FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 5
gennaio/marzo 2007

Alterazioni climatiche

ARMANDO SANTARELLI
Periferia della specie

di Alessio Brandolini


Periferia della specie è il terzo romanzo di Armando Santarelli (Robin Edizioni, Roma, 2006), scrittore nato a Cerreto Laziale nel 1956, ma che da tempo vive appartato nel paesino di Gerano (Roma). Libro di storie legate alla terra e al paesaggio (in tutto sono sette): dall'accento mite e sereno, eppure dai toni e dai contenuti forti.

Le storie qui raccolte formano una specie di romanzo atipico, lontano dagli schemi ai quali siamo abituati. Già l'ambientazione fuori città (paese e boschi) è inconsueta, ma non è solo una questione legata all'ambiente e al paesaggio. I protagonisti di queste storie, che appartengono allo stesso mondo di paese, di piccole centro abitato dove si conoscono tutti, sembrano vivere fuori dal tempo. Qui non c'è traffico, né smog, né assordanti rumori e il silenzio racconta un sacco di cose: il taglio d'un bosco, il soffio del vento, la risata d'un bambino. Una comunità chiusa in se stessa, ma con il desiderio di non lasciarsi travolgere dalla fretta, con uno spontaneo distacco (ma senza disprezzo) nei confronti degli invasivi e costanti messaggi che accarezzano e modellano l'agire e il sentire dell'uomo moderno, gli stessi che poi gli permettono di vivere più serenamente, di sentirsi parte d'un affollatissimo "centro".

La periferia di cui si parla nel titolo non è, allora, soltanto distanza geografica da una zona più affollata e sicura, con più cinema e svaghi, ma anche da un saldissimo modello di pensiero: e questo isola e un po' estranea. Per questo, poi, il ritmo del libro è, giustamente, lento e quasi ossessivo nello spiegare i dettagli di questo mondo e la lingua non appiattita su modelli televisivi.
Una lingua colta che sa dipanare con destrezza e tessere con calma storie attente ai fatti interiori dei suoi protagonisti. Forse ci sono alcuni passaggi troppo spiegati, che danno una modulazione talvolta didascalica che non giova all'economia della storia, ma a fine lettura Periferia della specie risulta un romanzo di racconti che tiene bene e ci si aggrappa tenacemente a quei valori che il libro porta avanti con tenacia (la famiglia, l'amicizia, il rapporto con la natura, la partecipazione, la solitudine attiva, la solidarietà, la lettura, la riflessione...). Valori importanti, di cui si sente parlare molto, ma che sembrano venir meno nell'opulenta società che tutto divora o distrugge, o inquina.

Ogni parola, ogni dialogo è importante: per questo qui si parla e si ascolta molto. Le ultime due storie sono le più belle. "Angeli" turba nel profondo, ma "Il ladro d'alberi" (proposto qui sotto) è il più duro e bello e, ad un tempo, il più significativo dell'intera raccolta, quello che ne riassume lo spirito, il pensiero fondante.
Armando Santarelli ha una visione del mondo che potremmo definire "tradizionale" (per esempio in un racconto il protagonista se la prende con il personal computer), dove a lungo si cammina per i sentieri della montagna, si sta con gli altri in piazza a parlare del più o del meno, ci occupa di "piccole questioni" legate al paese, magari si litiga per un albero tagliato. Nel frattempo ci si interroga, si osserva tutto con attenzione e partecipazione: la propria essenza e i propri simili, certo, ma anche gli animali, gli alberi, la natura ed è come se dalla periferia si tornasse al centro del mondo. E della vita.


Armando Santarelli, Periferia della specie (Robin Edizioni, Roma, 2006, pp. 193, euro 12)

 


IL LADRO D'ALBERI
(da Periferia della specie, Robin, Roma 2006)


Giravano le voci più disparate, da quando la moglie e i figli di Rocco erano venuti ad abitare in paese.

Ci eravamo accorti del loro arrivo vedendo gironzolare i bambini, bramosi di incontrare nuovi compagni di giochi.

Il maggiore, un grassottello dall'aria triste e distratta, bighellonava tutto il giorno da un bar all'altro, facendo ruotare fra le mani un vistoso bracciale d'oro a forma di serpente, da cui non si separava mai. Il secondo, che a scuola sfoggiava una fiammante divisa collegiale, passava i pomeriggi a ruzzare nelle vigne sotto le mura, ripresentandosi a casa ogni volta coi mocci al naso e insozzato dappertutto.

Il più piccolo dei bambini, un frugoletto dai riccioli scuri, pareva una sentinella desiderosa che un nemico qualsiasi arrivasse a rompere la monotonia del cortile di ghiaia, oltre il quale non osava mai avventurarsi.

Era ciò che restava del giardino di Rocco "Moneta", il vecchio e gentile daziere, la cui antica dimora era stata ereditata da quel nipote, dallo stesso nome e dal carattere tanto dissimile, che la occupava solo nel breve periodo della festa patronale. Un'estate vi aveva trascorso anche la villeggiatura, ma era sembrato quasi vergognarsene; preferiva luoghi più ricercati, aveva detto.

Non dovemmo aspettare a lungo per conoscere il motivo che li aveva spinti in un luogo che non amavano: Rocco era stato arrestato per aver emesso degli assegni a vuoto, e l'abitazione cittadina gli era stata pignorata; così, la casa patriarcale di "Moneta" aveva riaccolto gli sventurati eredi.

Un giorno, il secondo dei figli di Rocco entrò nel negozio di Augusta, posò un po' di spiccioli sul bancone e domandò: "Quanto pane ci viene, con questi?"

La donna imbustò una pagnotta e un po' di affettato, poi gli porse delle merendine.

"Ah! È la rovina, allora...", disse quando il ragazzino uscì dall'emporio.

Mariuccia, cugina di Augusta, era lì: "Non hanno più nemmeno un parente qui, è questo il problema. Bisogna fare qualcosa, e subito".

La sera stessa, Mariuccia traversò la Piazza di Corte con una grossa teglia fra le mani, rimuginando le parole con le quali avrebbe accompagnato l'intrusione nella vecchia casa di "Moneta": "Sono venuta a portare qualcosa ai bambini. Tu sta' zitta, sono creature."

Dopo Mariuccia arrivò Adele, poi Erminia. A turno, con discrezione, si occuparono di recare cibo e conforto, organizzando le offerte proprie e quelle di altre persone.

Quando la moglie di Rocco cominciò a prestare servizio come domestica presso un ricco commerciante di Tivoli, pacchi di indumenti presero il posto del cibo; poi alla donna fu affidata anche la pulizia dei locali pubblici del paese, e gli aiuti cessarono.

Poco tempo dopo, Rocco uscì di galera, e si riunì alla famiglia. Appariva altero e scostante; salutava a malapena, ci guardava sottecchi, e non si premurò di ringraziare nessuno di coloro che avevano beneficiato i suoi cari.

Ma lo vedevamo poco, in paese; con una macchina sgangherata faceva ogni giorno la spola con Roma, partendo nel pomeriggio e tornando spesso all'alba.

"Che lavoro fai?" gli chiese timidamente qualcuno.

"Lavoro di notte...", rispose con un ghigno.

Lo evitavamo anche noi; nella piccola comunità è difficile accettare che i rapporti restino al di fuori della norma. L'unico a trovare un senso a quello strano comportamento fu Don Mariano: "Dopotutto", diceva, "avendo ricevuto dei favori, e non ricambiandoli, quest'insolente ci permette di assaporare il vero bene".

All'improvviso, l'andirivieni notturno di Rocco cessò, e la sua presenza in paese si fece assidua. Si diceva che a causa di una grave infrazione al codice della strada gli avessero tolto la patente.

Venimmo a sapere che cercava un impiego.

Puoi rifiutare il lavoro a una persona che non gode della tua simpatia se non hai mai visto in faccia i suoi bambini: e in un piccolo villaggio c'è una sola grande piazza, una sola chiesa...

Remo, l'impresario edile, offrì a Rocco un posto da operaio.

"Non sono mani da piccone, queste", commentò lui giustificando il rifiuto.

L'episodio fece scalpore, ma fu proprio per questo motivo che la vicenda prese la strada giusta. Un paio di giorni dopo, il Sindaco, che aveva già usato i suoi buoni uffici verso la famiglia di Rocco, convocò l'uomo in Comune.

"So che cerchi lavoro", gli disse con aria benevola, "ma hai rifiutato la proposta di Remo. Posso pure capire, ma dimmi, che vorresti fare? Dovresti saperlo che qui non ci sono grandi possibilità. Dunque, vienici incontro anche tu. La cosa importante adesso è iniziare, più in là potrebbero arrivare occasioni migliori".

"Beh, per esempio", fece lui senza troppa convinzione, "lavorare da Olindo mi starebbe bene."

Il giorno seguente, il Sindaco si recò nel magazzino di materiali per l'edilizia.

"Ci criticheranno, stanne certo", fece al proprietario. "Diranno che siamo stati troppo solerti, che lo abbiamo favorito a danno di qualcuno più meritevole, eccetera. Ma noi, caro Olindo, prenderemo due piccioni con una fava: daremo il pane a una famiglia in difficoltà, e non permetteremo che a causa di una testa calda venga sconvolta una comunità sana e tranquilla".

"Sindaco, quando una cosa si deve fare, si deve fare", replicò l'impresario.

Pur lavorando sempre nervosamente, spesso di testa sua, Rocco si rivelò assai capace con ogni tipo di macchinario; ma dopo alcuni mesi, e diversi litigi col proprietario, decise di licenziarsi.

Mi venne da ridere quando seppi che il Sindaco, con ira che non gli era abituale, aveva detto pubblicamente che "cominciava a rompersi i coglioni".

Ma di lì a poco, Rocco rilevò il negozietto di casalinghi della vecchia Enrichetta, lo ripulì e lo rifornì di ogni tipo di merce, alternandosi con la moglie dietro il banco.

Tirammo tutti un sospiro di sollievo, convincendoci, con Don Mariano, che quel tipo "era entrato definitivamente a far parte del consorzio civile".

Invece, proprio allora iniziarono a verificarsi in paese una serie di furti, e qualcuno cominciò a fare sottovoce il nome di Rocco.

Fu il vecchio Domenico, proprietario di una cantina posta sopra la buia Via delle Fratte, a parlare apertamente, all'osteria, di quel che aveva visto: "È lui il ladro, è Rocco. Sapete come fa? Aspetta l'ora fra lusco e brusco. Dà un calcio secco con la scarpa, sì, col tacco della scarpa, ai vetri delle automobili, e acchiappa la merce che aveva puntato. Va a colpo sicuro, l'amico. Dopo, si mette a camminare come se non fossero cavoli suoi, sale sulla macchina che parcheggia lì vicino, e sempre con calma se la squaglia. Ma siete avvertiti, signori: qui lo dico e qui lo nego. Io a denunciarlo non ci vado".

Quando alcuni pensionati furono derubati dentro casa delle pensioni appena riscosse, il disappunto lasciò il posto alla rabbia, e attorno al sospettato il cerchio cominciò a stringersi. La certezza arrivò insieme alla punizione: una notte, Rocco fu sorpreso dai Carabinieri a rubare in una casa appena fuori il paese, e fu risbattuto in galera.

Provai una strana gioia... Né la nascondevo, e quando mi obiettavano che individui del genere - quelli cioè che non hanno alcuna necessità di rubare e lo fanno lo stesso - sono dei dissociati, dei cleptomani, casi patologici insomma, rispondevo duro che il paziente aveva avuto parecchi medici a disposizione, e ricevuto le cure appropriate.

Giusto un anno dopo, Rocco uscì di prigione.

"È tornato il ladro", fu annunciato di bocca in bocca. Ma non tutti si predisposero al ludibrio. Io continuavo a detestarlo, e tuttavia mi unii ai "buoni", la minoranza, che però poteva contare su Don Mariano e sul Sindaco. Il primo citò splendidamente il Vangelo: "Colui al quale è perdonato poco, ama poco". Quanto al Sindaco, espose il suo punto di vista in margine a una seduta del Consiglio Comunale: "Lo so, ci sentiamo traditi, ma ci conviene alzare un muro? Abbiamo tutto l'interesse ad aiutarlo ancora. Dobbiamo dargli un'altra possibilità".

Ma fu Mariuccia a percorrere la strada maestra. La sera stessa del ritorno di Rocco, si recò a casa dell'uomo, e lo trasse in disparte: "Bentornato, figlio mio", disse ferma, "sappi che quando non c'eri tua moglie ha badato a se stessa e ai bambini come meglio non si poteva. Adesso tocca a te. Che esempio vuoi dargli? Attento, perché cominciano a capire! Puoi rimediare, non ti manca niente. Non perdere quest'occasione".

Fra gli intolleranti, la maggioranza, Olindo fu il più esplicito: "Non facciamoci illusioni: la pianta è nata storta. Andrà bene se non farà peggio di prima. Comunque, io non lo aiuto più. In certi posti rubare è niente, è pane quotidiano. Ma dove la gente è onesta, e ti ha aiutato, rubare a un anziano è come ammazzare. Voi fate come vi pare, ma con me ha chiuso".

Invece, successe l'incredibile: Rocco sembrava essere diventato un'altra persona. La faccia arrogante di un tempo lasciò il posto a un'espressione distesa e cordiale. Come non aveva mai fatto, entrò in casa d'altri e ospitò a cena i vicini. Presto, iniziò a frequentare la piazza e il centro sociale, iscrisse i bambini alla società sportiva e chiese di farne parte come accompagnatore.

Si diceva che all'origine di quel mutamento ci fossero lunghi colloqui con uno psicologo del carcere. Certo, faceva effetto vedere un individuo che un tempo scansava tutti, venendo ripagato con la stessa moneta, circondato dai sorrisi compiaciuti di chi ritrovava - o credeva di ritrovare - nell'ex reprobo le virtù da lui stesso praticate, compiacimento accresciuto dall'illusione di aver contribuito con l'esempio a fondarle.

Quanto a me, pensavo che gli entusiasmi fossero eccessivi, oltre che prematuri. Rocco non aveva chiesto scusa a nessuna delle sue vittime, e già questo mi impediva di parteggiare per lui. Mi obiettarono che, pur avendo omesso delle esplicite scuse, comportandosi in modo tanto aperto e cordiale era come se, in effetti, le avesse fatte ad ognuno.

Era il suo sguardo, comunque, a non convincermi: non aveva perso quella caratteristica deformazione per cui, in certi momenti, l'ovale diventava quasi una fessura e la pupilla si acuiva in un'espressione di estrema tensione, di concentrazione, come quella del rapace che punta avidamente la preda.

Passò quasi un anno. Il giorno di Santo Stefano, a dispetto della festività, Salvo andava a far legna nei boschi cedui del Monte Ceraso; incontrò Rocco, e un po' per compagnia, un po' perché aveva voglia di mostragli il lavoro di cui andava tanto fiero, decise di portarlo con sé. Raggiunte le valli montane, camminò nelle radure silenziose accarezzando i tronchi rosacei e levigati degli aceri, i fusti alti e dritti dei castagni, la scorza rugosa degli olmi. Parlò a Rocco dei colori insospettabili, dei profumi penetranti, della forza ineguagliabile di quei giganti che per crescere non hanno bisogno di nulla. Dopo un po' si fermò al margine di un boschetto misto di aceri e roverelle: abbracciò con lo sguardo ogni albero, ne valutò l'età, misurò a occhio le distanze; poi afferrò una grossa motosega, ne azionò i denti d'acciaio e buttò giù con destrezza una decina di grosse piante. Prima che facesse buio, fece in tempo a ridurne alcune in tronchetti, e a sistemarli in ordinate cataste.

"Un mestiere duro", commentò con orgoglio sulla strada del ritorno, "ma che non cambierei con nessun altro. Non ho padroni, guadagno bene, e soprattutto, guardati intorno, è questo il mio posto di lavoro."

Sembra che Rocco, quella mattina, avesse seguito Salvo di malavoglia; tuttavia, sulla strada del ritorno, aveva fatto al boscaiolo un sacco di domande. Qualche giorno più tardi, volle seguire Salvo di nuovo, e provò a imitarne i gesti; si cimentò così bene con quel lavoro sconosciuto che, alla fine, disse sorridendo che aveva trovato il suo mestiere.

Dopo un po' venimmo a sapere che aveva chiesto ai capaci boscaioli di Macchiacupa di unirsi a loro per qualche tempo. Quando l'esperienza finì, comprò una vecchia lambretta e una piccola motosega, e prese a salire la strada del Ceraso, scendendo con carichi di legna che diventavano sempre più pesanti.

Il giorno che lo incrociai e potei vedere coi miei occhi ciò che trasportava, realizzai che era venuto il mio turno. Di un'altra cosa ero consapevole: il confronto sarebbe stato duro. Ero fra i pochi, allora, a frequentare la montagna senza dovervi ricavare per forza qualcosa; e quando si dà valore a sensazioni che i più non provano, o stimano insignificanti, stare dalla parte della ragione può significare ben poco...

Avevo già discusso con quell'uomo una sera, al Bar dello Sport, quando era entrato trascinando due grossi istrici, appena catturati ed uccisi.

"Te ne vanti?", gli avevo detto a muso duro, "non sai nemmeno che è una specie protetta. Che fastidio ti davano?"

"Infatti non lo sapevo", aveva replicato con un sorrisetto, "e comunque io me le pappo, non l'ho ammazzate per divertimento. Sono stati i compaesani tuoi a dirmi che è roba buona".

"Senti" avevo tagliato corto, "portale via se non vuoi grane, e che non accada più".

Qualche settimana più tardi, durante una passeggiata in montagna, lo sorpresi mentre si affannava a nascondere alla bell'e meglio i tronchi, già segati, di grosse querce. Lo affrontai senza paura: "Smettila, amico, non puoi farlo. Proprio non ne indovini una! Sono piante secolari, non vedi? Ma non sapevi nemmeno questo, vero?"

"Pensa ai cazzi tuoi", gridò, "non è roba tua, e io faccio come mi pare. Sta' attento a te, verde del cazzo!"

Purtroppo per te, c'è qualcuno che non pensa solo ai cazzi suoi, continuavo a ripetermi sulla strada del ritorno. L'indomani mattina, filai dritto in Comune.

Il vigile urbano sorrise sottilmente: "Sappiamo già tutto, ma... che possiamo farci? C'è di peggio in giro, e poi la situazione la conosci: il carattere, i precedenti, eccetera. Ha tre figli, e ci ha detto che gli serve per arrotondare i guadagni. Dice che il lavoro gli piace, che non farà danni, che starà attento..."

"Ah, non fa danni? Ma se ha buttato giù alberi secolari! Se gli piace il mestiere si metta in regola, e soprattutto impari a lavorare come si deve!"

"Ma va là! È più la spesa che l'impresa, se ti metti in regola! Carte, impicci, partita IVA, permessi... Comunque, senti, se proprio vuoi mettere nero su bianco, fai una denuncia al Corpo Forestale. Ma ti invito a pensarci bene."

"Ci ho già pensato, grazie mille". Non feci altro che aspettare il giro di ricognizione dell'Ispettore della Forestale, per riferire ciò che avevo visto. Precisai che non avevo alcuna remora a mettere la dichiarazione per iscritto, ma lui replicò che non ce n'era bisogno. Un paio di giorni dopo, l'Ispettore appostò Rocco sul Ceraso, e lo colse mentre caricava un'enorme quantità di legna. Evitò di fare la denuncia, limitandosi, per quella volta, a minacciarla.

La tregua, e la mia illusione, durarono un paio di mesi; poi, Rocco tornò in montagna con una camionetta munita di rimorchio, tracciò uno stradello per raggiungere la parte più folta dei boschi del Ceraso, costruì un casotto con delle latte, nascondendolo con del frascame, e ricominciò ad abbattere piante di ogni genere.

Allora andai dal Sindaco. Gli parlai accoratamente del danno che il territorio subiva a causa di quel taglio scriteriato, magnificai la bellezza dei vetusti alberi della montagna, citai testimonianze influenti, mi richiamai alle norme giuridiche.

"Senti", rispose con espressione serafica, "da quando amministro questo Comune abbiamo fatto cose giuste e cose sbagliate, ma riconoscerai che con questo tipo ci abbiamo azzeccato. Quando è stato arrestato volevano linciarlo, e quando è ritornato avevano tutti il muso lungo. Io ho detto abbiate pazienza, diamogli un'altra possibilità, e ci è andata bene. Ho dovuto lottare, non credere, ma ho tenuto duro, e non perché sono il buon padre di famiglia e storie del genere; chiamala pure praticità, interesse, buon senso, come ti pare, ma insomma i frutti si sono visti. Danni alla gente non ne fa più, e allora mi pare controproducente stare lì a sfruculiare...".

La mia rabbia non era affatto sbollita: "Sindaco, quel Rocco mi è sempre stato antipatico, ma quando è tornato dal carcere ho preso anch'io le sue parti, benché avesse rubato! Ma continua, e adesso lo fa pure impunemente! Quello che sta danneggiando è un patrimonio boschivo di tutto rispetto!"

"Ma la legna la rubano tutti...".

"C'è una misura nelle cose, e questo qui non la conosce!" .

"E va bene, staremo più attenti, controlleremo che non la superi...".

L'aveva già superata, e di molto! Inutile andare oltre, sentivo che il sindaco non avrebbe mutato opinione. Avevo bisogno di riflettere, perché avrei potuto indirizzare la mia ira in molte direzioni. Denunciarlo alla Forestale, per esempio, o alla Stazione dei Carabinieri, bruciargli la dannata camionetta e magari anche la macchina, sfogarmi direttamente su di lui...

Cominciai invece, subdolamente, a stuzzicare altri. Chi? I boscaioli... Non erano infastiditi da quell'interferenza del tutto illegittima? Il loro più pericoloso concorrente non pagava le tasse, non aveva uno straccio di licenza o di permesso, non registrava nulla della sua attività, non doveva seguire nessuna trafila per le incombenze burocratiche che li facevano ammattire!

Li sentii a uno a uno: Salvo, Antonio, Peppino "il Guercio".

"È un figlio di puttana!", commentavano senza eccezione, "ma in montagna c'è legna per tutti...".

Così, non passava giorno senza che mi rodessi il fegato, assistendo al ladrocinio autorizzato di uno che tornava dai monti col rimorchio carico, di notte, a fari spenti.

Un sabato mattina interruppi un'ascesa sul più bello, tornai alla macchina, raggiunsi la Stazione Forestale e rilasciai un esposto pesante e circostanziato. L'Ispettore, stavolta, denunciò Rocco, e gli sequestrò l'intero materiale.

Che cosa avevamo tolto a un ladro, a un incallito violatore della legge, a uno che per esprimersi doveva causare il danno di qualcun altro? Non il pane, non la dignità, non il nome, non una professione che non aveva saputo onorare. Eppure, qualcosa di grosso glielo avevamo sottratto, perché quell'uomo senza tanti scrupoli, senza rispetto per il prossimo, cominciò a star male, a deprimersi.

Non volevo crederci quando me lo riferirono, ma era la verità. Allora decisi di affrontarlo.

"Ci sono tanti altri modi di frequentare la montagna", gli feci seccamente.

Mi rispose quasi con rassegnazione: "Per te. Ma io mi sento bene in quel modo".

"D'accordo, io ho il mio, tu il tuo. Ma il tuo è illegale, e non è tutto. Il fatto è che non solo abbatti alberi senza permesso, ma prendi di mira quelli antichi e di pregio".

"Se ti metti a tagliare alberelli, meglio che lasci perdere. Credi che gli altri, quelli che stanno in regola, fanno sconti?"

"Come va il negozietto di tua moglie?"

"Andava bene. Ma adesso hanno aperto quel supermercato, quel mostro. E i figli crescono..."

"Ma almeno la partita IVA potresti aprirla, no?"

"O le fai bene certe cose, o ti arrangi come faccio io... Comunque, senti. Io ho torto, però tu mi devi levare una curiosità. Ma com'è che gli alberi ti interessano tanto?"

"Perché mi piacciono, e perché non hanno né parenti né amici".

"Mi sta bene. Però ci stanno questioni più importanti, no?"

"Sì, ma a quelle gli avvocati difensori non mancano".

Mi fissò con un'espressione calma e penetrante: "Ma se sono più importanti com'è che tu non te le fili per niente?"

"È meglio lottare per le cause che si sentono. Molte persone non lottano per nulla, pensano solo a se stesse. Sono quelli come te".

Non replicò. Qualcosa mi diceva che lo avevo in pugno, quel guastafeste, che del mio giudizio gli importava eccome, e che avrei potuto fargli male, mettere a nudo una volta per tutte la furfanteria da quattro soldi che gli stava appiccicata addosso come una seconda pelle; eppure, sentivo che stavo per cedere, e che se gli avessi detto "Va', è tutto a posto", sarebbe corso a casa, saltato sulla camionetta, e partito felice per la montagna.

Forse, non c'è errore più grosso che cercare di sradicare in qualcuno ciò che lo fa sentire diverso, vivo, libero. E poi, siamo scimmie, e non c'è ambiente capace di donarci più felicità della radura di un bosco; e nessuna attività ci rende più spensierati del lavoro manuale...

Senza più dire niente, gli voltai le spalle e mi allontanai a grandi passi.

Da quella sera, quando salgo in montagna ho sempre l'animo sospeso. Sono io stesso la causa dei miei guai, e questa consapevolezza mi aiuta in qualche modo a lenirli. Certo, il mio dolore non è paragonabile a quello che dovette provare Salvatore Satta: nel marasma seguito all'otto settembre, quando la Patria divenne terra di nessuno, alcuni ceffi armati di seghe e di scuri gli dissero a brutto muso che non avrebbero lasciato neppure una radice dei pioppi secolari che ornavano il viale della sua dimora. Allora, per non udire lo schianto delle piante che gli erano tanto care, il grande giurista chiuse le imposte, e in memoria di quegli alberi, e di tutte le creature che periscono ogni giorno, recitò i versi del dolore e della speranza: "De profundis clamavi ad te, Domine".

Ma forse quella gente affamata e incattivita agiva senza il conforto di alcuna educazione, e per vera necessità, provata com'era dalle sofferenze patite durante il più terribile dei mali, la guerra.

E soprattutto, c'era ancora qualcosa di profondamente umano, dell'eterna fatica della creatura impastata dalla terra, della sua abilità, della sua forza, in quel procedere lento e metodico con la sega, in coppia, per aver ragione del corpo di quei vigorosi vegliardi.

Ma ai nostri giorni, l'annuncio della ben più rapida e spietata esecuzione dei più antichi testimoni viventi di una terra cui spesso hanno dato un nome e un volto, il lacerante urlo del freddo metallo nel tepore di una giornata autunnale, si ode da lontano, si ode dappertutto, ed è uno stridore insopportabile, che offende i sensi dapprima, e poi si diffonde penetrante e venefico nelle membra, negli organi, nella testa, impedendo persino di raccogliersi in una preghiera.




Armando Santarelli

ARMANDO SANTARELLI

È nato a Cerreto Laziale nel luglio 1956, ma vive a Gerano (Roma). Ha pubblicato Le cipolle e altri racconti (Sovera), Fisionomia dell'irriverenza (La Voce del Tempo), e lo studio Avifauna dei Monti Ruffi. Il suo ultimo libro pubblicato è la raccolta di racconti Periferia della specie (Robin, 2006, Roma). Scrive per la rivista cattolica "Tendopoli".

alexbrando@libero.it