Il capitale umano (Mondadori, Milano 2005 - uscito l'anno prima degli Stati Uniti) dello scrittore americano Stephen Amidon (classe 1959) è un romanzo che si legge tutto d'un fiato, e con piacere. Amidon, oltre questo, ha già pubblicato quattro romanzi: con calma, con perizia. Esperto di cinema, e qui si sente, per una certa abilità (che talvolta scade in eccessiva facilità) nel "montare" le scene, gli accadimenti. Però la storia, nel suo insieme, tiene benissimo, ed è credibile, e via via si fa più dura, sempre più evidente ed esplicita la critica sociale al sistema capitalistico, e pessimistica la visione delle relazioni umane, trasformate in meccanismi precostituiti, schiacciati su valori e stime economiche, come se tutta l'umanità fosse quotata in borsa.
Mi è venuto alla mente quel gran finale del capolavoro di John Cheever, Falconer, quando l'anziano protagonista Farragut, dopo la fuga dal carcere, se ne va in giro per la città e tutto gli appare nuovo e importante, pur non staccando lo sguardo dalla sporcizia, dal disordine, dalla follia.
Qui la protagonista Shannon, travolta da eventi tanto inattesi quanto tragici (il romanzo ha risvolti noir e a un certo punto il ritmo accelera bruscamente), alla fine di tante tragiche vicende riesce lentamente a riprendersi, a contenere il dolore, come se i suoi occhi che hanno visto il male ora possano godere della luce che la vita talvolta ci dona.
Molti sono i personaggi che affollano Il capitale umano e l'ambiente in cui si muovono è descritto con lucidità e bravura. Così come il cinismo - ridicolo eppure tanto crudele - del padre stesso della bella e giovane Shannon. Allora il conflitto non è soltanto tra due mondi (capitalistico e socialista - e poi: quale socialismo?), tra classi sociali (però i poveri o, meglio, i non ricchi, fingono d'esserlo, vivono al di sopra delle proprie possibilità o si vergognano profondamente di non poter scialacquare denaro), ma anche tra generazioni, e persino tra coetanei e tra fratelli.
Nel romanzo tra padre e figlia c'è un profondo conflitto che rivela un vuoto enorme, un buco, uno squarcio irreparabile. Come se la rincorsa al "capitale umano", ovvero il valore economico di ogni singolo individuo calcolato in base alla sua potenziale produttività, abbia scavato una voragine intorno alle persone, o divorato dall'interno le ragioni stesse della convivenza umana. Allora resta la sembianza, la maschera, l'apparenza, l'effetto scenografico, la quotazione di se stessi, il numero, il mero calcolo economico, la paura di non essere nessuno, di non farcela, di non valere niente.
Però, come accennavo, dopo i drammi e le delusioni la giovane Shannon, pur soffrendo di solitudine, abbandona il padre (il mondo vuoto, falso, ambiguo e pronto a tutto pur d'incassare denaro, di potersi permettere un'auto di lusso e superaccessoriata) e se ne va a vivere in un piccolo appartamento, da sola. Allora mette delle tende economiche alle finestre, qualche quadro alle pareti bianche, dei piccoli fiori in un vaso. Quasi felice della propria solitudine e dello strappo familiare, persino di doversi preoccupare di come far fronte alle spese dell'affitto, di gestione della nuova casa.
Stephen Amidon, Il capitale umano (traduzione dall'inglese di Marta Mattini, pagg. 415, euro 18 - Mondadori, Milano, 2005)
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