“I trentenni e quarantenni di oggi si sono formati in un deserto, causato dal rapido e imprevedibile dissolvimento delle certezze che avevano caratterizzato il Novecento”.
Così esordisce un fortunato e discusso libro scritto da Francesco Delzìo. Uscito alla fine del 2007, Generazione Tuareg. Giovani, flessibili e felici (Rubbettino) offre un’attenta analisi delle difficoltà sociali ed economiche di una generazione costretta a lottare per sopravvivere tra lo strapotere della generazione precedente e la sfrontatezza a-ideologica degli odierni ventenni.
“Colpita e marginalizzata dalle conseguenze della rivoluzione del ’68 e della cultura dello spot televisivo, dai mercati dei servizi chiusi alla concorrenza e dalla riforma Dini, la Generazione Tuareg può riscattarsi solo costruendo una nuova mappa di valori, un nuovo pensiero comune. Coltivando visioni più ampie del proprio interesse, può rovesciare l’approccio di chi oggi è al potere in Italia. Battendo la ‘sindrome dell’alieno’: l’idea - straordinariamente diffusa tra dirigenti pubblici e privati, imprenditori, opinion maker, accademici - che le sorti dell’Italia siano qualcosa di altro rispetto ai propri comportamenti, ai propri giudizi, alle proprie ambizioni”.
Questo è, in sintesi, il pensiero di Delzìo, giovane economista laureato alla Luiss, con prestigiosi incarichi in Confindustria e alla Piaggio, molto attento alle realtà che lo circondano sia nel mondo del lavoro che nella società civile. In pratica, secondo lui, gli odierni quarantenni sono schiacciati dall’opprimente presenza dei loro padri ex sessantottini e dei loro figli che mettono i lucchetti dell’amore a Ponte Milvio. In effetti, qualche verità, queste affermazione potrebbero averle.
I giovani del ’68, padri degli odierni quarantenni, dopo aver distrutto l’ordine precostituito non hanno saputo dare alternative concrete. Soprattutto, secondo Delzìo, i danni provocati dalla vittoria dell’egualitarismo sul merito – il famoso 6 politico dei sessantottini – sono incalcolabili: c’è stato un profondo livellamento verso il basso degli studenti e, insieme, dei docenti universitari. Ciò ha creato una nazione impreparata su tutti i fronti strategici, che spende pochissimo per la ricerca e che costringe i migliori cervelli ad emigrare all’estero per poter lavorare bene e magari affermarsi.
Delzìo attacca anche il preteso diritto allo studio, in quanto non è assolutamente vero che tutti possono permettersi di studiare. Un giovane che vuole fare l’università ha bisogno di una famiglia alle spalle che lo mantenga almeno per dieci anni tra laurea e dottorato. Occorrerebbero delle borse di studio legate al merito come si fa ad esempio negli Stati Uniti, ma sappiamo bene che in Italia quasi non esistono. Allora sono paradossalmente i poveri che, con le loro tasse, mantengono le università che possono permettersi di frequentare solo i figli dei ceti medio alti. Con buona pace del ’68.
La soluzione per gli atenei è quindi, sempre secondo Delzìo, quella americana: atenei molto specializzati, dotati anche di robusti finanziamenti privati, e retribuzioni di docenti e ricercatori legate al merito e ai risultati.
E per gli odierni quarantenni, vittime di lavori precari e di riforme pensionistiche che li faranno lavorare per tutta la vita, non resta che una sola soluzione: “Costretti a vagare in un mare senz’acqua come i nomadi del deserto, privi delle bussole che avevano guidato padri e nonni. Proprio come i Tuareg hanno una sola chance per sopravvivere: affrontare il deserto in gruppo, abbandonando l’iper-individualismo di fine Novecento”.
Le parole d’ordine sembrano proprio essere due: merito e gruppo. Ma qui esce fuori una sottile contraddizione in termini che Delzìo non ci spiega.
Forse il discorso si fa più chiaro se dal sociale si passa alla letteratura. Esistono scrittori quarantenni? Cosa fanno per essere letti? Cosa fanno per sopravvivere? Di cosa parlano? Probabilmente oggi, se esistesse un nuovo Italo Calvino, potrebbe solo ritagliarsi dello spazio su Internet.
Lo hanno capito molto bene, e molto prima di Delzìo, un gruppo di scrittori bolognesi che, con lo pseudonimo di Luther Blissett prima e di Wu Ming dal 2000, hanno pubblicato prima in rete e poi in cartaceo (in Italia editi da Einaudi) alcuni tra i romanzi più interessanti degli ultimi anni. Il romanzo Q è diventato col tempo un vero e proprio caso editoriale. Si tratta di un romanzo storico interessantissimo, ambientato in Europa ai tempi della Riforma protestante; un quadro corale di un’epoca che nulla ha da invidiare ai romanzi storici del passato, compreso l’eruditissimo Il nome della rosa di Umberto Eco. Lo stesso progetto e lo stesso successo avrà il romanzo 54 che ci trasporta dentro agli avvenimenti e nel clima dell’Italia del 1954. Si parla di Cary Grant, del maresciallo Tito, di Trieste, dei mondiali di calcio, della Romagna rossa. È un affresco corale di una generazione, quella dei nonni.
Sembra quasi che gli scrittori quarantenni, non riuscendo a trovare punti di riferimento nei padri, cerchino in ogni modo di confrontarsi con i loro nonni, nei loro racconti di guerra e di dopoguerra.
I nonni italiani sono diventati i veri eroi degli scrittori quarantenni. I nonni che hanno fatto la guerra, la resistenza, i nonni che hanno risollevato il Paese dalle macerie e hanno creato il benessere economico. I padri invece, quelli che hanno fatto il ’68, hanno portato il terrorismo, gli anni di piombo e le insicurezze, hanno corrotto e si sono venduti al miglior offerente. Poi hanno scippato i loro figli del futuro creando precarietà e sottosviluppo.
In un recente pamphlet, Blu e Rosso. Viola (Aletti, 2008), la “quarantenne” Cristiana Iannotta racconta del suo rapporto con la nonna contrapponendolo a quello con la madre:
Era talmente “moderna” nei pensieri che si trovava 1000 volte avanti a mia madre. Nel periodo dell’adolescenza, quando il conflitto madre-figlia raggiunge forse l’apice è sempre stata nonna a fare da paciere, a venire a parlare con me dopo qualsiasi discussione. (…) Non ho avuto lo stesso rapporto di dialogo con mia madre, il “Signor No”, sentivo più vicina a me nonna, forse perché lei sapeva ascoltare.
(pag.31)
Potrebbe essere la metafora di una generazione, dei figli che si sentono traditi (inascoltati) dai padri. Dei figli post-sessantotto senza più ideologie né ideali, che a fatica provano a ritrovare nei nonni l’essenza delle cose, come a voler ripartire dalle radici, da un rapporto (e da un legame) più forte e autentico.
La “generazione Tuareg”, in sostanza, rispetta e onora la saggezza degli anziani, come se loro, e non i genitori, possano aiutarli ad attraversare il deserto, le difficoltà legate alla crescita, alla maturazione, e ad affrontare quel “precariato” – sociale ed economico – che caratterizza il nostro tempo.
o.palamenga@tin.it