FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 55
maggio/agosto 2020

Cenere

 

FREUD SUL LETTINO DI SHAKESPEARE
Considerazioni sul Canone Occidentale di Harold Bloom

di Marco Testi



È passato un anno dalla scomparsa di Harold Bloom (era nato nel 1930 a New York), che ha rimesso sotto i riflettori mediatici la sua opera più celebre: Il canone occidentale. Uscito nel 1994, il Canone ha scatenato subito una serie di dibattiti e di reazioni piccate, che hanno fatto il gioco del critico, perché, prevedendo quelle reazioni, egli le aveva preventivamente bollate come “scuola del risentimento”: opera di gente dedita più a contestare che a costruire, eternamente insoddisfatta degli altri (e di sé, faceva capire Bloom) e occupata a travasare, il che equivaleva all’orrore per lui, idee partitiche in letteratura. La sua era una accanita, aristocratica guerra agli ismi, alle correnti e soprattutto alle “scuole” marxiste, femministe, neo-storicistiche, freudiane e più latamente psicanalitiche, ivi compresa la deriva Lacan-Derrida e infine allo strutturalismo, in nome dell’indipendenza e dell’autonomia della letteratura. Ora questa guerra non solo alle mode, ma anche al vizio di auto-etichettarsi o di porre etichette su gruppi di autori in realtà differentissimi tra di loro, non è da sottovalutare, soprattutto per un motivo, quello della presenza nei manuali scolastici e perfino universitari, delle distinzioni in correnti, distinzioni che in molti casi hanno fatto il loro tempo.

Alla luce delle distanze prospettiche causate dal passaggio del tempo, noi vediamo che sotto l’egida di un presunto romantico stazionano scrittori come Hölderlin o Manzoni, e sotto quella di un ipotetico “decadentismo” autori come Pirandello e Pascoli, Svevo e Wilde. Ma non è solo questo che affascina del discorso di Bloom: intanto la sua convinzione, espressa fin dall’inizio e poi ribadita in L’anatomia dell’influenza (2011), che l’elemento multiculturale, soprattutto quello religioso abbia un’importanza centrale per capire in profondità alcuni retaggi della moderna letteratura. Il che ha creato qualche maldipancia tra chi sostiene la necessità per la letteratura di liberarsi da ciò che rimane delle panie religiose e tra coloro che sono convinti della mera ed esclusiva simbolicità – e strumentalità – dell’elemento religioso, da enucleare quindi da ogni credenza soprannaturale.

In realtà questo suo convincimento ha sfidato il laicismo intemperante e lo ha costretto a uscire allo scoperto, per poi rivelarne i limiti: la letteratura è un regno umano, in cui precipitano elementi provenienti da molteplici componenti, da quella psichica a quella metafisica passando per quella sessuale; la sua padronanza (veniva da una famiglia ebrea russa) delle Scritture, dei vangeli anche apocrifi, della mitologia, lo rendeva capace di individuare la presenza di simbolismi ancora operativi, e in profondità, e di influenze che vengono da archetipi religiosi mai completamente abbandonati dalla memoria umana. Ma questa presenza arcaica di una radice non perfettamente conoscibile attraverso la ricerca razionale non lo ha portato, e questo va a suo merito, a privilegiare scrittori in cui l’elemento religioso fosse preponderante, anzi, il più delle volte Bloom viene colto nell’azione apparentemente contraria, nel demistificare le vulgatae che predicavano la presenza della fede in episodi in cui invece gli autori, secondo lui, volevano significare altro.

Un gioco – venato da una implacabile onestà “deontologica” ma anche da un sottile gusto del paradosso – che sembrerebbe autolesionista e che invece è orientato al riconoscimento della complessità di sistemi di pensiero in cui elementi religiosi convivono con il dubbio e il rinnegamento. L’esempio canonico, per rimanere nel contesto del titolo, è quello di Shakespeare. L’autore di Re Lear è considerato da Bloom il più grande. Sì, avete capito bene. In un’epoca di relativismo, un critico autorevole spariglia le carte e propone un nuovo-antico tempo, quello in cui vengano riconosciuti valori, graduatorie, meriti assoluti.

Un ritorno ad un passato classificatorio all’interno di una realtà in cui non esistono precisi e matematici metri di valutazione? Forse no, se andiamo a vedere le motivazioni di Bloom. Shakespeare è il Canone perché è perfetto, perché rappresenta le modalità per eccellenza di un criterio preciso? Niente di tutto questo. Shakespeare per Bloom è riuscito a rappresentare l’infinita, contraddittoria varietà dell’esistenza tutta. I suoi non sono quasi mai eroi dal carattere netto, univoco, senza macchia e senza paura, ma rappresentano proprio le macchie e le paure dell’umano genere.

Qui sta il genio: nella capacità di dare vita sulla carta alla vita reale, con tutte le sue meschinità, le sue grandezze, le sue contraddizioni. Per Bloom, che ovviamente non nasconde il piacere di un irriverente gioco di ruoli e di cronologie, non è Freud che ha “letto” Shakespeare, ma quest’ultimo ad avere inventato profeticamente tutto ciò che ha teorizzato Freud, e quindi, paradossalmente, ha anticipato i tentativi di spiegare l’inspiegabile, per Bloom, del padre della psicanalisi. Il critico cerca gli abissi dell’animo, non le analisi testuali per raggiungere una comprensione raziocinante del testo: come nel caso di Marlowe, è possibile individuare un movimento che nonostante l’oltraggio, la quasi blasfemia, l’irriverenza, va in senso contrario:

“Marlowe il nichilista contraddittoriamente manifesta una sensibilità religiosa, e La tragica storia del dottor Faust può essere letta in antitesi a se stessa”.

Il centro del Canone, l’incarnazione su questa terra del Canone stesso è dunque per Bloom il bardo di Stratford-upon-Avon, e non Dante: anzi, nonostante l’ammirazione per il genio fiorentino, il critico fa capire a chiare – o quasi – lettere che subito dietro Shakespeare lui vede Ralph Waldo Emerson, il che mostra quanto Bloom fosse attratto dalla complessità-unità, che a suo avviso non era una contraddizione: i geni sono tali perché rappresentano una individualità assoluta e riconoscibile a prima vista, ma nel contempo riescono a esprimere senza moralismo le varie sfaccettature non solo dei singoli personaggi, ma anche del singolo protagonista, precorrendo in questo modo, nel caso di Emerson, anche se Bloom non lo dice, la narrazione dell’indistinto e inafferrabile fluire della vita di Pirandello, e sul versante filosofico, di Bergson.

Letteratura quindi come capacità di creare mondi e impensabili sudditanze a distanza di secoli, quella di Freud per Shakespeare, ad esempio.
Anche Dante, come si diceva prima, è parte integrante di questo canone, perché anche lui è riuscito a creare nuovi mondi di senso aldilà degli steccati imposti dalla religione ufficiale e dal pensiero politico dominante. Per Bloom Dante fa di Beatrice il simbolo di una coscienza ermetica e forse gnostica (il critico era un profondo conoscitore di questo campo) che va oltre l’ortodossia cattolica e che si configura come un vero e proprio mito. Beatrice diviene non un messaggero divino, ma una vera e propria divinità.

Perché Shakespeare e non Dante al centro del modello universale? Perché il fiorentino ha un difetto: in qualche modo precorre l’odiata scuola del risentimento, in quanto “è il più aggressivo e polemico dei grandi scrittori occidentali”, e non raggiunge l’olimpica distanza, superiore addirittura ai valori del proprio tempo, o per lo meno, non sottomessa in profondità a quei valori, di Shakespeare. Ambedue però rappresentano ancora oggi un mistero, “qualcosa che non possiamo decifrare, ancorché se ne avverta la presenza”, scrive Bloom a proposito della figura di Beatrice nella creazione dantesca.

Se dovessimo vergognosamente ridurre a un termine solo ciò che lo studioso intende per centro del Canone Occidentale, forse potremmo usare la parola mistero, nel senso di riuscire a dare voce all’ineffabile: oltre Dante, Emerson e Shakespeare, Chaucer, Cervantes, Montaigne, Molière, Milton, Dickinson, George Eliot, Whitman, Dickens, Wordsworth, Samuel Johnson, Jane Austen, Tolstoj e Ibsen, l’amato-odiato Freud, Proust e Joyce, la Woolf e Proust, e poi Kafka e ancora Neruda, Borges e Pessoa e anche Beckett: solo loro, secondo Bloom, sono stati in grado di raccontare quello che Eliot aveva accennato nel suo Prufrock, di

      comprimere tutto l’universo in una palla
      e di farlo rotolare verso una domanda che opprime,
      di dire: “lo sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti,
      torno per dirvi tutto, vi dirò tutto”.


Harold Bloom, Il Canone Occidentale. I libri e la Scuola delle Età (The Western Canon. The books and school of the ages, 1994), Bompiani, 1996, 482 pagine.