FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 11 luglio/settembre 2008 Generazioni |
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Questa è una storia che ho sentito raccontare tante volte. Stavolta la racconto io. Il 3 febbraio del 1959 è iniziato da pochi minuti. Le macchine, lungo la interstatale 35, corrono veloci. Passata la mezzanotte sono pochi i locali e i ristoranti di Clear Lake, Iowa, con le insegne ancora accese. Anche le luci della Surf Ballroom si sono appena spente, il concerto è finito. Fuori dal locale i musicisti che si sono appena esibiti si rilassano, scambiano quattro chiacchiere scherzando in tranquillità ora che la tensione da palcoscenico è alle loro spalle. La band è costituita da validi strumentisti. C’è ad esempio il cantante e chitarrista Jiles Perry Richardson Jr. detto “Big Bopper”, c’è il cantante Francis DiMucci detto “Dion”, c’è il chitarrista Tommy Allsup, c’è anche Waylon Jennings, che sarebbe poi diventato uno dei più celebri folksinger americani, ma che ora è solo un giovane bassista. Tutti musicisti in gamba. Ma due di loro sono qualcosa di più che rocker di talento. Sono già delle star: Buddy Holly, l’occhialuto nerd del rock’n’roll, già fa impazzire i teen-ager americani con le sue filastrocche rockabilly come “Peggy Sue” o “Everyday”. E Ritchie Valens che ha visto la sua vita cambiare grazie a una semplice canzonetta, “La bamba”, una canzone tradizionale messicana vecchia di trecento anni, riletta in chiave chicano-rock e piazzata come lato B di un 45 giri, divenuta in poco tempo un successo planetario. Eccoli qui, questi ragazzi del rock’n’roll. Età media ventitre anni, promesse della musica imbarcate tutte insieme nel Winter Dance Party Tour, una frenetica tournée di 24 date in 3 settimane che dovrebbe concludersi il 15 febbraio. Sono pressappoco a metà della fatica e le cose stanno andando benissimo: il concerto di quella sera è stato memorabile, il pubblico è impazzito.
Mentre Ritchie Valens sta ancora firmando autografi alle sue fan, Buddy Holly ha già contattato l’aeroclub locale, il Dwyer Flying Service. C’è un piccolo aereo disponibile, un Beechcraft Bonanza da quattro posti, compreso quello per il pilota: Roger Peterson, giovane anche lui, ventuno anni.
Non è neanche l’una di notte quando il Beechcraft Bonanza N3794N decolla dalla pista innevata di Clear Lake alla volta di Fargo. A bordo, dunque, oltre al giovane pilota Peterson, ci sono J. “Big Bopper” Richardson e due delle più celebri rock’n’roll star del momento: Buddy Holly e Ritchie Valens.
Nell’immaginario rock il 3 febbraio del 1959 è stato definito “The day that music died”, il giorno in cui morì la musica. Molti anni dopo, un altro cantautore americano, Don McLean, dedicherà una canzone a quella giornata infausta: «American Pie», altro brano mitico della storia del rock (e – a giudizio di chi scrive – l’unica canzone buona scritta da McLean…). Un volo di pochi minuti. Così tanto talento musicale scomparso improvvisamente e simultaneamente.
La storia del rock è fatta anche di morti, suicidi leggendari, trapassi emblematici. Elvis Presley, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Ian Curtis, Kurt Cobain. La scomparsa di Buddy Holly ha qualcosa in più, perché è stata una delle prime, quando la musica rock doveva ancora sprigionare tutto il suo incredibile potenziale mediatico e popolare. Come i maestri del rinascimento non hanno mai potuto vedere le tele degli impressionisti, come i drammaturghi elisabettiani non hanno mai conosciuto il teatro contemporaneo, così Buddy Holly e altri rocker degli anni Cinquanta se ne sono andati senza poter neanche intuire come e quanto si sarebbe sviluppata l’arte cui avevano contribuito a gettare le basi.
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