ha e chi no; esiste una consistente porzione dell’umanità che ha il problema di procacciarsi non quel cibo, o quella specialità, ma il cibo necessario per sopravvivere: è la parte di umanità che sperimenta ogni giorno la fame, l’inedia che impedisce di pensare, di agire, di amare.
Un quadro chiarissimo e tragico, dinanzi al quale noi, i fortunati, reagiamo con imbarazzo, fastidio, malcelata indifferenza: è la prova che una buona parte di ciò che pensiamo e diciamo riguardo al problema dell’alimentazione è soggetta alla rimozione.
Ma il dato è implacabile: il dramma più antico dell’uomo, l’eterna divisione fra chi spreca e chi vive in assoluta povertà, chi mangia a ufo e chi muore di fame, non ha trovato una soluzione neppure nell’era tecnologica, neppure nell’ambito del villaggio globale.
Nel continente che ha visto la nascita e lo sviluppo della nostra specie, l’Africa, la denutrizione continua a causare più morti di una guerra mondiale, delle peggiori catastrofi naturali, delle più perniciose epidemie. Ma non c’è solo l’Africa: ogni giorno, nelle aree più povere del Pianeta, migliaia di bambini muoiono di fame. Altre centinaia di migliaia sono denutriti, e il risultato è che si muore per malattie curabili, si muore per una febbre o per un’infezione.
C’è un risvolto non meno importante, nella questione: l’ingestione degli alimenti non nutre gli uomini in senso puramente biologico. Mangiando in modo adeguato, il bambino si appropria anche di una struttura culturale, che include il modo di nutrirsi, i vari tipi di alimenti da soli e in combinazione fra di loro, i nomi e le classificazione dei cibi, le tradizioni alimentari e culinarie, gli usi e le maniere da tenere a tavola.
Quando priviamo un bambino del cibo, lo priviamo anche di cultura, della possibilità di crescere in senso globale, lo priviamo della possibilità di nutrire la sua anima.
Riassumiamo: esiste un problema che toglie peso e sostanza a ogni altro, e noi, figli della cultura, della filosofia, del cristianesimo, lo ignoriamo.
La domanda delle domande, quella che dovrebbe far deflagrare la coscienza di ognuno, e che invece rimane ben sepolta sotto la coltre del nostro egoismo, è una sola: smascherato il meccanismo primordiale della rimozione, come riusciamo a chiamarci fuori da una simile tragedia, dall’ingiustizia più spaventosa esistente nel nostro mondo?
Ti è capitato di dover saltare un pasto? O di dover aspettare un pochino prima di poterti riempire lo stomaco? Bene, dilata quella sofferenza per le lunghe ore di un giorno, e per una serie interminabile di giorni...
È a te, lettore, e ancor prima a me stesso, che mi rivolgo.
Io so che ogni giorno migliaia di bambini muoiono di fame, eppure riesco a sentirmi in pace con la mia coscienza.
Io che ho avuto in dono il benessere, la salute, tutti e cinque i sensi, io non muovo un dito per mettere questi beni a disposizione degli altri.
Io che evito di fare il male deliberatamente; e che deliberatamente non faccio il bene di nessuno.
Io che sono sempre pronto a battagliare per il mio piccolo tornaconto, e non spendo un briciolo delle mie energie per combattere l’egoismo che mi annebbia la vista e pietrifica il cuore.
Io che attribuisco un’importanza infinita ai miei miseri accidenti, e accantono il dramma della realtà più dolorosa di questo mondo.
Io che vado alla scoperta delle periferie del mondo e ignoro il cuore del mondo.
Io che dico di voler migliorare l’uomo, di volerlo cambiare.
Io che mi animo per una partita di calcio e resto indifferente alla sorte dei diseredati della terra.
Io che manifesto un entusiasmo bestiale per gli inutili simulacri di cui mi circondo, che mi prodigo con fanatismo per la mia fede politica, che leggo i filosofi e rifletto sul senso dell’esistenza, che assaporo i piaceri della vita sino alla feccia; e che sbadiglio alla vista della bocca piena di mosche di un bambino denutrito.
Io, che mi indigno dinanzi alla morte di un ragazzo travolto da un autista ubriaco, io ho nelle mani, ogni giorno, la vita di molti uomini.
So, vedo la morte per fame di migliaia di bambini, eppure è come se non vedessi, come se non sapessi, perché ho paura dell’immensità di una tale rivelazione, ho paura di una verità che dissolverebbe le mie sicurezze come fogli di carta gettati nel fuoco.
Io che mi impegno, guadagno, voglio fare carriera, essere apprezzato e ammirato; e non mi soffermo un istante a guardare il mio fallimento umano.
Come riesco a fare del rimorso per questi sofferenti un rimorso sterile?
Con quale coraggio pospongo i miei fuggevoli malanni alla scienza esatta della morte?
Come mai, dinanzi alla morte per fame di un mio fratello, non riesco a udire il pezzo della mia anima che va in frantumi?
Come faccio a non realizzare che la morte per denutrizione dei miei fratelli invalida ogni tipo di convivenza e di rapporto umano?
Come posso mostrare tanto accanimento per le carte che ingombrano la mia scrivania e disinteressarmi della sorte di bambini che muoiono di fame?
Da dove mi viene la capacità di sopportare il pensiero di simili sofferenze?
Quegli occhi innocenti, enormi, rassegnati. Come riesco a nascondermi la disperazione che esprimono?
Perché continuo a parlare del “prossimo” se non vedo come tale neppure un bambino che muore di fame?
Come faccio a disertare il bene senza sentirmi profondamente disonorato?
Com’è umanamente possibile sentire come un peso la carità che salva delle vite innocenti?
Indifferenza dinanzi alla morte per fame: quale prova migliore che la nostra anima è malata, e che dobbiamo curarla?
Noi, sempre pronti a schierarci di qua o di là, ma neutrali dinanzi alle sofferenze altrui; noi, che abbiamo avuto in sorte il benessere e che siamo scontenti della nostra sorte.
Noi, bramosi di un futuro prevedibile e solido, quando del futuro non sappiamo nulla.
Un piccolo grumo di sangue nel cervello, e l’esile filo della nostra esistenza potrebbe spezzarsi domani, fra un’ora, fra un minuto: eppure continuiamo a procrastinare il bene che vorremmo fare al prossimo.
Lavoriamo, produciamo, amiamo, ci divertiamo: ogni nostro gesto è teso a crearci intorno un mondo sicuro, piacevole, rassicurante. Eppure, sentiamo, sappiamo che non basta, che manca qualcosa; qualcosa che è alla nostra portata, e che moltiplicato per ognuno di noi può mutare il destino ingiusto di tanta gente: l’offerta agli altri di una parte di noi stessi.
I grandi saggi dell’umanità ci hanno insegnato che non siamo entità private, che il nostro prossimo non è altro che una parte di noi.
L’insicurezza, la paura, l’ansia, il senso di solitudine: ogni odierno malessere origina dal fatto di sentirsi e agire come entità separate dal tutto.
Fare del nostro meglio perché cessi l’orribile piaga della fame nel mondo è il primo dei compiti che ci definisce quali esseri umani. Non si tratta di essere buoni e compassionevoli; no, la lotta per abbattere la denutrizione sul nostro pianeta è una questione di dovere, di stretta giustizia: un impegno senza il quale non ci può essere alcuna salvezza, né per i nostri fratelli che soffrono, né per noi.
armando.santarelli@inwind.it