FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 57
gennaio-aprile 2021

Oasi

 

OLIVIA EIELSON E LA PLURALITÀ
DEL LINGUAGGIO ARTISTICO

di Martha L. Canfield



Olivia Eielson è nata nel 1939 a Minneapolis, negli Stati Uniti. Fin da bambina ha avuto la vocazione per la pittura e ha raccontato come, vedendo gli olmi che fiancheggiavano la strada di casa sua, innamorata delle geometrie bianche e nere in inverno e di un misterioso profondo verde d’estate, si domandava se sarebbe mai stata capace di raffigurare quelle forme senza tradire il messaggio che destavano in lei.

Più tardi studiando al Boston University College of Fine Arts diventò allieva del pittore e ritrattista Morton Sacks, che la guidò alla scoperta delle sue doti come pittrice e le fece capire – come ha raccontato lei stessa – di essere in grado di ricreare quello che vedeva. Ma soprattutto si trovò in sintonia con il suo maestro riguardo al rapporto fondamentale tra pittura e piacere visivo. Finito il college e avendo vinto un primo premio di pittura, Olivia poté trasferirsi a Salisburgo per frequentare la Schule des Sehens, dove diventò allieva di Oskar Kokoschka, l’altro maestro che lei ha sempre ritenuto fondamentale per la scoperta del suo mondo interiore, oltre che per lo sviluppo delle tecniche.

Olivia riuscì a dedicarsi completamente alla pittura, e in minor misura anche alla scrittura e alla musica. Come artista raggiunse presto un alto livello e le sue opere si trovano in numerose collezioni private di tre continenti, ha fatto moltissime mostre personali e collettive ed è spesso invitata a far parte della giuria di premi e concorsi d’arte.

Nella sua pittura predomina la combinazione di forme ritagliate dall’ambiente urbano, architettonico e industriale, come tubi, catene, pezzi di macchine e pilastri, archi rampanti, pilastri e navate, con inaspettate forme vegetali, alberi, foglie, rami, schizzi d’acqua, luci invadenti; e tutto sembra suggerire un caos minaccioso e inarrestabile. Lei è solita riunire i suoi dipinti in gruppi che hanno una tematica comune. Uno degli ultimi l’ha intitolato “After Piranesi / After us” ed è ispirato al lavoro dell’artista veneziano del Settecento. E lei stessa ha dichiarato che ha voluto combinare immagini di antiche rovine con elementi industriali moderni per suggerire come il nostro modo di vivere, basato su una crescita infinita della popolazione e dei consumi, sia destinato a distruggersi. Questa preoccupazione sullo squilibrio ecologico in crescita che minaccia la sicurezza del nostro pianeta è uno dei pensieri costanti di Olivia e si riflette nella sua creazione.

Un’altra serie di dipinti riguarda un personaggio creato da Olivia, sua “figlia” Rosie, come la chiama lei, che non è altro che un pupazzo alto un metro e ottanta, spesso in compagnia del suo amico, il Serpente Verde. Qui predomina l’ironia e il senso ludico. Di entrambe le serie seguono alcuni esempi.



Rosie addormentata nella mano della sua dea


Rosie e Serpente guardano la vecchiaia



Adamo ed Eva


Interior



Traversa


Fiat Lux



Sala macchine


Nell’anno 2004, insieme a sua cugina Kari Mork, Olivia venne a sapere dell’esistenza di un artista peruviano dallo stesso cognome suo, che viveva a Milano: Jorge Eduardo Eielson. Dato che questo cognome è piuttosto raro, e tenendo conto del fatto che suo padre era vissuto in Perù per motivi di lavoro negli anni ‘20, proprio in coincidenza con la nascita di Jorge, Olivia e Kari si misero in contatto con Jorge e poco dopo andarono a Milano a trovarlo. Jorge venne quindi a scoprire che non era vero quello che gli avevano detto, cioè che suo padre era morto quando lui era piccolo, ma in realtà era tornato negli Stati Uniti, si era sposato e aveva formato una famiglia, tagliando completamente i legami con il Perù.
Le affinità tra Jorge e Olivia risultarono straordinarie e fra di loro si creò subito un grande affetto e una profonda comunicazione. Jorge aveva perso da poco il suo compagno di vita, il pittore sardo Michele Mulas, e ha sempre sostenuto con ferma convinzione che l’incontro con Olivia era un dono della provvidenza, voluto da Michele.

Quest’anno, per ricordare Jorge nel 15° anniversario della sua scomparsa, il Centro Studi Eielson organizzerà un convegno internazionale di peruvianisti e proporrà a Firenze una mostra di Olivia.
L’intervista che segue fa parte di un dialogo che arricchisce la conoscenza dell’opera di Olivia e anche del miracoloso rapporto con il fratello scoperto così tardi.


Intervista con Olivia Eielson



Tu sei conosciuta come pittrice ma sei anche scrittrice e musicista. Quando hai scoperto queste doti e quando hai cominciato a praticarle?

Mi considero essenzialmente una pittrice. È vero, comunque, che anche scrivo e suono il pianoforte. Le lezioni di piano sono cominciate quando avevo 7 anni; mi sono fermata quando avevo 12 anni, dopo aver memorizzato le 20 pagine circa del Rondò di Beethoven dal secondo concerto; la mia scusa era che stavo per andare alla scuola media e che allora avrei dovuto passare tutto il mio tempo a studiare. Tuttavia, penso di essere stata anche terrorizzata all’idea di suonare con l’orchestra della scuola di musica e davanti a un pubblico! Di tutte le decisioni della mia vita, questa è quella che più mi rincresce. Se avessi perseverato, avrei imparato moltissimo musicalmente e avrei anche incontrato altri ragazzi con un forte amore per le arti. Non ho mai smesso di suonare, comunque, frequentando sale da prova, quando non avevo un piano mio, dove l’affitto degli strumenti costava cinquanta centesimi all’ora. Adesso però ho un meraviglioso pianoforte tutto mio!

Questo per quello che riguarda la musica. E la scrittura?

All’inizio pensavo di diventare poetessa, avendo pubblicato alcuni versi e avendo vinto alcuni premi come studentessa presso il Radcliffe College di Cambridge. Mentre continuavo a scrivere poesie e alcuni racconti, e ogni tanto pubblicavo piccole cose, la pittura divenne il mio obiettivo. Tuttavia, quando mio marito morì nel 1981, decisi di scrivere tutto quello che potevo ricordare di lui, sapendo che con la mia memoria molto imperfetta questi registri mi avrebbero fatta molto felice. Poi ho pensato di trasformare il manoscritto in una storia coerente, che potesse essere letta da altri, e da allora ci ho lavorato sporadicamente. Ora il manoscritto si trova sulla mia scrivania e penso di pubblicarlo, in qualche modo, sicuramente online nei prossimi mesi. È una storia femminista degli anni ’70, intitolata The Myth of Romantic Love (il titolo deriva da un corso che ho tenuto all’UC Berkeley, poco prima di finire il mio PhD in letteratura comparata). Confesso che in realtà è abbastanza “romantico”, ma pone molte domande, una delle quali non sono stata in grado di affrontare fino agli ultimi anni. Sul lato più accademico: ero una delle cinque donne che hanno messo insieme una raccolta di saggi personali, nostri e di altre donne che erano state studentesse nel dipartimento di letteratura comparata a Berkeley negli anni ’70. Il libro (The Berkeley Literary Women’s Revolution, McFarland, 2005) racconta una sorta di storia del prima e del dopo degli anni ’70 sul ruolo delle donne scrittrici nei canoni classici della letteratura inglese, tedesca, francese e sul posto delle donne nel mondo accademico (una storia che non è ancora finita, ovviamente). Il mio saggio è intitolato The Woman Who Wanted Too Much (La donna che voleva troppo) e in parte parla della pittura in rapporto con la scrittura e l’insegnamento. Il libro è attualmente disponibile online.

E la vocazione per la pittura, come l’hai scoperta? Hai avuto stimoli in famiglia?

Certamente. Quando mia madre era giovane, si è trasferita dall’Università di Chicago al Chicago Art Institute, dove si è laureata in scultura; era l’inizio della Depressione, che pose fine alla sua speranza di una vita dedicata all’arte. Lei comunque mantenne vivo il suo interesse e chiaramente ha avuto influenza su di me. Sono stata anche fortunata a crescere a Minneapolis, che ha un meraviglioso Istituto d’Arte. Ho potuto vedere buoni esempi di quasi tutti i principali artisti occidentali, insieme ad alcune opere d’arte provenienti dall’Africa. Fu molto più tardi che il Walker Museum è diventato quello che è adesso.
Al college ho frequentato diversi corsi d’arte, sia di storia dell’arte (occidentale) sia di pratica artistica. Erano lezioni serali informali, che comunque mi hanno dato la base pratica e il coraggio di pensare che forse avrei potuto dipingere. Fino ad allora i miei sforzi erano stati così lontani da quello che volevo che sembrava che tutto fosse senza speranza. Ma ho vinto un premio e ho ricevuto l’incoraggiamento dal mio professore, il ritrattista di Boston Morton Sacks, che mi ha influenzato in molti modi, come ho capito recentemente guardando la sua voce su Internet.

Chi consideri i tuoi maestri?

I miei maestri? Oltre a Morton... sono troppi da elencare! Tuttavia, Morton pensava che il più grande artista vivente (era il 1960 più o meno e c’era molta concorrenza per questo titolo!) era Oskar Kokoschka, che aveva una scuola estiva a Salisburgo, la Schule des Sehens. I candidati non dovevano essere famosi e realizzati; era una scuola per prendere visione dell’atto di creare, per imparare a vedere come si crea. Allora io mi misi a lavorare per due anni, risparmiai un po’ di soldi e andai alla scuola di Kokoschka, che è stata molto importante per me. Lui voleva farci vedere appena fatti gli arrangiamenti di colore, le luci, le ombre, non come idee preconcette o stereotipi di gomiti o di ventri o altre parti del corpo. Kokoschka aveva modelli splendidi che cambiavano posizione ogni 15 minuti e noi dovevamo seguire questi cambiamenti tutto il giorno. Kokoschka portava caramelle nelle sue tasche e le dava a coloro di cui approvava il lavoro. Sono sicura di non essere stata l’unica a conservare quelle caramelle per molti anni!
Attualmente credo si possa dire che ho un maestro in particolare, ed è Piranesi.
I miei dipinti degli ultimi vent’anni di solito li chiamo “Dopo Piranesi / Dopo di noi”. Fin dalla Giornata della Terra del 1970 mi sono preoccupata per il nostro futuro ambientale.

Scusa, ti interrompo. Ti riferisci all’Earth Day (“Giornata della Terra”), che si celebra tutti gli anni il giorno dopo l’equinozio di primavera, cioè il 22 aprile, indetta dalle Nazioni Unite per commemorare l’ambiente e la salvaguardia del pianeta e che è nata proprio nel 1970?

Sì, esattamente. Fin da allora seguo i problemi dell’ambiente. Tutte le questioni sollevate in quel tempo restano tuttora attuali, malgrado le disperate e vuote rassicurazioni del mondo finanziario. La speranza che pongo nella pittura è che gli spettatori siano attratti dalla forma, la composizione, il colore – cioè gli strumenti artistici – per poter vedere quello che effettivamente stiamo facendo. Ma c’è anche un aspetto oscuro nel sogno di questi dipinti, e questo lo devo a mio padre – anche padre di Jorge – che ha capito intuitivamente la minaccia dietro le grandi, splendide creazioni industriali, e anche piuttosto mostruose.
Mentre il mio tema principale sono le rovine industriali, negli anni ho trattato diversi argomenti: Rosie, la mia unica figlia, è stata la mia modella per molti dipinti, insieme a un serpente verde (regalo di un entusiasta mercante venditore bric à brac) e il mio vecchio cappello Fedora. Ho anche passato alcuni anni a lavorare in acquerello.

Come è stata la tua infanzia, che mi puoi dire di tua sorella?

La nostra infanzia è stata sicura e protetta, come era abituale nella classe media. C’era molta tensione in famiglia, ma forse questo è “normale”. Mia sorella Charlotte aveva quattro anni più di me e non ha mai accettato bene l’idea di non essere l’unica figlia, di dover condividere l’attenzione dei genitori. Quindi la conoscevo molto poco, anche da grande. Le nostre mentalità erano completamente diverse: ero una lettrice, introversa, e vivevo nel mio mondo privato; lei invece era socialmente realizzata. Da adulta non sopportava molto l’arte, che considerava tutto sommato una perdita di tempo. In fondo nutriva un forte desiderio di successo; era una personalità molto forte e volitiva. Quando abbiamo scoperto l’esistenza di Jorge, lei voleva incontrarlo, ma forse aveva paura di non essere all’altezza di un artista così dotato e realizzato. Hanno parlato al telefono, ma questo è tutto. Forse avrebbe voluto incontrarlo, ma è morta prima che questo fosse possibile, in un incidente d’auto nel 2005.

Come hai scoperto l’esistenza di tuo fratello dalla parte di tuo padre, il peruviano Jorge Eduardo Eielson? E che ruolo ha avuto la tua cugina Kari Mork in questo incontro?

È stato proprio tramite mia cugina Kari Mork che ho saputo dell’esistenza di Jorge. Kari, che vive in Svizzera, stava cercando online possibili parenti in Europa. Quando ha scoperto Jorge, l’ha contattato; cosa non facile, credo, perché Jorge si proteggeva con muri di privacy da un eccesso di ammiratori! Comunque è riuscita a contattarlo e poi ha chiamato me. Kari mi ha detto che Jorge non era in buona salute, quindi ho preso subito un aereo per Milano e sono andata a trovarlo a casa sua, temendo che potesse, anche in breve tempo, ammalarsi troppo per un incontro del genere. Ci siamo visti più volte e abbiamo subito scoperto che, nonostante le differenze culturali – per lui il Perù e l’Europa, per me l’America del Midwest –, i nostri interessi, i valori e il modo di vedere la vita erano così simili che la conversazione risultava un vero e raro piacere. Per Jorge, che aveva sentito con profonda tristezza la mancanza di una famiglia “reale” durante la sua crescita, nonostante gli fossero state date le cose materiali di cui aveva bisogno, e che inoltre aveva perso da poco il vero grande amico della sua vita, Michele, la mia presenza gli fece sentire qualcosa come il recupero della famiglia scomparsa. Per me Jorge era il tipo di famiglia che mi era mancata: un fratello (o magari compagno d’armi?) che capiva che una vita dedicata all’arte vale le incertezze. Io e Jorge non siamo mai riusciti a decidere con sicurezza se la nostra relazione fosse veramente un rapporto di sangue o semplicemente un incredibile colpo di fortuna. Ad ogni modo, eravamo enormemente grati agli dèi provvidenziali, e a Kari! Kari poi ha fatto molte cose per aiutare Jorge, specialmente, a quanto mi risulta, quando la sua salute peggiorò. E lui apprezzava molto il suo calore, la sua intelligenza, la sua capacità di muoversi nel mondo pratico; ed era anche attratto dal suo fascino.

Dopo avere visto Jorge a Milano, insieme a Kari e alla sua piccola figlia, tu hai trascorso l’estate del 2005 insieme a lui nella sua casa di Barisardo. Che ricordi hai di questo soggiorno?

Siccome il primo incontro con Jorge era stato così bello – una vera scoperta per entrambi – lui mi ha suggerito di andare a trovarlo l’estate successiva in Sardegna e di fermarmi lì almeno per un mese. E io così ho fatto. Parlavamo tutti i giorni di arte e di cose della vita. Capii di essere diventata per lui la persona a cui poteva finalmente raccontare le sue lotte e i suoi successi; e dato che condividevo la sua dedizione all’arte, sentiva che io capivo bene quanto tutto questo significava per lui. Ho saputo molto della sua vita, dalla nascita fino agli anni nell’arte. In un certo senso, ero anche una sua allieva; ma non sempre obbediente, poiché la mia educazione nel Midwest e la mia preferenza per l’esperienza artistica personale, perfino viscerale, a differenza dell’approccio teorico-intellettuale, non si trovavano sempre in armonia con le prospettive di Jorge. Ma non ho mai messo in discussione l’arte di Jorge. Il suo lavoro visivo mi ha commosso per la sua bellezza, originalità e integrità. La sua scrittura invece è stata più difficile perché il mio spagnolo è piuttosto limitato; ma con un dizionario in mano, ho trovato un nuovo piacere leggendo le poesie di Jorge, con la loro apparente semplicità e profonde risonanze.

È molto bello quello che dici. E sono sicura che Jorge sarebbe felice di sentire i tuoi pareri sulla sua opera. Non l’ho mai visto così felice come quando ha incontrato te e Kari e ancora di più quando sei stato con lui in Sardegna. Ma veniamo a te oggi. So che dopo i tremendi incendi che hanno devastato la California tra il 2017 e il 2020, tu hai cambiato casa più volte. Come hai vissuto questi traslochi e che effetti hanno avuto sulla tua opera?

Mi fai una domanda importante per me, perché hanno avuto sicuramente degli effetti sulla mia mente e sul mio corpo i traslochi che ho dovuto fare tre volte tra gennaio 2018 e settembre 2019. Nel primo trasferimento ho dovuto abbandonare una casa che ho molto amato per più di 21 anni; ma purtroppo rimaneva proprio nella zona e nel tipo di terreno dove l’incendio aveva causato tanti morti: c’erano molti alberi secchi e arbusti molto infiammabili e solo pochissimi sentieri stretti per allontanarsi, senza vere strade di uscita. Mi sentivo troppo vecchia per affrontare l’ansia di questi problemi e così ho deciso di andare in un posto più piccolo in città. Questo significava disfarmi di circa un terzo delle mie cose, sistemare e vendere la casa e traslocare, con tutti i miei dipinti e le mie attrezzature insieme agli utensili domestici.
La nuova abitazione si rivelò inaspettatamente piena di gravi problemi, per cui sei mesi dopo ho traslocato di nuovo; e poi un anno dopo ho comprato una casa con una buona luce, spazio per dipingere e ottime strade per fuggire da un eventuale incendio (incredibile ma ora questa cosa rientra nella mia lista di primi bisogni).
Tutto questo ha cambiato i miei sentimenti sulla permanenza. Mi sono disfatta di qualcosa di più che mobili o semplici oggetti; la mia mano nella pittura si è rallentata e le cose che amavo nonostante la situazione ambientale e le mie illusioni su un futuro coerente, in cui la società potrebbe essere più o meno come è adesso, tutto questo l’ho dovuto in gran parte lasciare indietro.

Hai progetti per il prossimo futuro?

Il mio piano per il prossimo futuro (e per quello lontano, se vivrò abbastanza a lungo) è di restare qui il più a lungo possibile, data la mia età, e vivere in modo molto semplice, dipingendo, leggendo, suonando il piano e forse scrivendo anche. Ma pensa: questo è sempre stato il mio piano!

C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

In realtà non ho detto nulla sui miei tre matrimoni (che hanno richiesto molto tempo ed energie): un divorzio e due vedovanze, entrambe per via di tumori cancerogeni. Ma questo non riguarda per niente la mia relazione con Jorge e volevo parlare di questo. La scoperta di Jorge è stata per me una sorta di miracolo. E potrei dire di più sui modi in cui Jorge ed io ci sentivamo legati; c’erano tante cose, anche piccole, ma tutte molto significative.

Ultima domanda: per settembre di quest’anno abbiamo programmato un grande evento organizzato dal Centro Studi Jorge Eielson e l’Associazione Internazionale di Peruvianisti. Ci sarà un convegno accompagnato da tre mostre d’arte: una del peruviano Carlos Runcie Tanaka, una di Jorge e una tua. Sarà la tua prima mostra in Italia e il Centro Eielson è molto fiero di queste realizzazioni. Hai qualche proposta speciale per questa mostra?

No. Preferisco che siate voi, i curatori della mostra, a scegliere le opere. Non ho dipinto molto negli ultimi anni. Ma il mio sito web (oliviaeielson.net) è aggiornato e lì c’è molto materiale per fare delle scelte.


canfieldmartha@gmail.com