FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 65
novembre 2023

Autunno

 

SCRIVENDO IL MANTO TERRESTRE
La poesia di Malú Urriola

di Giorgio Mobili



La più giovane tra le protagoniste della letteratura cilena degli ultimi quarant’anni (Carmen Berenguer, Eugenia Brito, Diamela Eltit), Malú Urriola (1967-2023) – prematuramente scomparsa quest’anno – eredita da queste solo in parte la messa in scena del corpo e del desiderio femminile come crocevia di varie oppressioni, dalla dittatura di Augusto Pinochet, al colonialismo americano, al machismo tradizionale. Se queste preoccupazioni sono senza dubbio rintracciabili nella sua opera – com’è forse inevitabile per una scrittrice cilena cresciuta in dittatura –, non ne costituiscono la ragione d’essere. Nei libri di Malú Urriola si respira spesso un’aria da decadentismo fin-de-siècle (nelle sue declinazioni ispanoamericane), ma che ha alla fonte i tropi della letteratura antica sulla fugacità del tempo e la corruzione inevitabile di tutto ciò che è corporeo. “Per vivere bisogna avere ossa che non temano di diventare polvere”, pronuncia uno dei tanti aforismi che brillano tra i suoi versi. E come per gli antichi, il memento mori è saldamente intrecciato al carpe diem. Il corpo che ci condanna alla dissoluzione è anche il corpo che dà piacere, e la poesia di Urriola ci accompagna, con innegabile jouissance, nelle stanze d’albergo, nei bar e nei postriboli, si sofferma su un’aria melanconica di Billie Holiday e descrive conversazioni surreali e incontri fugaci, creando notturni urbani di intensità cinematografica dove i repentini riferimenti al blues o al jazz (“Evans o Baker o Miles o Alice Coltrane”; “Hai ascoltato Nina Simone?”) hanno la funzione di attivare una vera e propria soundtrack mentale di ispirazione noir, tra David Lynch e Ascensore per il patibolo.

Ma il piacere si incontra anche perlustrando le piccole e grandi meraviglie offerte dalla natura, che Malú Urriola elenca volentieri con generosità nerudiana depurata di ogni eccesso di solennità: il riflesso dell’acqua di un fiume, la luce stellare, le uova delle rane, la cordigliera, i fiumi, le acacie. Esiste una gerarchia di valore tra il piacere di amoreggiare con uno sconosciuto sulle note languide di Nina Simone e quello offerto dalla contemplazione dell’enigmatica bellezza del creato? Nei passaggi che affrontano direttamente questa questione, si ha l’impressione di no: “Che fare delle stelle che continuano a brillare / delle acque del delta e dei traghetti da cui ci nascondemmo / perché i turisti non vedessero due donne nude / baciarsi nel fiume”. Nella generosa, splendidamente pagana umanità della poesia di Urriola, il bacio furtivo di due donne nel fiume ha lo stesso peso poetico e ontologico delle stelle che brillano in cielo. Continua, infatti, il testo: “Del sole, che fare del calore del sole / e dei grilli, e delle uova delle rane / Dei miracoli della vita, che fare? / Di quel postribolo del porto in cui ridesti tra le mie braccia...” Il miracolo della vita, insomma, si rivela tanto nel calore del sole e nel frinire dei grilli come nell’esperienza erotica in un postribolo di porto.

È anche vero che, talvolta, l’abito del corpo si fa troppo stretto e la contemplazione della natura provoca una specie di cupio dissolvi, un inizio di metamorfosi ovidiana per cui il soggetto fantastica di tramutarsi in un albero o nelle onde del mare (“Se invece avessi voluto essere un albero, mettere le radici più profonde...”). Ma le fantasie di dissoluzione non fanno che illuminare una verità imprescindibile: l’impossibilità di trascendere la prigione dell’io. In ultima analisi, infatti, un divario invalicabile separa il poeta dai suoi simili e, in generale, da ciò che lo circonda – il difuori: “Non ho tempo di aspettare nient’altro che non sia io”; “Mi sto sempre congedando, mi sorprendo nell’atto di andarmene, quando mi chiamano mi piacerebbe tagliar corto e ritornare al silenzio, che è come tornare a casa”; “Perché tu esista ci dev’essere un difuori, e io sono tutta dentro”.

Non si tratta, qui, di generico solipsismo romantico. Il punto è che il ritorno all’officina dell’io è fondamentale nella misura in cui proprio lì si produce la poesia; e la poesia è lo strumento con cui il soggetto, dalla caverna dell’io, riesce a mediare con la realtà circostante, alla cui creazione, anzi, contribuisce: “la poesia è emanazione: se si distrae si toglie la vita una stella”. Nel testo Poesia sei tornata, emblematica dichiarazione di poetica, la poetessa descrive le conseguenze funeste di ciò che si indovina essere stato un periodo di perdita dell’ispirazione: “Mi sono buttata / nella vita senza un senso. / Le strade senza di te, non sono strade. / I cieli diventano sordi. / I sassi non brillano... / Non profuma la notte, non abbaglia il sole, non proteggono le porte”. Per Malú Urriola, la poesia non è un lezioso passatempo né una posa da intellettuale da salotto. Non è neppure una “protesta a squarciagola”, una celebrazione dell’io contro la vita. E per quanto possa farsi acuto cronista delle storture della sua società (Urriola lo è spesso), il poeta non è identico al militante. Per Urriola, la poesia è in primis una necessità fisiologica. È un enzima necessario, un'interfaccia che rende possibile e funzionale il contatto tra l’io e il mondo. Non solo: questa necessità è reciproca, attiene sia all’io che al mondo. La realtà stessa, infatti, per esistere completamente, ha bisogno di essere tradotta in poesia. Ha bisogno di essere scritta. Una realtà non scritta perde il colore, cessa di essere creata. Perché la poesia è un atto demiurgico, è poiesis, “emanazione”: “Sto scrivendo un libro che sembra essere. / Che comincia a scorrere come un fiume, il nuovo ramo di una pianta che impercettibilmente ti cresce in casa, / la foglia di un albero che cade, un cadavere sul tavolo dell’obitorio, una borsa che fluttua nel vuoto”. La scrittura, insomma, ha la stessa funzione del ricamo nel famoso dipinto di Remedios Varo: come le giovani tessitrici nella torre, anche Malú Urriola, dal suo spazio privato in cui è “tutta dentro”, ricama le luci e le ombre del manto terrestre, creando il suo difuori, scrivendo “un libro che sembra essere”, e che non è altro, appunto, che il libro dell'essere.




POESIE DI MALÚ URRIOLA
da Cadáver exquisito
[Cadavere squisito, 2017]


*

Poesía regresaste.
Ha sido un infortunio esperarte.

Me he tumbado por la vida sin sentido.
Los caminos sin ti, no son caminos.

Los cielos se vuelven sordos.

Las piedras no brillan,
ni los iris de las cámaras de seguridad son de diferente color.
Ni la noche perfuma, ni el sol deslumbra,
ni las puertas abrigan.

Todo es un ir y venir atolondrado,
una pérdida de tiempo larvario,
un bullicio de vida,
una reja sin ríos,
una ausencia marejada,
una niebla sin camino,
una estrella
flotando
dentro de una ampolleta.


*

Poesia, sei tornata.
Aspettarti è stata una sofferenza.

Mi sono buttata nella vita senza un senso.
Le strade senza di te, non sono strade.

I cieli diventano sordi.

I sassi non brillano,
e neppure le iridi delle telecamere di sicurezza hanno un colore diverso.
Non profuma la notte, non abbaglia il sole,
non proteggono le porte.

È tutto un andare e venire sbadato,
una perdita di tempo larvale,
un trambusto di vita,
un’inferriata senza fiumi,
un’assenza mareggiata,
una nebbia senza strada,
una stella
che fluttua
dentro una lampadina.


*

Estoy escibiendo un libro que parece ser.

Que comienza a emanar como un río, una nueva rama de una planta creciendo imperceptiblemente en tu casa, la hoja de un árbol cayendo, un cadáver en una bandeja de la morgue, una bolsa que flota en el vacío. Digo vacío para nombrar un poblado de edificios, de cables, de ventanas, de antenas desoladas, de ropas y de rejas donde nadie se conoce.

Digo vacío como se dice infinito, como fin de mundo.
Digo que haría cualquier cosa para poder leer este libro y saber qué es ser.

Te lo digo como un cactus del camino del alma, revestido de largas espinas.
Te lo digo con una flor salvaje y roja, de corona, que sólo podrás tomar, sin tocarme.

Para que tú existas debe haber un afuera y yo soy toda adentro.


*

Sto scrivendo un libro che sembra essere.

Che comincia a scorrere come un fiume, il nuovo ramo di una pianta che impercettibilmente ti cresce in casa, la foglia di un albero che cade, un cadavere sul tavolo dell’obitorio, una borsa che fluttua nel vuoto. Dico vuoto per indicare un villaggio di edifici, di cavi, di finestre, di antenne desolate, di panni e di inferriate dove nessuno si conosce.

Dico vuoto come si dice infinito, come fine del mondo.
Dico che farei qualsiasi cosa per poter leggere questo libro e sapere che cosa significa essere.

Te lo dico come un cactus sulla strada dell’anima, rivestito di lunghe spine.
Te lo dico con un fiore selvatico e dalla corona rossa, che potrai soltanto prendere senza toccarmi.

Perché tu esista dev’esserci un difuori e io sono tutta dentro.


*

Qué se hace con las estrellas que siguen brillando,
con las aguas del delta y los ferris de los que nos escondimos
para que los turistas no vieran a dos mujeres desnudas
besándose en el río.

Con el sol, qué se hace con el calor del sol
y con los grillos, con los huevos de las ranas.

Con los milagros de la vida, ¿qué se hace?

Con ese prostíbulo del puerto donde reíste en mis brazos,
antes de llevarme a ese cuarto donde lo que no conquistó el placer
se lo llevó el olvido.

Qué se hace con las despedidas,
con las maletas,
con los aeropuertos,
con los ascensores,
con los trajes tristes,
con la puerta de embarque,
con el surco de nube,
con el silencio del cielo.


*

Che si fa delle stelle che continuano a brillare,
delle acque del delta e dei traghetti da cui ci nascondemmo
perché i turisti non vedessero due donne nude
baciarsi nel fiume.

Del sole, che si fa del calore del sole
e dei grilli, e delle uova delle rane.

Dei miracoli della vita, che si fa?

Di quel postribolo del porto in cui ridesti tra le mie braccia,
prima di portarmi in quella stanza dove ciò che non conquistò il piacere
se lo portò via l’oblio.

Che si fa degli addii,
delle valigie,
degli aeroporti,
degli ascensori,
degli abiti tristi,
della porta di sbarco,
del solco di una nube,
del silenzio del cielo.


*

Te pregunto mar, cómo no arrebatarse, no apasionarse, mantenerse calmo y no elevar las olas aunque me empuje el viento y no rogarle a la roca ni romperme, no besar su orilla, no ahogarla por la noche y retirarme por la mañana, parecer como tú, de todos, y no ser de nadie.

Cuando hubiese querido ser un árbol, enraizarme hasta lo más profundo, mantenerme sola y aferrada a una calma desesperante, aunque el viento sacuda estas ramas y los pájaros se posen en mí y mantener el peso de sus cuerpos, sabiendo que habrán de irse, y no desear volar detrás de ninguno de ellos, por el contrario, mantenerme erguido y leal a mi sombra.


*

Ti domando mare, come non esaltarsi, non appassionarsi, restare calmi e non alzare le onde benché mi spinga il vento e come non pregare lo scoglio né infrangermi, non baciare la sua riva, non annegarlo di notte e ritirarmi il mattino, sembrare, come te, di tutti, pur non appartenendo a nessuno.

Se invece avessi voluto essere un albero, mettere le radici più profonde, restare sola aggrappata a una calma da impazzire, benché il vento scuota questi rami e gli uccelli si posino su di me e sopportare il peso dei loro corpi, sapendo che prima o poi se ne andranno, e non desiderare di seguirli alzandomi in volo, ma al contrario, restare diritto e fedele alla mia ombra.


*

Una mujer con impermeable y zapatos de tacones altos cruza la calle. Su tersa mano de dedos largos sostiene, con la firmeza con que se empuña la luna, un paraguas made in China.

Su presurosa silueta se refleja por instantes en un charco de agua y aceite que bordea la acera.

Nada soy en su vida, salvo un ignoto testigo.

Yo,                                        podrías                                        marcharte.


*

Una donna con impermeabile e scarpe col tacco attraversa la strada. La sua mano liscia dalle lunghe dita stringe, con la fermezza con cui si impugna la luna, un ombrello made in China.

La sua sagoma affrettata si riflette per pochi istanti in una pozzanghera d’acqua e olio che costeggia il marciapiede.

Non sono nient’altro nella sua vita che un ignoto testimone.

Io,                                        potresti                                levarti di mezzo.


*

No pierdo las cosas. Las cosas me pierden.
Para ser caminante se requiere poco.
La pasión de las piedras por el silencio.
Las cosas no me pierden. Soy yo, que como una silla me tropiezo.
Un día parto como los perros detrás del camino.

Me llaman el olor del mar, la vieja línea de algún tren,
el hinojo creciendo bajo un durmiente, una liebre encandilada
en mitad de la noche, una lluvia en un pueblo olvidado como se olvidan
las cosas que amamos.
¿Has escuchado a Nina Simone?
Tomorrow is my turn, canta su voz temerosa de una vida a solas.
Tomorrow is my turn, las lágrimas de los pájaros las seca el vuelo.


*

Non perdo le cose. Le cose perdono me.
Per essere viandanti ci vuol poco.
La passione dei sassi per il silenzio.
Le cose non perdono me. Sono io, che inciampo come una sedia.
Un giorno parto come i cani che seguono la strada.

Mi attraggono l’odore del mare, una vecchia linea ferroviaria,
il finocchio che cresce sotto una traversina, una lepre ritta sulle zampe in piena
notte, la pioggia su un villaggio dimenticato come ci si dimentica
delle cose che amiamo.
Hai ascoltato Nina Simone?
Tomorrow is my turn, canta la sua voce timorosa di una vita da sola.
Tomorrow is my turn, le lacrime degli uccelli le asciuga il volo.


*

Como las nubes cuando se condensan en fragmentos para luego volverse el cielo mismo. Sé que tratas de atraer mi atención, pero mi atención es volátil, cualquier cosa puede distraerla, la voz de una mujer, el llanto de un niño, el relator de fútbol en la radio, el sonido del agua al golpearse contra las bases de un puente o Evans o Baker o Miles o Alice Coltrane.

Sobre el puente de Boston vi hace tiempo a la luna brillar como si hubiese vencido al reflejo del río.

Siempre me estoy despidiendo, me sorprendo yéndome, cuando llaman quisiera cortar y regresar al silencio, que es como volver a casa.


*

Come le nubi quando si condensano in frammenti per poi trasformarsi in cielo. So che tenti di attrarre la mia attenzione, ma la mia attenzione è volatile, qualsiasi cosa la può distrarre, la voce di una donna, il pianto di un bambino, il cronista di calcio alla radio, il suono dell’acqua che sbatte contro la base di un ponte o Evans o Baker o Miles o Alice Coltrane.

Sopra il ponte di Boston vidi tempo fa la luna brillare come se avesse sconfitto il riflesso del fiume.

Mi sto sempre congedando, mi sorprendo nell’atto di andarmene, quando mi chiamano mi piacerebbe tagliar corto e ritornare al silenzio, che è come tornare a casa.


*

Ya no tengo tiempo para esperar por nada que no sea yo, porque me he perdido tantas veces de mí, siguiendo a alguien o esperando por algo. Podría decir que las veces que he vivido intensamente no lo esperé, cuando amé y me amaron no lo pensé, me arrojé como una piedra se arroja al fuego.

No tengo corazón para nada más.


*

Non ho più tempo di sperare in nient’altro che non sia io, perché troppe volte ho perso me stessa, seguendo qualcuno o sperando in qualcosa. Potrei dire che le volte in cui ho vissuto intensamente non lo speravo, quando ho amato e mi hanno amata non lo immaginavo, mi sono gettata come un sasso si getta nel fuoco.

Non ho la forza per nient’altro.


*

Si no escribo, las esporas de luz se marchan por la ventana y no volverán.
Eso es todo lo que sé hacer, aguardar por palabras cuya libertad es la fuga.


*

Se non scrivo, le spore di luce se ne vanno dalla finestra e non torneranno.
Questo è tutto ciò che so fare, restare in attesa di parole la cui libertà è la fuga.


*

Después de unas copas de vino
y de esta vaga sensación de estar zozobrando
entre los días, pagamos la cuenta y salimos del bar.

La luna tenía la burlona sonrisa del gato de Carrol.

Al subir a su auto preguntó ¿dónde vamos?

Al mismo infierno dantesco –pensé– pero le contesté con otra pregunta.
Así es que después de hablar de su jefe, del mío y las horas extras regaladas a los bolsillos de otros aromos –que comenzaban a reventar amarillos en esas muertas calles del barrio alto, cercadas con corriente–.
Dejamos que la silueta de la cordillera recostada sobre la noche, nos colgara en mitad de la boca una sed imposible de saciar.
Y a intervalos dormimos y nos volvimos a besar infernales, hasta que amaneció.

Fingí dormir hasta que despertó, o fingió despertar,
y entonces –como si fuese a decir aquella palabra
innombrable, pactada en el terror del silencio–
dijo, ojalá que gane González.

Cuando llegué a mi casa, el vecino, mientras barría la calle,
me contó que González ganó la medalla de bronce.

Desde esa soleada mañana, jamás volví a saber
qué diablos fue de su vida.
Ni quién carajo era González.


*

Dopo qualche bicchiere di vino
e questa vaga sensazione di naufragare
tra le giornate, pagammo il conto e uscimmo dal bar.

La luna aveva il sorriso burlone del gatto di Carrol.

Salendo in macchina chiese: dove andiamo?

All’inferno dantesco – pensai – ma gli risposi con un’altra domanda.
E così dopo aver parlato del suo capo, del mio e le ore extra regalate alle tasche di altre acacie – che cominciavano a scoppiare di giallo in quelle vie morte del quartiere alto, recintate con la corrente –.
Lasciammo che il profilo della cordigliera sdraiata sulla notte ci appendesse in mezzo alla bocca una sete impossibile da estinguere.
E a intervalli dormimmo e tornammo a baciarci infernali, fino al mattino.

Finsi di dormire finché si svegliò, o finse di svegliarsi,
e poi – come se stesse per dire quella parola
innominabile, concordata nel terrore del silenzio –
disse: speriamo che vinca González.

Quando arrivai a casa, il vicino, mentre spazzava la strada,
mi annunciò che González aveva vinto la medaglia di bronzo.

Dopo quella mattina assolata, non ho più saputo
che diavolo ne sia stato della sua vita.
E nemmeno chi cazzo fosse González.


*

La poesía no es una mujercita esperando sus palmaditas en el trasero, ni cánticos de alcohólicos vociferantes con imágenes mendigas que no superarían a Wilms Montt, ni versos pederastas que cantan a las minifaldas de las muchachas, ni gritos desgarrados por un mundo que los olvidó en un bar.

Ni por más obscenos, vanguardistas,
ni por más desnudos, performancistas,
ciertamente,
cuanto más misóginos, más siervos
y cuanto más doctos, más dóciles.

El yo contra la vida
ha sido inútilmente desgarrado hasta el hartazgo.


El futuro acontece imprevisiblemente.
Ningún control
de los hechos pasados o por venir
en el sendero de la poiesis.

Si no consigue la gloria de una elite más triste que mil mudos, no apoltrone sus versos en cosas que se pondrán amarillas.

El asunto de la poesía es emanación.
Si se distrae, se quita la vida una estrella.


*

La poesia non è una donnina in attesa delle vostre pacche sul sedere, né un coro di ubriaconi vociferanti con immagini da barboni che non supererebbero Wilms Montt, né versi pederasti che inneggiano alle minigonne delle ragazzine, né proteste a squarciagola per un mondo che vi ha dimenticati in un bar.

Né l’essere osceni vi rende avanguardisti,
o l’essere nudi vi rende artisti di performance,
certamente,
quanto più siete misogini tanto più siete servi,
quanto più dotti, tanto più docili.

L’io contro la vita
è stato inutilmente squarciato fino alla nausea.

Il futuro accade in modi imprevedibili.
Nessun controllo
dei fatti trascorsi o a venire
sul sentiero della poiesis.

Se non otterrai la gloria di una élite più triste di mille muti, non affossare i tuoi versi in cose destinate a ingiallire.

La funzione della poesia è l’emanazione.
Se si distrae, si toglie la vita una stella.


Traduzione dallo spagnolo di Giorgio Mobili




Malú Urriola (Santiago de Chile, 1967-2023)
poeta, docente universitaria e sceneggiatrice cilena, esordisce a ventun anni con la collezione lirica: Piedras rodantes (1988), a cui seguono Dame tu sucio amor (1994); Hija de perra (1998); Nada (2003, che ottiene due importanti riconoscimenti, il premio del Consejo Nacional del Libro y la Lectura e il Premio Municipal de Poesía); Bracea (2007); Cadáver exquisito (2017) e Cuaderno de las cosas inútiles (2022). Nel 2006 ottiene la consacrazione definitiva con il prestigioso premio Pablo Neruda per l’opera.
È stata ospite delle Università di Harvard, Princeton, Georgetown, Washington, Maryland, e The King Juan Carlos I of Spain Center, University of New York, per conferenze o letture delle sue poesie. Nel 2015, La Luz que me ciega, progetto multimediale di fotografia, video e poesia realizzato con la fotografa Paz Errázuriz (Premio Nacional de Artes Plásticas, 2017), è stato esposto alla Biennale di Venezia, Padiglione del Cile.
La sua poesia è contenuta in diverse antologie, tra cui: Antología de la poesía latinoamericana del siglo XXI. El turno y la transición (México: Siglo XXI Editores, 1997) e Cuerpo plural. Antología de la poesía hispanoamericana contemporánea (España: Edición del Instituto Cervantes y Pretextos, 2010).


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