Ottobre. Percepiti: 32 giorni.
Niente di nuovo,
ho consegnato le parole torride zelanti
senza ritmo né sintassi
al grande sole a strisce sulle pagode,
mettiamo un battito,
il tempo di una ragnatela
primizia di frescura
fra due sieste.
Sbiadire ‒ questo ed altro ‒ tra
le zampe dei gatti color miele
tra i grandi pioppi tremuli e così via
tra i moduli da riempire
tra le file d’attesa in città.
E così.
Fracasso e polvere
luci confuse dai riflessi arancione.
E così ‒ dicevo ‒ non prendo mai il bus per via del mal di schiena,
mi metto in fila alla fermata per ascoltare la gente
e prendo nota sull’agenda dell’anno precedente
‒ quella incinta di un embrione di matita ‒ che era comoda
per chi dimentica un sogno,
una festa, una ricetta
un qualche appuntamento
foss’anche di poca importanza.
Ascolto una frase poi dieci
di quelli in coda
con l’autunno in bocca
sotto raggi malati,
sotto fiele epocale.
A fare opera di montaggio
ci sarebbe da divertirsi.
Sto in coda alla banca
sto in coda al mercato
‒ vertice di parole elastiche
che dondolano dai rami e non cadono ‒.
La mandria ne sa più dei poeti.
Pourquoi n’écris-tu pas un roman
diceva mia madre,
magari nei giorni di pioggia
una pagina al giorno
almeno guadagni qualcosa!
Mi suggeriva persino titoli e storie
come un’evidenza impressa
tra pollo e dessert!
Novembre. Percepiti: 34 giorni.
Sarà banale dire che è caduta una foglia
sarebbe normale comporle un inno
ma è caduta una foglia
come cadono i pantaloni.
Valeva la pena annotarlo?
Da piccola piangevo
se muoveva una piuma sul prato.
La piuma, diretta verso di me
come mano di stregone.
La piuma dal cuscino
saltava poi sul seno
e sul seno, dita forestiere
che rotolavano in discesa
fino
all’equatore
di me stessa.
E io sorda e io immobile
fissata dall’occhio del granchio azzurro
starnutivo più forte del previsto
sollevando la polvere dei segreti.
L’autunno è la stagione
che ci fa dimenticare streghe e zanzare.
Le streghe: fuoco ai boschi
per tutta un’estate.
Alle zanzare avevamo promesso creme repellenti
piastrine dissuadenti
fornelletti crepitanti
vortici di zampironi fumanti
e alla fine ‒ pur se vinsero loro ‒
mostrammo i denti.
Novembre. Percepiti: 35 giorni.
E i vecchi film:
dimenticati.
E gli attacchi di tosse:
soffocati.
I contenitori delle medicine in aumento.
Addio Venezia, Tiziano, Giorgione,
siamo a foschie sognanti, ai decotti di cianuro.
Sulle grondaie del linguaggio, i coltelli
e le sillabe annegate della cedevolezza.
Novembre. Percepiti: 38 giorni.
Era autunno di sogni agitati
e noi invece calmi
all’ombra dell’estate
e noi invece allegri
‒ giorni non di sopracciglia alzate ‒
immersi nel temporale
gocce latenti
denti di lattanti
che rodevano gli stinchi.
Era autunno di sonni induriti e noi
‒ lo so che spesso dico noi pensando solo io, scusate è un vezzo ‒
noi, dunque, che nulla rendeva solenni
‒ nel mezzo della storia ‒
aspettando i radiatori
appesi all’albero dell’impotenza
a masticarla, l’impotenza
spine di castagne
agli angoli degli occhi
sulle mani
sulle palpebre.
C’erano ancora stagioni
depositate sul fondo di noi
con quel silenzio nobile
che ci alleggeriva.
Chiedevamo al nostro cervello
di saper apprezzare i giorni fulvi,
con quel turbinare sotto le gonne
impigliate nella musica di esistere
mia sorella chiusa a chiave in bagno a mordere l’adolescenza
‒ almeno così credevo ‒
in realtà, da attrice perfetta, preparava con perfetta maschera
la sua perfetta morte.
Mia sorella ribelle e perfetta, nessun rimprovero!
Stavo sperimentando
giochi di prestigio
per entrare nella nuova era.
Ma l’orizzonte limpido
non significava assenza di tempeste.
Non sopportavo l’idea di una stagione
di radiatori bassi,
il pensiero di una guerra
il lenzuolo usato dell’epidemia
al suo ritorno in scena
l’obbligo del sesso per carenza d’immaginario.
Volevo solo darti la mano
respirarti fuor d’acqua
per farti nevicare.
Avrei creato un’opera rock
riempito un taccuino di liste illeggibili
creato un mantello di foglie e di doglie,
riempito lo zerbino di cose ordinarie.
Nubifragio.
Ed io volevo dirti.
Che cosa volevo dirti?
Una
pioggia
di
nodi
schiaccia
il
fogliame.
Piove sulla pelle delle cose insistenti
mentre qualcuno inghiotte il mare.
L’acqua scivola tra le parentesi,
sul tuo corpo, nella vasca,
muta in latte nero.
Crescono a grappoli
gli umani fragili
le gambe agili
i tatuaggi.
Smottamenti.
Se son foglie non seccheranno.
Eccomi nel rosso-giallo
cascate di legname
ma chi voleva sparlare dei colori?
Lubrificata da carezze ipocrite,
Non so dove andare. Come sempre.
Mi dicono che chi
non sa dove andare
di sicuro sa dove andare.
I doganieri dell’autunno
lasciano passare la roulette dei piovaschi
la roulotte dei cani assetati.
Giornata perfetta per grattarti la schiena
con lenta innocenza.
Fai finta ch’io non esista.
La poesia ti danza a fianco
muove le lenzuola.
Con ciò che sveli faccio i conti.
Ed ora corro alla sagra delle castagne
a trovare la parola dissetante,
un ombrello capiente,
un amante fedele.
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