FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 5 gennaio/marzo 2007 Alterazioni climatiche |
TERRE DESOLATE: RIFIUTI NELLA TEMPESTA di Fabio Pedone |
La paventata catastrofe climatica, e la crescente saturazione di rifiuti e liquami in cui annega il mondo globalizzato, sono tra i pochi temi oggi in grado di trasmettere il senso della fine del mondo come un presagio che prende improvvisamente corpo, proiettando la sua ombra su ogni futuro. Affermazione netta di un'ovvietà evidente; ma appare irrinunciabile definire chiaramente anche ciò che è ovvio, in un'epoca che ha reso ovvi (assorbendoli e neutralizzandoli nel campo della fiction) i conflitti e i massacri che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi; peraltro relegando in fondo ai giornali, farciti sempre più di inutilità mondane, le allarmanti notizie sulla catastrofe climatica a cui stiamo andando incontro. L'aria fosca dell'apocalisse spira in tanta letteratura del Novecento, e della maggiore; con l'inevitabilità dei presagi, degli spettri che chiedono udienza a una coscienza non si sa se più distratta o colpevole. Secondo le suggestioni simboliche che presiedono a questa visione, gli spettri del sottomondo emergeranno in folla invadendo la terra, e stabilendo qui l'inferno. Se per frammenti si può parlare di frammenti, allora - con un occhio alla coerenza del senso complessivo, e un altro alle singolarità dei fenomeni - si può tentare un attraversamento frammentario di tre opere apocalittiche, nate da una profonda crisi personale dei rispettivi autori ma che nel tempo, per gli allargamenti d'orizzonte e le successive annessioni di senso che fanno la letteratura, oltre che ovviamente per la forza naturale della loro testimonianza, hanno raggiunto o potranno raggiungere un significato storico collettivo. La Terra desolata di Eliot, di cui si parlerà in questo numero di "Fili d'aquilone", documento ed emblema della crisi del primo dopoguerra da subito ritenuto uno dei testi fondamentali della poesia moderna, offre suggestioni, immagini e materiali a un romanzo di Paul Auster, Nel paese delle ultime cose; a sua volta, per affinità o per opposizione, lo statuto degli oggetti e il clima sconvolto di questo romanzo fanno pensare a L'altra parte di Alfred Kubin, allucinata opera simbolista mitteleuropea; di queste due opere si parlerà sul prossimo numero. Prima di entrare nel vivo, un'avvertenza non scontata: Eliot non si può antologizzare, e andrebbe letto tutto. Paradossalmente, soprattutto le sue composizioni strutturate per frammenti, lontane quindi da un'unità esplicita, chiedono per essere comprese nella molteplicità dei loro rimandi una lettura unitaria, almeno sul piano emotivo. È anche questo che fa di Eliot un classico moderno (come egli stesso si voleva). La coscienza dell'aberrazione insita nel "tagliare" Eliot, nel fare a pezzi un testo già spezzato o nell'incidere un modesto rivolo nel corpo della sua opera, mi spinge dunque a invitare a una lettura integrale e quanto possibile consapevole e informata della Terra desolata, accanto a questa minima, "prospettica" e necessariamente parziale che segue. Viene chiamata ancora "Età dell'ansia", ma qualcuno pensava che si potesse chiamare benissimo "Età di Eliot": all'uscita dalla Grande Guerra, l'uomo europeo aveva perduto tragicamente gli entusiasmi positivistici che avevano animato la fine del XIX secolo; tra l'altro (e senza parlare dei rivolgimenti sociali in atto dal 1917) con la scoperta della relatività e la psicanalisi ormai generalmente invalsa, intuì che molto del proprio essere era in balia di forze oscure e incontrollabili.
Prodotto di quella crisi è il poemetto The Waste Land (quasi sempre tradotto La terra desolata), partitura/mosaico in cinque stazioni, o movimenti, in cui si fondono - ma sarebbe meglio dire si accalcano - ironici "conversation pieces" e ritorni al sublime, citazioni dai classici e dalle filastrocche infantili, dalla Bibbia e dalla filosofia indiana, in una struttura frammentaria e plurilinguistica dovuta anche alla spregiudicata operazione di bricolage attuata da Pound sul corpo originario del poema (dopo quest'intervento 'maieutico', come si sa, Eliot l'avrebbe dantescamente appellato "il miglior fabbro"), ma basata essenzialmente su uno schema mitico ricalcato sul libro From Ritual to Romance di Jessie Weston, con suggestioni tratte dal Ramo d'oro di James Frazer, classico dell'antropologia. I rimasugli di una tradizione storica frantumata da un trauma epocale convergono nell'ordinato disordine di quella che sembra una rassegna archeologica. Il mosaico di Eliot manca di molte tessere; e a volte più che un mosaico sembra un collage surrealista del tipo di quelli di Max Ernst, con ritagli monumentali della Déscription de l'Egypte affiancati a figurine di obsoleti cataloghi di moda o illustrazioni dei romanzi di Verne. Una struttura che ha fatto subito "modernità", giustificata da un verso divenuto famoso: "con questi frammenti ho puntellato le mie rovine". Ma cosa interviene a tenere insieme i frammenti?
Un sincretismo che disponga in parallelo diversi racconti mitici ed epoche lontane fra loro, insinuando il senso di una compresenza, è per Eliot l'unico modo di mettere ordine nel caos della disperazione postbellica ("twenty years largely wasted, the years of entre deux guerres", avrebbe scritto anni dopo nei Quattro Quartetti: e come non notare l'accuratezza del participio?).
Poema apocalittico e iniziatico, di morte e rigenerazione, The Waste Land presenta un significativo uso dei rifiuti, e degli sconvolgimenti climatici, come correlativi dell'ansia della fine e dell'abiezione in cui è precipitato l'uomo senza più miti. Il poema stesso appare come un paesaggio devastato dopo che un fiume melmoso ha trascinato con sé detriti e relitti; paesaggio da cui emergono, come monoliti in rovina, suggestioni decadenti, di decorativismo ottocentesco (alla Swinburne, come nella prima sequenza di Un gioco di scacchi), citazioni nascoste e deliberate riscritture da poeti francesi e latini, da Spenser e Shakespeare come da Wagner, scene dialogate e apparizioni ironiche e tragiche. Eliot usa questi materiali per tessere una trama ricca di echi, il cui svolgimento è impersonato da numerose voci diverse. Difficile dimenticare i ritratti sarcastici di Madame Sosostris, "famosa chiaroveggente" e Sibilla da baraccone, o di Mr. Eugenides, degradata figura moderna di mercante, che annullano la vitalità del mondo antico nello squallore del presente.
The Waste Land comincia in aprile, con il celebre verso inaugurale che chiama "crudele" il mese primaverile, e tutto il poemetto presenta una scansione stagionale. All'interno del suo intenso immaginario elementale, l'acqua e il fuoco sono due elementi cardine e in costante conflitto.
Lillà dalla terra morta, mischiando Memoria e desiderio, eccitando Spente radici con pioggia di primavera. L'inverno ci tenne caldi, coprendo La terra di neve smemorata, nutrendo Una piccola vita con tuberi secchi. L'estate ci sorprese, arrivando sullo Starnbergersee Con un rovescio di pioggia: ci fermammo sotto il colonnato, E procedemmo nel sole, nel Hofgarten, E bevemmo caffé e parlammo per un'ora. (vv. 1-11, traduzione di Alessandro Serpieri) Ma chi è che parla?
Il titolo The Waste Land si è sempre tradotto con La terra desolata, ma in effetti l'etimologia di 'waste' è più ricca. Dal XIV secolo il verbo significa 'indebolirsi, perdere forza o salute'. In inglese antico è attestato westan, ma l'anglo-francese waster richiama l'antico francese guaster. La presenza in esso del latino vastum connette l'idea di sterilità e vuoto con quella di devastazione, spoliazione, rovina, discarica di rifiuti. Suggestiva può essere ancora oggi per qualcuno la proposta di Renato Poggioli di tradurre il titolo con il dantesco "paese guasto" (Inf. XIV), che sembra adatto ad accogliere molti dei significati di waste land. Ma torniamo agli elementi. Il ciclo dell'acqua prosegue con il corso del Tamigi, nell'altrettanto celebre sequenza della "Città irreale". Come nella predizione di Madame Sosostris ("Vedo folle di gente che cammina in cerchio"), nell'aria persa e gelida del primo mattino, una folla percorre i ponti sul Tamigi; è la folla spettrale degli impiegati della City che emerge dalla metropolitana e porta in una riconoscibile città di Londra ombre e atmosfere del "sottomondo" infero. Qui, come è noto, Eliot unisce citazioni deliberate dall'Inferno dantesco a una percezione angosciosa della città affollata ispirata direttamente al Baudelaire dei Tableaux parisiens ("formicolante città", nel segno dell'ennui)), a sua volta suggestionato dal Poe de L'uomo della folla.
Sotto la nebbia bruna di un'alba invernale, Una folla fluiva sul London Bridge, tanti, Ch'io non avrei creduto che morte tanti n'avesse disfatti. Sospiri, brevi e radi, venivano esalati, Ed ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi. (vv. 60-65) I richiami al limbo, con le anime ammassate sulla riva, sono palesi. Quella della catastrofe climatica o naturale, come ha ricordato Piero Camporesi (ne La casa dell'eternità), è una tradizionale componente della "condizione infernale", insieme all'accalcarsi, allo stiparsi dei corpi, e alle deiezioni: marciume, fango, escrementi. L'inferno come fogna. Se Piero Boitani ha potuto definire a ragione l'intero poemetto come "inferno rivisitato", altri autorevoli lettori, come Northrop Frye, vi hanno applicato il modello della 'discesa agli inferi' come allegoria dell'iniziazione, piegandolo però ad una interpretazione forse forzatamente connotata in senso cristiano. Nella chiusura della prima parte del Waste Land, l'io che parla riconosce nella folla sul Tamigi un uomo che aveva fatto con lui la prima guerra punica (sempre secondo un'ideale compresenza delle epoche), e l'immagine del cadavere è rifiuto che diventa germe di nuova vita, con allusione all'antico rito di seppellimento della statua del dio, Attis o Osiride. Ma la rigenerazione potrebbe essere impedita da un "improvviso gelo".
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest'anno? O l'improvviso gelo ha turbato il suo letto? (vv. 71-73) I temi del cadavere e delle ossa sono legati nel poemetto all'apparire del topo. Nella seconda parte (Un gioco di scacchi) l'affannoso monologo-dialogo (inscenando il nevrotico squallore borghese di una comunicazione ormai divenuta falsa) si ferma su immagini centrali e concrete come "siamo nel vicolo dei topi / dove i morti hanno perso le loro ossa". A far da cornice, un rumore misterioso e gravido di sospetto, un minaccioso sibilo del vento sotto la porta. Un vicolo-discarica, dove il resto umano decomposto è spazzatura, perde ogni possibilità di recuperare valore. Si può dire che ogni sforzo di Eliot per affrontare la crisi sul piano metafisico, ancor più nelle prove successive alla Terra desolata, è legato all'ossessione della resurrezione delle ossa. Le ossa sono sempre "aride" (dry), come negli Uomini vuoti (1925), ancora una volta presi in una condizione infernale in riva all'Acheronte-Tamigi:
Questa mascella spezzata dei nostri regni perduti In quest'ultimo dei luoghi d'incontro Noi brancoliamo insieme Evitiamo di parlare Ammassati su questa riva del tumido fiume (parte IV, traduzione di Roberto Sanesi) E in Mercoledì delle ceneri (1930) l'aria appare "limitata e secca" (small and dry), mentre le ossa aride, in un purgatoriale "deserto" molto diverso da quello della Terra desolata, sono protagoniste di uno straordinario racconto che ha i colori di una miniatura medievale:
Vivranno queste ossa? vivranno Queste ossa? E tutto quanto era stato contenuto Nelle ossa (che già erano aride) disse stridendo: Per la bontà di questa Signora E per la sua grazia, e perché Lei onora la Vergine in meditazione, Noi risplendiamo con tanta lucentezza. E io che sono Qui dismembrato offro all'oblìo le mie gesta, e il mio amore Alla posterità del deserto e al frutto della zucca. [...] Che la bianchezza dell'ossa espii fino all'oblìo. [...] Sotto un ginepro le ossa cantarono, disperse e rilucenti Noi siamo liete d'essere disperse, poco bene facemmo l'una all'altra, Nella frescura del giorno sotto un albero, con la benedizione della sabbia, Dimenticando noi stesse e l'un l'altra, unite Nella serenità del deserto. (parte II, traduzione di Roberto Sanesi) La parte III della Terra desolata prende il titolo dal discorso del Buddha contro la lussuria (Il sermone del fuoco). Ancora l'acqua, ancora il Tamigi spazzato dal vento dopo una fuga di esseri divini.
s'avvinghiano e affondano nell'umida sponda. Il vento Attraversa la terra bruna, inudito. Le ninfe sono partite. Dolce Tamigi, scorri lieve, finché non finisca il mio canto. Il fiume non porta bottiglie vuote, carte da sandwich, Fazzoletti di seta, scatole di cartone, cicche di sigarette O altre testimonianze di notti estive. Le ninfe sono partite. (vv. 173-180) Marjorie Perloff ha spiegato come queste bottiglie vuote e scatole di cartone alla deriva (che il fiume non porta, ma restano ciononostante evidenti nella percezione del lettore) sono per Eliot gli autentici emblemi del rifiuto nell'età che il suo mentore Pound, nelle feroci reprimende contro l'usura, ha definito "Contra Naturam". Le ninfe contemporanee, infatti, potrebbero tutt'al più essere le amanti degli impiegati della City.
Lo scrocchiare delle ossa, e un ghigno teso da orecchio a orecchio. Un topo strisciò molle fra la vegetazione Strascinando il ventre melmoso sulla sponda Mentre io stavo pescando nello spento canale Una sera d'inverno dietro il gasometro Meditando sul naufragio del re mio fratello E sulla morte del re mio padre prima di lui. Bianchi corpi nudi sul terreno basso e umido, E ossa gettate in un piccolo solaio basso e arido, Fatte scrocchiare dal piede del topo soltanto, anno dopo anno. (vv. 187-195) Ancora le ossa. Come le ossa di Phlebas il marinaio spolpate dalla corrente marina (nella IV parte), come le aride ossa che "non possono far male a nessuno" delle tombe attorno alla Cappella Perigliosa del mito medievale, vuota, ancora una volta abitata dal vento, della V parte, quando una raffica e un lampo annunciano le parole del tuono.
Nella prima versione del poemetto, che contava circa il doppio dei versi, il testo scritturale era espressamente citato ("Io, Giovanni, ho visto queste cose, e le ho udite"); ma Pound, per mantenere l'univocità della voce narrante e del metodo mitico, preferì sopprimere questo ulteriore riferimento.
Vecchio con avvizzite mammelle femminili, posso vedere All'ora viola, l'ora della sera che volge Al ritorno, e porta a casa dal mare il marinaio, La dattilografa a casa all'ora del tè, sparecchia la colazione, Accende il fornello e tira fuori il cibo in scatola. (vv. 218-223) Figura unificante del poemetto, che tende a riassumere tutte le altre esiliate nella terra morta, il profeta mitico Tiresia ha avuto due vite, è stato uomo e donna, cieco e visionario. Ha camminato fra i cadaveri sotto le mura di Tebe, afflitta dalla sterilità dovuta alla colpa di un re (Edipo). "Ciò che Tiresia vede, infatti, è la sostanza del poema" (nota di Eliot).
Che non sono respinte, anche se indesiderate. Eccitato e deciso, lui assale subito; Mani esploranti non incontrano difesa; La sua vanità non richiede risposta E prende come un benvenuto l'indifferenza. (vv. 237-242) Del resto il personaggio del vecchio era già stato anticipato da Gerontion, il primo dei Poems (1920) di Eliot, che l'autore avrebbe in origine voluto premettere al poemetto, e che non a caso si apre con una casa in rovina e un ventoso paesaggio di rifiuti, correlativo oggettivo delle memorie di una vita degradata (ma c'è una linea dello squallore urbano fin dall'Eliot giovanile, che si esplicita poi nelle grigie cronache di Preludes e Morning at the Window). In quell'attonito monologo drammatico, l'elencazione semplice come poteva essere quella di un Verlaine ("Voici des fruits, des fleurs, des feuilles et des branches", Green, in Romanze senza parole) diventa un'enumerazione cinica di scarti: "Rocce, muschio, gramigna, ferrivecchi, merde". E a segnare ancora una prossimità evidente con il poemetto sono il gioco alterno fra pioggia e aridità che entra in scena già dai primi versi, la scansione ellittica e i bruschi passaggi di tono, l'impossibilità di una redenzione, impedita da una "conoscenza" atroce; infine, lo stesso modo di degradare il mistero spirituale ("Cristo la tigre") nella meccanica ritualità di una Societé dai cognomi bizzarri quanto evocativi. Ma alla fine della III parte della Terra desolata, l'ipotesi di una via d'uscita è adombrata nel riferimento alla mistica di Buddha e Agostino ("A Cartagine poi venni"). Il fuoco che distrugge è anche quello che purifica ("O Signore tu cogli // bruciando").
Ma su un altro piano la metamorfosi esperita nella Terra desolata è anche quella dell'autore stesso. Nella prima parte Eliot è ancora l'autore di Prufrock, poeta satirico e distaccato, che guarda ai suoi idoli giovanili Laforgue e Corbière, mentre nella quinta sta già andando verso l'allegorismo di Mercoledì delle Ceneri e Quattro Quartetti (la cui stella polare è sempre più Dante). E verso una forma di riconciliazione, se non di sperata fede, già annunciata dall'invito a quella "pace oltre l'intelligenza" (shantih, dalle Upanishad) che chiude la Terra desolata. Molti interpreti hanno messo in luce come la V e ultima parte della Terra desolata sia quella in cui è più evidente la volontà dell'autore di lanciare un messaggio. Dall'iniziale ritorno a una scena desertica, dove manca l'acqua, il principio di rigenerazione, e si ribatte ossessivamente sull'aridità della roccia, si passa a una visione inquietante con connotati cristici ("Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto?") e a una scena apocalittica: sotto la pressione di orde barbariche, tra lamenti di madri che invadono l'aria, le città irreali che rappresentano la cultura storica ("Gerusalemme Atene Alessandria / Vienna Londra") crollano e si riformano e vengono nuovamente distrutte. Le torri cadono, ed è tutta una tradizione che cade con loro.
Al termine dell'attraversamento della Terra desolata, nonostante la tensione di Eliot verso una soluzione metafisica, ciò che resta più forte nella memoria è l'immagine del "mucchio di immagini infrante" (A heap of broken images): immagine topica il cui problema è quello posto dalla voce femminile nella III parte (I can connect / Nothing with nothing).
"Pezzi" incollati assieme in un assemblage apparentemente arbitrario si ricombinano dunque in un quadro nuovo se visti nell'ottica del "finale". Quella collezione di disiecta membra con cui Eliot ha puntellato le sue rovine non è più formata da reliquie sacre, ma da relitti archeologici, che vanno letti in modo nuovo nel nuovo organismo frammentario in cui sono riassorbiti; perché la tempesta, il trauma storico, li ha staccati dalla loro parte originaria. Sono le aride ossa della civiltà che pregano sulla spiaggia dopo il disastro (se vogliamo usare immagini prettamente eliotiane, da The Dry Salvages, il terzo Quartetto). Eppure, disarticolati, affastellati l'uno accanto all'altro, i frammenti riacquistano una nuova unità secondo nessi e contesti che al lettore è dato ricostituire. Il "resto"-citazione diventa un nuovo oggetto, che riecheggia negli altri alludendo pur sempre alla propria estraneità di reperto. Paradossalmente, nella coscienza critica del Novecento, questi frammenti su cui a lungo si è studiato e si studierà (perché non hanno ancora finito di parlare) si connettono assieme nella percezione del lettore come le ossa disarticolate si riuniranno al momento della resurrezione; e sono ora un nuovo corpo unitario, rivestito non di carne ma di interpretazioni.
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