FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 12 ottobre/dicembre 2008 Suoni di versi |
IN MEZZO AL SILENZIO, IL CANTO di Armando Santarelli |
Il silenzio e il canto notturno: sono questi i suoni che ci si porta dentro tornando da un pellegrinaggio al Monte Athos, l’ultima grande oasi spirituale della Cristianità.
Il silenzio e il canto hanno una connessione organica, al Monte Athos; il giorno, all’Agion Oros, è il tempo della “praxis”, i cui termini sono il lavoro, il silenzio, la preghiera. La notte è il tempo della “theoria”, della comunione personale con Dio attraverso il canto e la liturgia.
Parlare del silenzio e del canto che da millenni regnano sovrani al Monte Athos non è esercizio facile: come scrisse Kostas Uranis, all’Agion Oros il silenzio si respira. Ma è impossibile sottrarsi all’umano desiderio di descrivere le esperienze che segnano la propria vita con il marchio invisibile, ma incancellabile, della spiritualità. È quel che ho cercato di fare nell’opera, ancora inedita, che ho intitolato Sono divenuto, nella notte, luce: descrizione del soggiorno al Monte Athos di un pellegrino che per anni ha coltivato il sogno di visitare l’Agion Oros e di pregare insieme a un eremita della Santa Montagna.
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IL SILENZIO
Mi è stato detto che per godere della veduta del monastero non c’è luogo migliore del primo tratto della strada che porta alla skiti rumena Prodromu. In effetti, il sentiero inizia subito a salire, e dopo un breve tragitto lo sguardo può abbracciare l’intero panorama: la macchia mediterranea, gli ulivi cilestrini, gli orti dei monaci, la Lavra: un quadro feudale, al quale l’assoluto silenzio aggiunge una misteriosa bellezza. Il cenobio di Atanasio si offre alla vista col fascino pacato di un’antica opera d’arte: lo stesso incanto, la stessa aura d’eternità. Spicca, al centro, il rosso katholikon, attorno al quale ruota ogni altro edificio, come la vita del monaco attorno a Dio. “Il monastero athonita”, scrive Basilio di Iviron, “è una divina liturgia cantata con l’architettura. Attorno alla chiesa, come Cherubini e Serafini, si dispiegano stanze, celle refettorio, biblioteca: lo spazio in cui celebra la divina liturgia ventiquattro ore su ventiquattro. Ogni cosa è al suo posto, liturgicamente gerarchizzata. Per questo, seguendo il programma di vita del monastero, camminando tra i suoi corridoi, ti accorgi di ruotare in continuazione attorno alla ‘sola cosa di cui c’è bisogno’ (Lc10,42)”. Intorno alla Lavra, nell’intero orizzonte abbracciato dal mio sguardo, nulla si muove, tutto è pace e quiete. Mi sembra di essere sparito dal mondo, e di esserne, allo stesso tempo, l’unico abitatore: forse per la prima volta nella mia vita, non ho assolutamente niente da fare, non mi aspetta e non aspetto nessuno. Risuscitati dal silenzio, i sensi colgono segnali impercettibili: ogni elemento sembra volermi comunicare qualcosa, le piccole creature che si muovono accanto a me, come le luci che iniziano a pulsare nello spazio infinito; e nella mente torna di nuovo quella sensazione, il pensiero che informa i libri religiosi più antichi del mondo: la concezione vedantica che Dio è in ogni forma, in ogni creatura, che tutto è Dio. Quanto tempo passo in questa beatitudine? Non lo so, non importa. Sollevato dalle ingiunzioni dell’ego, il tempo è fermo, non esiste più. Mi muovo solo quando annotta, vinto dalla paura di trovare chiuso il monastero.
IL CANTO
“Vieni alla liturgia, stanotte?”, mi domanda Grigorij quando usciamo. “Sono un po’ stanco, ma penso che ci sarò”. Così mi sono congedato dalla mia giovane guida. Non sapevo che proprio la stanchezza sarebbe diventata mia alleata nel prezioso regalo che il Rossikon stava per concedermi di lì a poco. Infatti, dopo il tramonto del sole ho bighellonato un po’ per il monastero, poi il sonno è diventato invincibile, e sono andato a dormire che non erano neppure le nove. Così, quando a notte fonda il talantòn ha lanciato i suoi secchi richiami, avevo ripreso le energie sufficienti per staccarmi dal letto senza rimpianti. Il katholikon di Aghiou Panteleimonos, costruito in stile russo, è molto originale. Belli sono anche gli affreschi del naos e la solenne iconostasi in legno dorato, tutte opere di artisti russi del tardo XIX secolo. Quando entro nella chiesa, noto che c’è molta agitazione; siamo infatti alla vigilia di una festa. Il monaco ekklissiastikòs accende una lampada dopo l’altra, l’iconostasi prende luce e brillano i riflessi dorati delle icone. “L’oro barbaro”, ha scritto Pavel Florenskij, “pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste”. Come già sapevo, la liturgia verrà celebrata in russo e in greco. Le voci calde e baritonali della lingua russa arrivano con nettezza anche nella litì; è così particolare, questo idioma, che mi sembra di assistere a qualcosa di diverso, rispetto alle liturgie cui ho già partecipato negli altri monasteri. È emozionante pensare che fu proprio questa liturgia antichissima e “colma di sublime poesia” (come scrive Dmitrij P. Mirskij) a fornire il principale modello linguistico agli abitanti della vecchia Russia. La mia attenzione viene catturata, ogni tanto, da un monaco alto e robusto, con un profilo da tartaro e i capelli lisci uniti in un lungo codino. Non prega come gli altri, né canta le lodi, ma fa scorrere lentamente, su un libro poggiato su un alto leggio, una candela infissa su un esile moggio. Più tardi, mi confesserà il motivo di quel comportamento: è sordo, e non potendo sincronizzarsi con le voci degli altri monaci segue la liturgia leggendo direttamente dal salterio. Dopo un’oretta ho un soprassalto di sonno, e mi assopisco; nel dormiveglia, avverto che i monaci si muovono con maggiore agitazione e vigore. Che cosa succede? La chiesa piomba un attimo nel silenzio. Poi, improvvisamente, uno scampanio festoso; dalla volta scendono il choros, la grande corona illuminata dai ceri, e il polièleo, il brillante lampadario che ne occupa il centro; calano dai transetti altri lampadari dorati, si accendono lumi e candele, si spande il profumo d’incenso; mentre i lampadari oscillano e la grande corona ruota attorno al suo asse - come il creato ruota attorno a Dio - nelle navate del katholikon di Aghiou Panteleimonos si alza un suono, una nota pura e melodiosa. No, non è una nota, è una voce, una voce così pura e soave che non pare provenire da un essere umano. Ho il cuore pieno di emozione. Come non ricordare le Memorie d’un cacciatore di Turgenev, la descrizione della voce prodigiosa dell’operaio Jakov? “Vi era in essa una sincera e profonda passione, e forza e dolcezza, e non saprei dire che malinconico dolore noncurante e malioso. L’anima russa, veritiera e ardente, echeggiava e si effondeva in quella voce e afferrava il cuore, ne afferrava appunto quel che aveva di russo”. Dopo un attimo di silenzio, tutti i monaci presenti nel katholikon prendono fiato: ed erompe un canto possente e inebriante, che squarcia il buio degli elementi e della coscienza, che avvicina al Cielo, perché trasmette vibrazioni divine. Eccolo dunque, il canto che Emanuele Grassi non aveva potuto ascoltare senza arrivare alle lacrime: “Stanotte all’agrypnia, nella grande cappella tutta affreschi e oro, proveniente dai Monti Urali, nascosto sotto la vetrata di ponente, mentre la luna si levava dal mare, ho provato una strana sensazione: erano pochi di numero i monaci e tutti molto anziani in coro, ma le loro voci, nella salmodia, rimbombavano nella navata, con un crescendo di intensità straordinaria! Voci basse e voci velate, voci tremanti come di strumenti antichi e preziosi, sembravano moltiplicarsi… ognuna diversa, unica, singolare, con un colore proprio, con una propria vibrazione, ma insieme la stessa profonda nostalgia, lo stesso dolore, la stessa speranza… M’ha preso una così profonda commozione che per piangere in pace sono dovuto uscire di corsa dalla chiesa. Trovandomi tutto solo, nel silenzio improvviso, sono salito sul terrazzo più alto del monastero: a levante albeggiava, ma il cielo violaceo tratteneva, per me, ancora tutte le stelle della notte.” Sono commosso anch’io. Forse sono le lacrime versate senza dolore né gioia a dimostrare l’esistenza di Dio. Perché c’è qualcosa dell’Assoluto, il superamento del mondo terreno in questo canto metafisico, un canto che prima circonda l’anima e poi la innalza a una tale altezza che Dio pare diventare l’unico interlocutore possibile. Quando all’alba usciamo dal katholikon, cerco con lo sguardo Sergej e Grigorij, perché sento il bisogno di stringerli in un abbraccio. Mi sorridono con l’espressione di chi ha compreso il mio gesto: mi hanno aiutato a vivere emozioni che non avrei mai potuto attingere da solo. Nel tranquillo Aghiou Panteleimonos ho sperimentato anch’io che cosa voglia dire “navigare su un largo fiume secondo la corrente”: con questa insuperabile metafora Boris Zaitsev delineò il ritmo secolare della vita monastica. Cosa facile solo in apparenza in terra athonita, perché l’Agion Oros è essenziale: qui non c’è spazio per le cose voluttuarie, i vizi, i capricci senza i quali, nel mondo, non riusciamo più a vivere. L’Athos tende al pellegrino una sola mano, quella con cui dona il silenzio, la preghiera, le parole di salvezza che i monaci dispensano a chi si affida alle loro cure spirituali. È con tali sentimenti che saluto il Rossikòn: prima di incamminarmi verso l’arsanas abbraccio un’ultima volta con lo sguardo il katholikòn, il cortile-giardino, la foresteria: non un suono, non un monaco in giro: l’Athos non vive di azioni superflue, di parole inutili. Ecco a che cosa servono i monaci, ecco che cosa si fa al Monte Athos: si serve il Signore pregando e lavorando, perché a nessuno è concesso di attingere gratuitamente l’acqua della vita. |
I due brani sono tratti dal libro inedito Sono divenuto, nella notte, luce, di Armando Santarelli.
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