FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 12 ottobre/dicembre 2008 Suoni di versi |
CHINA NOOK TO di Federico Platania |
In memoria di John Coltrane Parte prima: Acknowledgement
Uno dei giorni più importanti della mia vita è iniziato alle quattro del mattino, mentre intorno a me risuonava un martellante segnale d’allarme. Era il periodo in cui vivevo a Manchester, tirando avanti come cameriere in un pub dall’improbabile nome di “Godot Wine Bar”, dalle parti di Chorlton-cum-Hardy, e quel giorno lì, anzi quell’alba lì, era l’alba che precedeva uno dei miei day-off. Il day off sarebbe il giorno di riposo. Dunque è giusto dire che uno dei giorni più importanti della mia vita è stato un giorno di riposo. Dire perché quel giorno lì sia stato uno dei più importanti della mia vita è qualcosa che adesso non mi va di fare. Né starò, qui e ora – e di questo potete esser certi – a raccontarvi per filo e per segno, come si suol dire, cosa è accaduto in quel giorno (giorno che resta tuttavia uno dei più importanti della mia vita), no davvero. Mi sembra fondamentale, invece, dichiarare, qui e ora, che dopo quella fase solita, in cui il sogno e la veglia si mischiano, mi svegliavo definitivamente per rendermi conto, non senza una certa irritazione, che erano appena le quattro del mattino e che, conoscendomi bene, di sicuro non mi sarei riaddormentato. Mi affacciavo, allora, all’unica finestra della mia stanza in affitto, quella che dava sul vicoletto di Chuzzlewitt Mews e da lì mi godevo lo spettacolo notevole dell’opaca alba che soffocava i sobborghi di Manchester. Il martellìo proveniva dall’allarme antincendio di uno dei negozi del vicolo. Immediatamente provai un senso di gratitudine nei confronti di quel rumore. Anziché maledirlo, perché mi aveva svegliato all’alba dell’unico giorno della settimana in cui potevo dormire fino a tardi, gli fui grato. Cercherò di spiegare perché. Il fatto che all’epoca vivessi in Inghilterra, mi portava più frequentemente del solito a pensare con parole inglesi. E così, mentre guardavo con amore il segnale di allarme, mi si formava nella testa la parola acknowledgement. La mia testa fumosa, ancora persa nelle nebbie del sogno (non vi dirò mai – e di questo potete esser certi – cosa sognai la notte, o meglio l’alba, precedente uno dei giorni più importanti della mia vita. Mai), era tuttavia riuscita a sintetizzare in quell’unica perfetta parola inglese tutti i concetti di gratitudine, riconoscimento e conferma che provavo al massimo grado. Una possente e chiara consapevolezza della mia condizione, a questo mi aveva portato il deng deng deng dell’allarme antincendio di Chuzzlewitt Mews. Ci sono stati periodi della mia vita in cui anche le più comuni attività fisiologiche, quali ad esempio la defecazione e il sesso in ogni sua forma, hanno costituito per me un problema. Periodi in cui la tensione verso qualcosa (più raramente verso qualcuno) era tale che anche l’atto del respirare doveva essere gestito con controllo e pazienza. Dovevo, in altre parole, richiamarmi ogni istante a me stesso per ricordarmi di vivere. Ma tutto questo, che qui e ora scrivo in modo così chiaro e consapevole, mi era del tutto ignoto in quei periodi lì. In pratica c’era un mio me stesso chiuso in questa trappola cianotica, il mio me stesso più autentico vorrei dire, e un altro mio me stesso, inconsapevole della sua condizione di afflitto, che continuava a vivere come se nulla fosse. Il segnale d’allarme, in quell’alba di Manchester, fu dunque catartico. Improvvisamente – ecco l’acknowledgement, la rivelazione fulminea – io capii finalmente con tutto il mio corpo e il mio spirito che ero un individuo in uno stato di allarme, che tutto ciò che riguardava la mia vita era allarmante, che ero in pericolo, in emergenza. E che dovevo salvarmi da tutto questo. Rinvigorito da questa poderosa nuova consapevolezza, mi lavai e vestii con le prime cose che trovai sulla sedia accanto al letto e uscii pieno di rinnovata energia verso quello che – ancora non lo sapevo – sarebbe stato uno dei giorni più importanti della mia vita. Aprii la porta della mia abitazione. Dal pianterreno salivano i bagliori delle fiamme. Le scale erano invase dal fumo.
Parte seconda: Resolution
Ci sono momenti in cui le dissertazioni filosofiche appaiono in tutta la loro poderosa marginalità. Ad esempio, quell’alba lì, l’alba di uno dei giorni più importanti della mia vita, l’aver ragionato a fondo sulla rivelazione fulminea della mia condizione di uomo in allarme era qualcosa di totalmente secondario rispetto al fatto di trovarmi intrappolato tra le fiamme nel mio appartamento di Manchester. Bisognava agire, dunque. Ero un po’ a disagio. Sono sempre stato più bravo a pensare che a fare. Starmene seduto a fumare e a pensare. Probabilmente la cosa che mi riesce meglio nella vita. Quella volta lì, invece, mi toccava proprio trovare una soluzione, cioè muovermi, fare cose. Non è che uno può starsene così, barricato in una stanza in un palazzo in fiamme ad aspettare il fuoco e la morte. Morire proprio ora che avevo raggiunto una così chiara consapevolezza del me. Che smacco. Morire proprio ora che mi trovavo all’alba di uno dei giorni più importanti della mia vita (questo però ancora non potevo saperlo. A posteriori posso comunque ben dire “che smacco”, però). No, dovevo fare qualcosa. Escogitare un piano di fuga e, attenzione signori, metterlo in atto. Dio mio, ne sarei stato capace? L’azione! Come diceva quel filosofo che avevo conosciuto tanti anni prima? “Un cervello non serve a pensare, serve ad agire!”. L’avevo scritta con la vernice sul muro della mia casa natia, a Düsseldorf. Una frase chiave, senza dubbio una delle frasi più importanti che io abbia mai letto in vita mia, fonte di ispirazione di non so più quanti pensieri e – va tuttavia detto – di poche, pochissime azioni. Poi ho pensato che anche fumare era un’azione, in fondo. E così ho estratto una paglia dal pacchetto e ho cercato l’accendino sul tavolinetto in formica che mi faceva da comodino. Poi mi sono detto: “quando mi capita più un’occasione del genere?”. Ho allora aperto la porta del mio appartamentino di Manchester. Le fiamme ormai avevano divorato già il pianerottolo di fronte alla mia porta di ingresso. L’ambiente era pericolosamente invaso dal fumo e io respiravo a fatica. Il corno più ampio di una fiamma crollava vicino al campanello della mia porta di ingresso. «Che storia se ora suonasse», pensai per qualche secondo. Poi mi decisi. Avvicinai la paglia che avevo tra le dita alle fiamme e l’accesi. Accendersi la sigaretta con un incendio. Non capita tutti i giorni. Cominciai a canticchiare una vecchia canzone che adoravo, storpiando un po’ le parole. «Ti piace fumare? / E io ti metto su un incendio per accendino / tu-ttu-tu / ti lascio immaginare / cosa succederebbe / se tu volessi nuotare / tu-tu-ttu». In quel momento sentii un rumore nella stanza da letto. Tornai indietro. L’estremità superiore di una scala estensibile aveva arpionato il mio davanzale. Mi aspettavo di veder sbucare l’elmetto di un pompiere. E invece vidi la visiera di un poliziotto. «Mr. Koch?», chiese quello. Koch. Da quanto tempo non sentivo più quel nome. Mi ero ribattezzato China Nook To. E tutti qui a Manchester mi chiamavano così. E tuttavia «sì», dissi, «sono io». «Mr. Koch – proseguì il poliziotto – lei è in arresto per incendio doloso. Ci segua in centrale». Non erano neanche le cinque del mattino.
Parte terza: Pursuance
Le immagini riprese dalle videocamere di sorveglianza in Chuzzlewitt Mews mostravano il vicolo inquadrato dall’alto. L’orologio visualizzato in sovrimpressione dichiarava che quelle riprese risalivano alle 3:29 di quella mattina. Quando il timer segnò le 3:31 un giovane uomo apparve nell’inquadratura. Indossava solo boxer e maglietta e un paio di ciabatte infradito. Nella mano destra teneva quella che sembrava proprio una tanica di benzina. Il giovane uomo, dopo aver sparso il liquido sui portoni del vicolo, prendeva l’accendino che aveva nell’altra mano e gli dava fuoco. Poi spariva dall’inquadratura. «Riconosce quel giovane?», mi chiese il commissario dopo aver premuto il tasto STOP. «Che domande! – dissi senza staccare gli occhi dai monitor – certo che lo riconosco. Sono io». Eravamo alla stazione di polizia di Longsight, al numero 2 di Grindlow street. Ci eravamo arrivati in un lampo, lungo le strade sgombre di traffico. Manchester, a quanto potevo giudicare guardando dal finestrino, doveva ancora svegliarsi. «Dunque lei ammette di aver appiccato un incendio alle abitazioni di Chuzzlewitt Mews?». «Beh, questo è un modo di vedere la cosa». «Ah, ci sarebbe dunque un altro modo?», chiese il commissario. «C’è sempre un altro modo». «E sarebbe?». Mi guardai intorno, mi tastai la tasca del giubbetto. «Posso fumare?», chiesi. «Direi di no». «Capisco». Ci fu un lungo silenzio. Il monitor che fino a quel momento era stato in pausa sull’ultimo fotogramma della registrazione del vicolo andò automaticamente in stop. Il riverbero delle fiamme verdastre immortalate sul nastro brillò ancora per qualche istante sul nero del monitor. «Ha preso in considerazione l’ipotesi del… sonnambulismo?», azzardai io. «Sonnambulismo?». «Sì, attività automatiche compiute durante il sonno in totale stato di incoscienza». Il commissario si sistemò meglio sulla sedia. Proseguii con il tono della voce più sicuro. «Ecco – dissi – sarebbe proprio questo l’altro modo di vedere la cosa. Da un lato è vero che io ho appiccato l’incendio di Chuzzlewitt Mews. Dall’altro lato è altrettanto vero che quando ho compiuto quel gesto mi trovavo in un totale stato di incoscienza». Il commissario mi guardò. Non riuscivo minimamente a capire se aveva abboccato oppure no. «Lei può dimostrare di soffrire di questa patologia, di questo disturbo del sonno?». «Beh… no». Il commissario sbuffò ridendo. Capii di aver commesso un passo falso. «Mr. Koch – disse lui – temo proprio che la sua posizione si stia complicando». «È strano, perché invece io ho una sensazione diametralmente opposta». «Non capisco». Mi schiarii la voce. «Ecco vede – dissi – è da stamattina all’alba che mi sento… come dire? Bene. Proprio bene. Mi sembra di avere una visione più chiara delle cose. E se non fosse per questo piccolo incidente dell’incendio…». «Piccolo?». «Mi lasci finire, la prego. Stavo dicendo: io sono convinto che al termine di questa giornata la mia vita diventerà decisamente migliore e più parlo con lei più mi persuado del fatto che anche lei, signor commissario, avrà un ruolo in tutto questo». «Mr Koch. Lei è il piromane più strano con cui io abbia mai avuto a che fare». «Non sono un piromane, signor commissario, sono solo un giovane innocente in vacca». «In vacca?». «È un modo dire». Il commissario corrucciò lo sguardo. «I’m a young innocent guy fucked up», dissi. «Capisco». «Ma mi creda, signor commissario, al termine di questa conversazione io sarò un uomo nuovo. E glielo ripeto: lei avrà un ruolo in tutto questo».
Parte quarta: Psalm
«Da quanto tempo è residente a Manchester?». «Un paio di anni circa». «Occupazione?». «Lavoro come cameriere al “Godot Wine Bar”». Il commissario mi guardò con le palpebre strette a fessura. «Godot Wine Bar?», chiese. «Proprio così, il pub in Stationery Shop Street». Il commissario si colpì la fronte con la mano. Credevo che gesti simili li facessero solo nei film. «Ma certo! – disse – ci ho mangiato qualche volta. Fanno una spettacolare tagliata di bisonte canadese». «Può dirlo forte, signor commissario». «Vede, Mr. Koch – disse il commissario – lei mi sembra un bravo ragazzo, in fondo. Ma c’è quel filmato che la inchioda. Io non posso fare finta di niente. Lei ha appiccato un incendio. E io devo applicare la legge». In quel momento un agente entrò portando due grosse tazze di caffè. Le posò sul tavolo, una di fronte a me e l’altra di fronte al commissario e uscì. «Senta – dissi io – sono intenzionato ad andare fino in fondo a questa conversazione e ad accettare il mio destino, qualunque esso sia. Ma ora io devo a-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e fumare. La prego, mi permetta di accendermi una sigaretta». Il commissario mi guardò a lungo, poi si alzò, chiuse a chiave la porta della stanza in cui ci trovavamo e si mise seduto. «Prego – disse – ma non la tiri per le lunghe». Lo ringraziai con un cenno del capo. Estrassi una ciospa dal pacchettino che avevo nella tasca anteriore del giubetto e la infiammai. Tirai una lunga boccata e poi fiatai fuori una fumata bianca. «Ecco – iniziai – questa mattina ho avuto quella che non riesco a definire in altro modo se non come una visione interiore. E così, ora, io ho la chiara consapevolezza di trovarmi di fronte a una svolta della mia vita. Una svolta che inizierà proprio oggi. Da oggi, se le cose andranno come mi auguro, la mia vita sarà diversa e migliore. Ma prima…». Il commissario mi fissò con il mento verso l’alto. Avevo completamente catturato la sua attenzione. «Ma prima… - continuai – …prima ho bisogno di un segno». «Un segno?». «Proprio così. Un segno». «Che tipo di segno?», chiese il commissario, quasi sottovoce. «Voglio avere la prova che l’amore gratuito esiste». Il commissario continuò a fissarmi. Avrei potuto giurare che neanche una cellula del suo corpo avesse compiuto il minimo movimento. «Vede, signor commissario. Siamo qui, io e lei, soli in questa stanza. Qualunque cosa lei deciderà sarà legge. Io sono colpevole, lo riconosco. E lei è la legge. Lei è Dio, signor commissario, qui dentro lei è Dio. Ora, io chiedo a Dio il perdono. Chiedo a Dio di dimostrarmi che è davvero capace di perdono e di clemenza. Voglio essere il destinatario di un gesto di amore gratuito e supremo. Mi lasci libero, signor commissario, mi lasci andare». «E così io sarei Dio?», chiese il commissario, con una smorfia di riso impercettibile. Non risposi nulla. «E lei vorrebbe una prova da Dio?». Di nuovo non dissi niente. «Lei dovrebbe sapere, Mr. Koch, che è un peccato tentare il Signore». Tirai una nuova lunga boccata di fumo. «Ma io non sto tentando il Signore, signor commissario. Io non sono Satana. Io sono un peccatore. E ho bisogno di salvezza». Ci fronteggiammo per qualche secondo in silenzio. Quel discorso ci aveva portato entrambi oltre la frontiera della nostra umanità. «Ci pensi bene, signor commissario – ripresi io – in questo momento, lei ha due possibilità. Applicare ciecamente la legge, mettermi in arresto, fare il suo dovere insomma. Oppure cancellare le prove, lasciarmi libero e permettermi di iniziare la mia nuova vita. Come ripeto, signor commissario, per me, lei, in questo momento, è Dio. E io non posso fare altro che rimettermi alla sua volontà». Spensi la cicca sotto il tacco delle mie Dr. Martens viola. Il commissario si alzò. Girò intorno al tavolo con le mani dietro alla schiena. Anche nell’eccezionalità del momento non potevo fare a meno di notare come questo commissario assumesse sempre atteggiamenti stereotipati, da film. Si girò verso di me, mi fissò negli occhi. Ricambiai quello sguardo. Il commissario, allora, estrasse il nastro dal videolettore e lo buttò nel cestino metallico, poi prese il modulo che aveva davanti, lo appallottolò e lo gettò nello stesso contenitore. «Mi dia l’accendino», disse. Gli porsi il mio zippo. Il commissario lo innescò e diede fuoco al contenuto del cestino dei rifiuti. «Lei è libero, Mr. Koch – mi disse guardando il nastro e la carta che ardevano – lei è libero». Mi incamminai con le mani in tasca lungo Grindlow Street. A quanto potevo giudicare, guardando il cielo, il tempo sarebbe stato sereno per tutto il giorno. Quel giorno lì era uno dei giorni più importanti della mia vita. Anzi, ormai posso dirlo, era il giorno più importante della mia vita. E non erano neanche le sette del mattino. federico.platania@samuelbeckett.it |