FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 11 luglio/settembre 2008 Generazioni |
L’ECLISSI DI SOLE di Riccardo De Gennaro |
C’è uno spicchio dell’anno in cui i miei hanno la stessa età. Mio padre, che è nato prima, distanzia mia madre l’ultimo giorno di ottobre, mia madre raggiunge mio padre a metà settembre: durante quei quarantacinque giorni a me sembra che le loro vite si sovrappongano. Mio padre diventa più dolce, non alza mai la voce, mi chiede se porto la maglietta sotto la camicia. Mia madre è scontrosa, egoista e – prima di andare a dormire – non mi dice più buonanotte. Io lo chiamo il periodo dell’eclissi di sole. L’eclissi è il momento in cui le ombre si confondono e si scambiano i propri oggetti, fino a che non sopraggiunge il buio totale, dove non ci sono più né cose, né certezze. La nostra casa ha un lungo corridoio, a destra si aprono tre stanze, a sinistra, alternate alle prime, altre due. A partire dall’ingresso sono nell’ordine, il bagno grande, a destra, la cucina, a sinistra, la stanza da pranzo, a destra, la mia camera, a sinistra, la stanza dei miei genitori, giù in fondo, nuovamente a destra. Tra la cucina e la mia camera da letto ci sono un grande armadio a muro e lo stanzino dello stendibiancheria, dove trovano posto anche un piccolo lavandino, la lavatrice, un water ad uso mio personale. Sui muri del corridoio mio padre ha appeso alcune vecchie stampe di Parigi, che nel periodo dell’eclissi mia madre non si stanca di raddrizzare. La sera del 16 settembre di ogni anno, mia madre porta in tavola due uova al padellino a testa, sei in tutto, alle quali ha aggiunto un po’ di salsa di pomodoro. Mio padre chiede: “Non c’è altro?”. Mia madre risponde semplicemente: “No”. Ce ne siamo accorti soltanto da qualche anno, io e mio padre, che il 16 settembre si mangiano uova al padellino. Non si sfugge. Come il sole che sorge tutte le mattine, così io, la sera del 16 settembre, vedo tramontare nel mio piatto due rossi d’uovo più forti di ogni legge statistica. Il 15 settembre, in occasione del compleanno di mia madre, mio padre ci porta al ristorante. Paga lui. Non c’è verso di fargli cambiare idea. “Pago io”, s’impunta. Io non guadagno molto. Sebbene abbia ormai superato da un pezzo la trentina, non riesco a mettere insieme più di 600 euro al mese: la cooperativa mi sbatte di qua e di là a montare giostre e impalcature, riordinare gli scaffali nelle biblioteche, rimettere a posto i carrelli nei parcheggi degli ipermercati, pulire gli utensili da lavoro nelle botteghe artigiane. Ma prima o poi vorrei poter offrire io la cena del compleanno di mia madre. Se non è quest’anno è il prossimo, giuro. Anche mia madre vorrebbe protestare, ma siccome è la festeggiata non può che disapprovare in silenzio. Il giorno dopo, come abbiamo visto, mia madre ricambia con le uova al burro. Non ci spieghiamo perché ci aggiunge la salsa di pomodoro, che né io, né mio padre tolleriamo. È forse un segno di disprezzo? Il 17 settembre mia madre si alza all’alba ed esce senza salutare. Quando è ormai in fondo al corridoio lancia un urlo: “Vado a cercare lavoro”. Afferra la porta e la sbatte dietro di sé con la forza inaspettata della casalinga. Non so quale sia in quel momento la reazione di mio padre. Nel caldo del mio letto io mi limito ad esclamare: “Bene!”. E a girarmi dall’altra parte. Ci sarebbe da impazzire se non si passasse sopra a cose come questa. La sera del 17 settembre mio padre rientra dall’ufficio un paio d’ore prima del solito. Anche questo accade tutti gli anni. Non appena apro la porta d’ingresso scorgo la luce accesa in cucina, avanzo di due passi, getto l’occhio e vedo mio padre, curvo, il grembiule legato a vita, che scruta nel forno come se fosse davanti a un acquario. Al di là del vetro c’è, posso scommetterci, una teglia con un arrosto striminzito, circondato da decine di patate nascoste sotto un tappeto di rosmarino. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, la sua professione di agente assicurativo mal si concilia con l’osservanza delle più elementari norme di sicurezza in casa. Sono io, infatti, che devo precipitarmi a spegnere il gas sotto l’acqua che bolle e che ormai ha spento la fiamma. “Ah, sei tu”, dice mio padre. Mia madre non è ancora rientrata, non ha telefonato, non si prevede il suo arrivo - come tutti i 17 settembre - prima delle nove di sera. Ci tocca mangiare senza donne: sua moglie, mia madre. Mio padre è inaspettatamente gentile, mi versa il vino rosso: “L’ho trovato da Vasco, erano anni che non assaggiavo più il Morellino”. La tentazione è di ubriacarci, fare baldoria, approfittare dell’assenza di mia madre. Poi mio padre ci ripensa: impazzirebbe se al rientro trovasse tutto questo disordine. Disordine? Si mette a raccogliere le bucce del salame in terra, mangiucchia tutte le briciole di pane sulla tovaglia, vuota i piatti nella spazzatura. È disperato per l’unto del forno. Cerca e non trova il detersivo adatto. Io me ne vado in camera. Metto su un cd degli Art Ensemble, mi sdraio sul letto e guardo il soffitto. I minuti trascorrono lenti, scanditi dai fraseggi della tromba nevrotica di Lester Bowie e dal contrabbasso di Malachi Favors Maghostut. Le improvvisazioni del gruppo mi fanno pensare alla vita di famiglia. Il contrabbasso è la voce di mio padre, ferma e autorevole, il soprano di Roscoe Mitchell è mia madre, talora lamentoso, talaltra singhiozzante. Poi ci sono io, parlo come lo splendido giocattolo di Bowie e penso che qualcuno ha osato suggerire ai miei di ricoverarmi in manicomio. Venite in fabbrica con me e vedrete la forza e la lucidità di cui bisogna essere dotati per staccare a tarda sera e non farsi appiattire dal primo camion che passa. Il vero manicomio è la famiglia. Nei giorni dell’eclissi di sole mi sento come se fossi sottoposto a terapia intensiva. A un certo punto il sax soprano si mette a gridare, un po’ come la chitarra di Jimi Hendrix di quando ero più giovane: tu sei qui, tu sei là, tu starai sempre qua, za-za-za. Poi fa una bella pernacchia, il verso di un tacchino nel giorno del Ringraziamento, imita il soffio della peretta che non è stata riempita d’acqua. Tu sei qui, tu sei là, tu starai sempre qua... Il fatto che non abbia lasciato la famiglia, nonostante i miei 34 anni, è la naturale conseguenza di una mia riflessione particolarmente precoce: non ho nessuna intenzione di infliggere sofferenze ad altre persone, donne e bambini in particolare. Preferisco fare danni, in quanto membro di un nucleo familiare, una sola volta. Sì, è vero, potrei andare a vivere da solo. Ma, difficoltà economiche a parte, ho deciso deliberatamente di insistere nella mia condizione di figlio, coscienza critica e punitiva di una coppia senza fondamento, i miei. I miei si sono sposati per caso. Lui, babbino caro, aveva bisogno di una donna di servizio per potersi dedicare esclusivamente e senza pensieri alle sue polizze di assicurazione, lei cercava un uomo tutto d’un pezzo, che le spiegasse la vita e le fornisse delle certezze. Troppo tardi si è accorta che la vita gliela spiegava in modo sbagliato, al punto che non si è neppure premurata di correggerla. È chiaro che mia madre tornerà a notte inoltrata. Mio padre fa finta di niente, ma non riesce a nascondere un brivido di paura. I giorni dell’eclissi sono spaventosi. All’improvviso s’affaccia sull’uscio e mi chiede se può spegnere la televisione. Lo sa benissimo che io la tv non la sopporto e che non ci guardo più un film dai tempi di Belfagor. Mi chiedo se non potrebbe “spalmare” questo surplus di gentilezza su tutti i giorni dell’anno. Sarebbe più facile sopportarlo nei mesi che vanno da novembre ad agosto e probabilmente, a quel punto, mi deciderei ad andarmene. In ogni caso gli dico: “Sì, grazie, buonanotte”. Di mia madre nessuna traccia. Domani mattina, 18 settembre, sentirò le sue urla.
Non ha trovato lavoro. Al collocamento le hanno detto che è troppo anziana. I nuovi contratti parlano chiaro: limite massimo per il tempo determinato e il part time 29 anni, per l’interinale 38. Non ci sono speranze, ma lei non demorde. Oggi ci riprova. Dal 18 al 23 settembre ha battuto la città praticamente porta a porta. I negozi vogliono commesse carine, le aziende segretarie che conoscano l’inglese e Microsoft word. Ha cercato lavoro come baby sitter, guardarobiera, autista dell’autobus, bigliettaia dello stadio, donna tuttofare, giardiniere, rappresentante, agente di viaggio, animatrice, bidella, barista, lavavetri, idraulico, antennista, maestra di tennis, parrucchiera. Niente. Le ho chiesto se voleva che chiedessi in cooperativa, mi ha risposto: “Sono una libera professionista, io”. Ho temuto che aggiungesse: “Pezzo di coglione”. Poteva farlo. L’eclissi di sole è peggio, lo dico per esperienza, di un’insolazione. La sera del 23 settembre mia madre è tornata a casa raggiante. Aveva trovato un posto come “creativa” in un’agenzia di pubblicità. Perbacco! Ci ha detto: “Sono entrata in questo posto con tutti quei velluti e le poltroncine scomode e ho detto al portiere: vorrei parlare con il presidente. Mi ha chiesto se avevo un appuntamento. Certo che ce l’ho, ho bluffato. Cognome? Anna Bye Bye. Va bene. Salgo al terzo piano della palazzina e mi viene incontro un tipo vestito di giallo, lo squadro e gli dico: piacere sono Anna Bye Bye, di qui non me ne andrò mai. Lo scemo si mette a ridere a crepapelle, salta, impazzisce, singhiozza, addirittura. Io temo che stia per soffocare, faccio per chiamare l’usciere dalla tromba delle scale quando quello si rialza, mi si avvicina e con un sorriso a piena bocca esclama: dente per dente, io sono il presidente! E giù di nuovo a sghignazzare. Dunque, per farla breve, mi ha presentato tutti i suoi collaboratori. Mi ha fatto vedere i manifesti delle ultime campagne pubblicitarie, una più stupida dell’altra, mi ha detto che d’ora in avanti studierò gli slogan per il lancio dei prodotti destinati alle casalinghe. È convinto che le rime siano tornate di moda”. Mia madre si è comprata tutto Foscolo e Carducci. Dice che gli servono per creare. Ora veste in blu, tailleur blu, camicetta blu, calze, scarpe, tacco a spillo blu. Soltanto la pochette è bianca. Si sente una donna manager. Esce di casa con una valigetta rigida in cuoio chiaro. Saluta mio padre in questo modo: “Questa sera non ci sono, vengono dei giapponesi”. Oppure: “Caro, per cena mi piacerebbe tanto un branzinetto in crosta di sale”. Lui annuisce: “Come vuoi, amore”. Il 7 ottobre non si è neppure accorta che mio padre ha comprato una pianta tropicale per il salotto. Io mi sono avvicinato per fargliela notare, ma lei mi ha cacciato via con una mano. “Non sono una mosca”, le ho detto. “Povero ragazzo, sii gentile con lui”, l’ha rimproverata scherzosamente mio padre. “Tu stai zitto – ha replicato lei – povero ragazzo chi? Non è neppure in grado di trovarsi un posto fisso. Dovremo tenercelo in casa tutta la vita”. Ah, su questo puoi contarci, bella mia, ho pensato. Mentre ritirava la mano mi è parso che sul dorso avesse una macchia scura, direi qualcosa di peloso se la cosa non fosse incredibile.
Ai loro esordi gli Art Ensemble, che quando divennero famosi e cominciarono le tournée negli States si chiamarono Art Ensemble of Chicago, non usavano il pianoforte. Piuttosto ricorrevano a due contrabbassi, affiancando Charles Clark a Favors, ma pianoforti zero. Senza questo strumento la musica è qualcosa di primitivo: io credo che il pianoforte sia l’unico strumento musicale figlio della civiltà. Il suono del flauto, del sassofono, delle percussioni, dell’arpa e dei violini è copia di suoni riproducibili con altri mezzi disponibili in natura. Il pianoforte no: per suonare un pianoforte ci vuole il pianoforte, non si scappa. L’altra sera – mia madre non era ancora rientrata – ho scoperto mio padre che guardava nei suoi cassetti. L’ho visto tirare fuori un paio di calze e un reggicalze, anche uno slip di pizzo nero. Ha portato gli indumenti al naso e poi li ha rimessi a posto. Ho chiuso la porta e sono tornato in camera da letto. Era saltata la puntina da disegno a un angolo del manifesto di Groucho Marx, quello dove ha le braccia dietro alla nuca, il sigaro in bocca e osserva leggermente in alto con aria trasognata. Un po’ più in su, a sinistra, ho affisso la riproduzione di un disegno erotico di Egon Schiele, una bambina che dorme con la gonna alzata sulla schiena, cosicché è immediatamente spiegato che cosa sogni Groucho. Nella sua autobiografia Groucho sostiene che per il 90 per cento le autobiografie sono pura invenzione perché se si scrivesse la vita vera della maggior parte degli uomini famosi non ci sarebbero abbastanza galere per ospitarli. Mia madre è tornata a casa alle quattro del mattino. Me ne sono accorto perchè a un certo punto mi sono svegliato per la puzza di un sigaro. Era lei: ma non se lo portava addosso, lo stava fumando. È andata in bagno e ho sentito un indiscutibile rutto, che è stato amplificato dal lavandino. Forse stava vomitando. Mio padre ha continuato a dormire. Siccome ormai ero sveglio, mi sono sincerato che la porta d’ingresso fosse chiusa. Dall’occhiolino sulle scale sono ancora riuscito a scorgere il lembo di una gonna rossa. La mattina dopo mio padre ha preparato la colazione per tutti. Si era messo un grembiule e ho scoperto che sotto era completamente nudo: quando si è voltato aveva le natiche scoperte. Mia madre stava spalmando il burro sulla fetta di toast: si è fermata e ha passato il coltello sul sedere bianco di mio padre. “Dovresti raderti anche il culo, se non lo fai tu, una di queste sere ci penso io”, ha detto adirata. Mio padre ha fatto di sì col capo e con la mano si è asciugato l’unto del burro. Poi si è succhiato le dita. Ho pensato che mio padre ha ormai perso la testa. Forse ha noie sul lavoro. Nelle precedenti eclissi, i miei genitori avevano talvolta manifestato qualche squilibrio, mai però fino ad arrivare al punto, la sera del 25 ottobre, che mio padre s’inginocchiasse sotto la tavola e togliesse le scarpe a mia madre con la bocca. Quando ha fatto cadere la seconda, lei si è chinata e gli ha mollato un ceffone a cinque dita. Mio padre si è messo a piangere e, offeso, si è ritirato in camera da letto. Ho visto mia madre che si alzava, forse andava a chiedergli scusa. È passata prima nel bagno, ha preso qualche cosa ed è entrata in camera. Io ho terminato l’uva rimasta in tavola. Credevo che stessero dormendo, tale era il silenzio. La porta era socchiusa. Mio padre era inginocchiato davanti al letto, la faccia sul cuscino, il sedere bene in aria. Mia madre, seduta a gambe aperte sulla sua schiena, gli radeva le natiche. Ogni tanto si sporgeva e faceva cadere un poco di saliva per agevolare il viavai del rasoio. Avrei preferito non vedere la scena. Impotente di fronte ad accadimenti così singolari, mi sono tuffato nella lettura di Groucho Marx.
Questa settimana sono impegnato nel trasloco di una biblioteca di quartiere. Il proprietario ha sfrattato il Comune, perché ha bisogno dei locali. La cooperativa aveva scelto altri operai, sono io che mi sono offerto volontario. Amo i libri, in particolare quelli che non si trovano più. Per prima cosa abbiamo portato via tutto quello che non riguardava i libri, in modo da liberare gli spazi per gli scatoloni nei quali mettere i volumi. Il giorno dopo abbiamo tirato giù tutti i libri dagli scaffali, che abbiamo smontato e caricato sul camion. Oggi 31 ottobre, la festa di mio padre, ultimo giorno dell’eclissi, abbiamo iniziato a mettere i libri negli scatoloni, un’operazione che non è stato possibile compiere al momento dello svuotamento degli scaffali poiché i cartoni non erano ancora disponibili. Ora, qui, ci siamo soltanto io, un paio di colleghi, gli scatoloni, i libri e un telefono sul pavimento. Le nostre voci risuonano contro le pareti. Mi sono reso conto che esistono libri che nessuno immagina, mi chiedo come mai siano stati pubblicati, quanto abbiano venduto. Numerose copertine sono strappate e questo mi ferisce. Alcuni volumi sembrano nudi, l’etichetta della biblioteca con il numero è la foglia che ne copre le parti intime. A un certo punto è squillato il telefono ed è sembrato che squillassero tutti i telefoni del mondo. Ha risposto il collega più vicino. L’ho visto che faceva un cenno col capo, “sì è qui”, ha detto, poi mi ha chiamato. Sono sceso dalla scala, ho fatto alcuni passi alla maniera di Groucho, mimando anche il sigaro tra le dita, poi ho afferrato la cornetta e ho detto ridendo: “Prontooooo?”. A quel punto una voce maschile ha sussurrato nel mio orecchio: “È successa una disgrazia, tuo padre si è impiccato in camera da letto”. Quando sono arrivato a casa pendeva ancora dal gancio del lampadario. La prima cosa che ho visto è stata la lingua fuori dalle labbra, poi le labbra viola, il segno della corda intorno al collo. Solo successivamente mi sono accorto che era nudo e indossava calze e reggicalze da donna. Il commissario mi ha detto: “Dovrei farle alcune domande. Se la sente?”. Ho fatto di sì con la testa. Lei era al corrente che sua madre aveva una storia con un’attrice?". Ho di nuovo fatto di sì con la testa, ma soltanto per semplificare le cose, non ne sapevo nulla. “Come spiegherebbe il gesto di suo padre? La gelosia, forse?”. Ho guardato ancora il capo reclinato di mio padre e ho risposto: “No, la colpa è dell’eclissi”. Il commissario ha fatto una smorfia: “Eclissi? Quale eclissi?”. “L’eclissi di sole”. Qualcuno aveva aperto la finestra. Ho fatto un giro intorno al cadavere appeso al gancio. Mentre il commissario diceva a un suo agente di non essere a conoscenza di eclissi recenti, un raggio di sole ha raggiunto il sedere di papà, che è sembrato più luminoso di una lampadina.
Una prima versione del racconto è uscita sulla rivista “Maltese narrazioni”, n. 22, maggio 1998. |