FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 65
novembre 2023

Autunno

 

UN SOLE SMARRITO

di Armando Santarelli



Come amavo l’autunno quando ero giovane! Il fresco alitare del vento, le piogge ristoratrici, il ritorno del silenzio, le foglie giallo polenta degli aceri, le prime partite del campionato di calcio, l’abbraccio coi compagni alla riapertura delle scuole! Ogni cosa immersa in un’atmosfera frizzante, che acuiva certe percezioni, mentre, magicamente, quietava i sensi.
Il paese ritrovava la sua vera dimensione, dopo essersi popolato, in estate, di villeggianti interessati solo a fuggire dall’afa di Roma. Nei discorsi di piazza si riaffacciavano i problemi e gli interessi locali, e i resoconti, veri o esagerati, dei cacciatori e dei cercatori di funghi. Le colline e i prati vallivi tornavano a verdeggiare e a ricoprirsi, al mattino, di scintillanti gocce di rugiada. Il sole, non più dardeggiante e spietato, splendeva sereno e amichevole; di notte, nella limpida volta del cielo, guizzavano più luminose le stelle.
Mutava tutto: noi ragazzi ricominciavamo le sortite negli orti per rubare i fichi e le mele, e le scorribande nei boschi per raccogliere le castagne. Tornava la gioiosa vendemmia – alla quale non mancava mai nessun bambino – e con lei l’acre odore del mosto. Il cimitero si riempiva di gente e di fiori, di segni di croce, di baci alle foto dei cari defunti.

Mentre scrivo mi sembra di tornare a un tempo preciso – il secondo o il terzo giorno di scuola – quando dovevamo comporre l’immancabile tema dedicato, appunto, all’autunno. Era un compito non difficile per noi che abitavamo in un paese, più ostico, invece, per chi viveva in città.
Quando, in prima liceo, il professor Mattei, insegnante di italiano, ci assegnò il tema dal titolo “Tavolozza d’autunno”, io non feci altro che incamminarmi per la via dei Vignali, girare alle Ionte, percorrere un pezzo della vallata, risalire per la Fontana Fria, e poi descrivere ciò che avevo visto e sentito. Ma Massimo Ciavarella, che pure scriveva molto bene, prese un’inaspettata insufficienza, e quando il professore gli mostrò l’elaborato che recava in calce un cinque meno, sbottò: “Professore, ma che tavolozza potevo descrivere, io che c’iò la casa di fronte alla Banca Tiburtina?”.

Tutte le stagioni hanno una propria identità. Ricca, colorata, ma dolcemente malinconica quella dell’autunno, come già avevano annunciato i crepuscoli di fine estate, la caduta delle prime foglie, il levarsi anticipato dell’oscurità. È la malinconia che troviamo in tutte le poesie dedicate all’autunno, come in una nota lirica di Vincenzo Cardarelli, che ho amato sin da ragazzo:

      Autunno. Già lo sentimmo venire
      nel vento d’agosto,
      nelle piogge di settembre
      torrenziali e piangenti,
      e un brivido percorse la terra
      che ora, nuda e triste,
      accoglie un sole smarrito.
      Ora passa e declina,
      in quest’autunno che incede
      con lentezza indicibile,
      il miglior tempo della nostra vita
      e lungamente ci dice addio.
Versi liberi, grevi di una mesta afflizione, che esprimono tutto il fascino di una stagione che resta la più grande evocatrice di stati d’animo dolenti e nostalgici.

Ma l’essere umano non conosce soltanto gli autunni meteorologici. La natura ha predisposto per ogni uomo un altro autunno, ed è quello della vita, quando il tempo, ladro invisibile, ti ruba ogni giorno qualcosa. È l’amara realtà delle sottrazioni, dei mali del corpo, dei vuoti della mente, delle emozioni e dei ricordi che iniziano inesorabilmente a sbiadire.
Umberto Saba ha condensato in pochi, vividi versi l’incedere spietato di una stagione “sì ridente che fa male al cuore”. È a sua moglie Lina che il poeta intesta la più schietta delle confessioni:

      Non vedi là in giardino
      quell’albero che tutto ancor non muore
      dove ogni foglia che resta è un rubino?
      Per una donna, amico mio, che schianto
      l’autunno! Ad ogni suo ritorno sai
      che sempre, fin da bambina, ho pianto.
Già. È quando la malinconia autunnale si innesta nella fase declinante della vita che più affiora alla nostra coscienza “quell’amaro desiderio di felicità ignota ed aliena dalla natura dell’universo” (così Leopardi nella Storia del Genere Umano delle Operette Morali). Il grande poeta recanatese smaschera facilmente il nostro errore: noi non amiamo la vita se non come strumento di felicità. È questa che l’uomo desidera, e così viene ad amare non la vita, ma la felicità, che però è un inganno, un bene inattingibile.

C’è chi è consapevole di questo errore, e saggiamente cerca di evitarlo. E chi non può neppure commetterlo, perché non solo la felicità, ma la vita stessa gli ha voltato le spalle. Milioni di uomini non aspirano alla felicità, ma semplicemente a un po’ di vita, perché oggi sono confinati in un porto libico o tunisino, o lungo le rotte balcaniche, o nei rifugi sotterranei dell’Ucraina, o nella desolazione delle rovine dell’Atlante e di Derna, o nelle regioni misere e affamate del Sudamerica e dell’Africa più povera.

E noi? Che senso hanno le parole che ho scritto sinora? Perché preoccuparsi dell’autunno della vita? Sapevamo che sarebbe arrivato, come certamente arriverà la morte. Perciò, forza, scuotersi, reagire, pensare a chi sta peggio, darsi da fare… Giusto. Ma il mondo odierno – siamo onesti – non aiuta l’autunno della vita, perché cambia ogni giorno, perché invade pesantemente le nostre esistenze, perché non lo capiamo.
Verrebbe voglia di mollare, di stabilirsi in qualche landa deserta, o avviarsi verso una clinica svizzera… Ma perché disperare? Ci sono i nuovi Dèi, e con loro i nuovi angeli custodi della nostra vita. Per la scrittrice inglese Jeanette Winterson, l’intelligenza artificiale è un angelo (ha detto proprio così) che influirà in modo positivo nelle vicende umane. L’IA potrà diventare creativa tramite la collaborazione fra uomo e macchina, e investire tutta l’umanità, realizzando così il vero bene collettivo.

Non so se credere a queste previsioni, che sono anche quelle (e la speranza dei comuni mortali aumenta nel pronunciare i loro nomi) di persone come Bill Gates e Steven Pinker. So soltanto che ho paura del mondo che verrà, anche se non sarò io a sperimentarlo. Penso spesso a come vivranno, gioiranno e soffriranno i miei figli, ed è questo timore a prevalere. Certo, per qualche tempo ci sarà ancora l’uomo a programmare computer che elaborano algoritmi e biotecnologie. Ma ciò che verrà dopo non lo sappiamo. Sarà l’inverno dell’umanità, o una nuova rinascita? Supereremo gli Dèi in cui abbiamo creduto per millenni, per collocarci al loro posto? “Sicuramente”, rispondono i fautori dell’ipertecnologia, perché Homo sapiens è un algoritmo ormai obsoleto, ed è possibile creare un sistema di dati molto più efficiente di quello che può fare un essere umano.

“Per ottenere l’immortalità, la beatitudine eterna e i divini poteri della creazione”, ha scritto lo storico Yuval Noah Harari, “abbiamo bisogno di elaborare immensi quantitativi di dati, di gran lunga superiori alle capacità del cervello umano. Quindi, gli algoritmi lo faranno al posto nostro. Tuttavia, quando l’autorità sarà trasferita dagli umani agli algoritmi, i progetti umanisti diventeranno irrilevanti. (…) A uno sguardo retrospettivo, l’umanità si rivelerà essere stata soltanto un’increspatura nel flusso di dati cosmico”. Andrà così, o si verificherà la sesta grande estinzione sulla faccia del pianeta Terra, con la scomparsa dell’Homo Deus e di Internet-di-tutte-le-cose?
Forse è nell’autunno della vita che domande del genere hanno più risalto, più ragione di presentarsi alla nostra coscienza. Ma ripeto, non possedendo una risposta, perché nessuno la possiede, torno al qui e ora, ad oggi.

Autunno, stagione non più amata come un tempo, ma ancora cara, ti ringrazio per avermi arrecato un po’ di conforto, per avermi accolto nel tuo grembo ancora tiepido e ospitale. Quando arrivi, sei come il sacerdote che non intima, ma si limita a suggerire di confessarti. E già da qualche anno, nelle serate ventose e solitarie di Poggio Marino, con alle spalle la mia baita e dinanzi i dolci profili delle colline che si estendono a perdita d’occhio, ti ho parlato come si fa dopo aver giurato di dire la verità. Ogni volta mi pare che la confessione diventi più completa, più sincera, forse perché si immagina di doverla fare, in un tempo che si avvicina sempre di più, al cospetto dell’Anima universale.
Ed eccola, dunque: ho fatto tanti errori nella vita, ma mai la mia mente era stata attraversata dal pensiero che ossessionò Ivan Il’ič negli ultimi giorni della sua esistenza, e cioè che la sua eccelsa carriera di magistrato, il suo matrimonio, i suoi interessi mondani e professionali, i suoi successi, tutto questo fosse “fuori strada”, non fosse altro che “un orribile, enorme inganno”.

Ora, invece, questo dubbio si affaccia ogni tanto alla mia coscienza. A volte, ho l’impressione di aver vissuto la vita di un altro, che alcune delle mie scelte più importanti siano state concepite e guidate da altre volontà. Ho fatto davvero, nella vita, quel che avrei voluto fare? È amaro dover rispondere con un “no”, se tengo conto di quel senso di fallimento e di frustrazione che ogni tanto si impadronisce del mio animo. Ed è triste dover ammettere che continuo a fare certi errori, quando considero le esagerazioni e le menzogne cui ogni tanto ricorro per darmi importanza. Di contro, mi capita di indulgere in confessioni e spiegazioni tanto sincere quanto superflue, che non solo non servono a nulla, ma mi hanno spesso nuociuto.
Questo sono io. Forse era mio destino rimanere una persona “acculturata”, “intelligentina”, perché – e mi viene da ridere – gli algoritmi del mio cervello erano e sono quelli, e non avrei potuto cambiarli, cosa che forse sarà possibile, per altri, in un domani non lontano.

Comunque, al mio autunno subentrerà – se mi andrà bene – l’inverno della vita. E prima che ne diventi incapace, voglio confessare quanto la coscienza mi suggerisce, rimediando a un errore dettato da una presuntuosa ed errata interpretazione della mia esistenza. In diversi scritti ho detto di non essere altro che il prodotto della severità di mia madre e dei limiti del paese in cui sono nato e ho vissuto. Dicendo “il prodotto” intendevo, a dire il vero, “la vittima”. Ma sbagliavo; se considero il cammino della mia esistenza, le gioie e le sofferenze, il bene e il male che ho fatto, oggi, nell’autunno della vita, devo onestamente concludere che dell’amore di mia madre e dell’ambiente del mio paese io non sono la vittima, perché ne sono, al contrario, il beneficiario.


armando.santarelli@inwind.it