FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 11
luglio/settembre 2008

Generazioni

ASCOLTARE
una rubrica per le orecchie

di Federico Platania


Il giorno in cui morì la musica


Questa è una storia che ho sentito raccontare tante volte. Stavolta la racconto io.

Il 3 febbraio del 1959 è iniziato da pochi minuti. Le macchine, lungo la interstatale 35, corrono veloci. Passata la mezzanotte sono pochi i locali e i ristoranti di Clear Lake, Iowa, con le insegne ancora accese. Anche le luci della Surf Ballroom si sono appena spente, il concerto è finito. Fuori dal locale i musicisti che si sono appena esibiti si rilassano, scambiano quattro chiacchiere scherzando in tranquillità ora che la tensione da palcoscenico è alle loro spalle. La band è costituita da validi strumentisti. C’è ad esempio il cantante e chitarrista Jiles Perry Richardson Jr. detto “Big Bopper”, c’è il cantante Francis DiMucci detto “Dion”, c’è il chitarrista Tommy Allsup, c’è anche Waylon Jennings, che sarebbe poi diventato uno dei più celebri folksinger americani, ma che ora è solo un giovane bassista. Tutti musicisti in gamba. Ma due di loro sono qualcosa di più che rocker di talento. Sono già delle star: Buddy Holly, l’occhialuto nerd del rock’n’roll, già fa impazzire i teen-ager americani con le sue filastrocche rockabilly come “Peggy Sue” o “Everyday”. E Ritchie Valens che ha visto la sua vita cambiare grazie a una semplice canzonetta, “La bamba”, una canzone tradizionale messicana vecchia di trecento anni, riletta in chiave chicano-rock e piazzata come lato B di un 45 giri, divenuta in poco tempo un successo planetario.

Eccoli qui, questi ragazzi del rock’n’roll. Età media ventitre anni, promesse della musica imbarcate tutte insieme nel Winter Dance Party Tour, una frenetica tournée di 24 date in 3 settimane che dovrebbe concludersi il 15 febbraio. Sono pressappoco a metà della fatica e le cose stanno andando benissimo: il concerto di quella sera è stato memorabile, il pubblico è impazzito.
Ma l’imperscrutabile aleggia sui ragazzi del rock’n’roll.
Il pullman che li sta portando in tour ha l’impianto di riscaldamento rotto. Fa un freddo cane, in pieno inverno, in Iowa. La prossima tappa è Moorhead, in Minnesota e Buddy Holly, soprattutto lui, non ha per niente voglia di farsi cinquecento chilometri a bordo di quel frigorifero. E poi i soldi stanno girando alla grande, la band può permettersi qualcosa di meglio. Buddy decide di affittare un piccolo aereo privato che li porti in poco tempo a Fargo, a un tiro di schioppo dalla località del loro prossimo concerto.

Mentre Ritchie Valens sta ancora firmando autografi alle sue fan, Buddy Holly ha già contattato l’aeroclub locale, il Dwyer Flying Service. C’è un piccolo aereo disponibile, un Beechcraft Bonanza da quattro posti, compreso quello per il pilota: Roger Peterson, giovane anche lui, ventuno anni.
Tre posti per i passeggeri, sei musicisti. Bisogna stabilire chi si godrà la comodità del volo e chi dovrà invece farsela su strada sul pullman-frigorifero. «Non ci provate neanche – dice Buddy agli altri – io ho rimediato l’aereo e io ci salgo sopra di sicuro». E uno. Ritchie Valens se la gioca testa o croce con Tommy Allsup. La moneta da 50 cent volteggia in aria e precipita sul palmo del divo de “La bamba”. «Mi dispiace amico – dice Valens ad Allsup – ho vinto io». E due. Jennings sceglie di cedere spontaneamente il posto a “Big Bopper” Richardson, febbricitante. «Già non ti senti bene. Se ti fai il viaggio a bordo di quella cella frigorifera arrivi a Moorhead con le corde vocali congelate – dice Waylon Jennings al suo compagno di band – non possiamo permettercelo». “Big Bopper” accetta senza fare complimenti. E tre. Buddy Holly si diverte a sfottere Jennings: «Ti congelerai le chiappe su quel bus, Waylon!». «’Fanculo Buddy – risponde l’amico ridendo – che possiate schiantarvi al suolo con quel trabiccolo». Quella frase perseguiterà Jennings per tutta la vita.

Non è neanche l’una di notte quando il Beechcraft Bonanza N3794N decolla dalla pista innevata di Clear Lake alla volta di Fargo. A bordo, dunque, oltre al giovane pilota Peterson, ci sono J. “Big Bopper” Richardson e due delle più celebri rock’n’roll star del momento: Buddy Holly e Ritchie Valens.
Pochi minuti dopo il decollo comincia a soffiare un vento gelato da nord est. La neve cade fitta. È notte fonda eppure è tutto bianco. La terra sotto di loro è bianca, il cielo intorno a loro è bianco. Impossibile orientarsi a vista. A Peterson non resta che affidarsi alla strumentazione di bordo, ma è molto inesperto e – si scoprirà poi – non ha mai conseguito la certificazione necessaria per volare solo con gli strumenti.
Le luci di coda non sono già più visibili nel bianco che circonda ogni cosa. La torre di controllo dell’aeroporto di Mason City tenta invano di mettersi in contatto con la cabina di pilotaggio del Beechcraft Bonanza. Il velivolo si inclina su un lato. Troppo. Un’ala colpisce il terreno. L’aereo comincia a carambolare sul suolo ricoperto di neve fino a quando non si sfracella definitivamente. I corpi di Holly, Valens e Big Bopper schizzano fuori dall’abitacolo, quello di Peterson resta incastrato tra le lamiere. Nessuno di loro sopravvive.

Nell’immaginario rock il 3 febbraio del 1959 è stato definito “The day that music died”, il giorno in cui morì la musica. Molti anni dopo, un altro cantautore americano, Don McLean, dedicherà una canzone a quella giornata infausta: «American Pie», altro brano mitico della storia del rock (e – a giudizio di chi scrive – l’unica canzone buona scritta da McLean…). Un volo di pochi minuti. Così tanto talento musicale scomparso improvvisamente e simultaneamente.
Dei tre musicisti morti nell’incidente, la perdita più clamorosa è senza dubbio quella di Buddy Holly. La carriera di questo ventitreenne di Lubbock, Texas è durata solo tre anni (il suo primo singolo, “Blue Days, Black Nights” è del 1956) ma gli sono stati sufficienti per piantare i semi del rock a uso e consumo di innumerevoli generazioni a venire. Dalle più oscure band a Beatles e Rolling Stones, tutti riconoscono il debito che hanno avuto nei confronti di Mr. Holly. Il suo look da bravo ragazzo, la libertà formale, a tratti dadaista, dei suoi testi, la ricchezza degli arrangiamenti delle sue canzoni sono stati tutti lasciti messi a frutto da chi è venuto dopo di lui.

La storia del rock è fatta anche di morti, suicidi leggendari, trapassi emblematici. Elvis Presley, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Ian Curtis, Kurt Cobain. La scomparsa di Buddy Holly ha qualcosa in più, perché è stata una delle prime, quando la musica rock doveva ancora sprigionare tutto il suo incredibile potenziale mediatico e popolare. Come i maestri del rinascimento non hanno mai potuto vedere le tele degli impressionisti, come i drammaturghi elisabettiani non hanno mai conosciuto il teatro contemporaneo, così Buddy Holly e altri rocker degli anni Cinquanta se ne sono andati senza poter neanche intuire come e quanto si sarebbe sviluppata l’arte cui avevano contribuito a gettare le basi.

 

federico.platania@samuelbeckett.it