Non si chiamano estate
È solo un gioco di parole, è l’assonanza tra due cognomi e la traduzione inglese della parola tema di questo numero di Fili d’Aquilone: estate, summer.
I cognomi sono Summers e Sumner e ammetterete anche voi che il richiamo è allettante. I due “tizi” sono Andy Summers e Gordon Matthew Thomas Sumner meglio conosciuto come Sting, chitarrista il primo mentre il secondo è cantante e bassista. Formano due terzi del gruppo dei Police.
L’altro elemento è il batterista Stewart Copeland e, forse – ma questa è soltanto la mia opinione –, il più visionario e sperimentatore dei tre.
Non starò qui a raccontare la storia dei Police, il pretesto dei cognomi “estivi” lo userò per ricordare un loro lavoro del 1981: Ghost in The Machine.
Dopo i primi tre album – Outlandos d’Amour, la rivelazione, Regatta de Blanc, la conferma e Zenyatta Mondatta, il più commerciale ma anche il meno ispirato e più ripetitivo, anche lo zoccolo duro dei fan era un po’ stanco e pronto a voltar loro le spalle nel caso in cui lo sfruttamento dei ritmi reggae dei primi lavori avesse marchiato anche quest’ultimo disco. Invece ecco la svolta, quella dei timbri inediti di tastiere e sintetizzatore, delle cadenze non ancora percorse da Copeland, dell’uso del sassofono e dei testi ispirati. Certo, Sting non riesce ad abbandonare definitivamente il suo personalissimo yodel (in Invisible Sun e in Ωmegaman ce ne fornisce due esempi classici) ma poi ci sorprende al sax in Spirits in The Material World, Too Much Information, Re-Humanize Yourself e Demolition Man.
Il front man è anche l’autore di quasi tutti i brani che compongono l’album (Re-Humanize Yourself è firmata da Sting e Copeland, Darkness solo dal batterista mentre Ωmegaman è opera di Summers) ed è sempre a Sting che si deve la concezione dell’intero lavoro ispirato dall’omonimo libro Ghost in The Machine, un saggio filosofico di Arthur Koestler sulla psicologia comportamentale.
È chiaro che detta così si potrebbe immaginare un’operazione più intellettuale e di nicchia che musicalmente alla portata di tutti. In effetti il risultato che ne deriva è leggibile da più punti di vista.
Brani come Secret Journey, One World (Not Three) e Every Little Thing She Does Is Magic ci riportano allo stile classico della band e permettono un facile ascolto ma contemporaneamente emanano un’aura che sorprende l’ascoltatore grazie all’uso delle nuove sonorità. Fantastica Darkness nella melodia e nell’arrangiamento dove la batteria di Copeland fa solo capolino ed è praticamente assente e sostituita dal ritmo del basso.
Il brano Ωmegaman accontenta gli ascoltatori meno pronti al cambiamento, con tanto di assolo di chitarra e dell’immancabile yooh di Sting.
Oltre ai titoli finora citati completa l’album Hungry For You (J’aurais toujours faim de toi) dal testo francese ma non per questo più morbida rispetto all’atmosfera respirata durante l’ascolto dell’intero album, un lavoro dalle atmosfere cupe dove spesso, nei testi, l’oscurità è richiamata esplicitamente ma nei quali si percepisce anche il tentativo e la speranza di tornare alla luce, di venire a capo di ogni problema.
Questo quarto lavoro dei Police ebbe un grande successo commerciale nonostante un impatto iniziale non morbidissimo. Ma l’evoluzione, anche nei fan meno aperti alle svolte, riesce sempre ad avanzare e questo album ha il merito di aver tracciato nuovi percorsi.
Nel tentativo meschinamente velleitario di trovare altri raccordi tra il disco e il tema di questo numero della rivista, ho cercato il giorno di pubblicazione nella speranza che fosse caduto in uno dei quattro mesi che coprono l’estate astronomica. Niente da fare: 2 ottobre 1981, giusto una decina di giorni dopo il termine della stagione più calda.
Vuol dire che il direttore dovrà accontentarsi del pretesto iniziale.
cardstefano@libero.it
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