FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 55
maggio/agosto 2020

Cenere

 

GLI UCCELLI ERANO DISEGNI DI CENERE
Mezzanotte del mondo di Jorge Galán

di Federica Silvino



I versi di Mezzanotte del mondo [Medianoche del mundo, 2016], contenuti nella raccolta di Jorge Galán (San Salvador, 1973) pubblicata in Italia nel 2019 dalla casa editrice Fili d’Aquilone nella traduzione di Alessio Brandolini, sono amari, dai toni dolenti, colmi di crudo sgomento. La silloge, che ha ricevuto il XVI Premio Casa de América de Poesía Americana, riprende tematiche già presenti in libri come El día interminable (2004), Breve historia del alba (2007) e El estanque colmado (2010), in cui sconforto, desolazione e “una paura infantile che è quasi rumore” sembrano caratterizzare il viaggio di una figura spaesata e rassegnata, costretta a muoversi nell’oscurità della notte, in un mondo che in realtà “è un luogo deserto, privo di ogni salvezza, / ignaro di ogni destino e di ogni gioia”. Come evidenzia Brandolini nella prefazione a questa elaborata raccolta il dramma vissuto dal poeta si intreccia con quello vissuto dal popolo salvadoregno e da un’intera società: “Così violento (nel suo verde tanto esuberante) El Salvador diventa il paese di tutti e il suo buio quello del nostro pianeta”. Anche Magdalena, la protagonista del romanzo La stanza in fondo alla casa [La habitación al fondo de la casa], pubblicato dall’autore nel 2013 e poi edito da Mondadori nel 2016, cerca una direzione da seguire, mantenendosi in equilibrio tra le luci e le ombre, tra il bene e il male, tra la razionalità del reale e il senso di ineluttabilità.

Con le sue raccolte Jorge Galán ha ottenuto il Premio Antonio Machado nel 2009 e il Premio Sabines nel 2012 e, con i suoi romanzi, ha ricevuto il Premio Nacional de Novela de El Salvador (per El sueño de Mariana) e il prestigioso Premio della Real Academia Española per Noviembre (2015). Quest’ultimo libro ha rappresentato una svolta importante nella vita del poeta e narratore salvadoregno, che infatti è stato costretto ad abbandonare il suo Paese per aver pubblicato un vero e proprio lavoro d’inchiesta il cui unico scopo era quello di fare luce sulla notte del 16 novembre del 1989 quando, durante la Guerra Civile che ha devastato El Salvador dal 1979 al 1992, dei militari uccisero due donne e sei frati gesuiti dell’Universidad Centroamericana José Simeón Cañas (UCA).

Il ricordo di queste terribili vicende è presente anche nella raccolta Mezzanotte del mondo, prima silloge di questo autore pubblicata in Italia, dalla quale provengono le cinque poesie qui proposte e che si divide in due sezioni: L’interminabile notte di novembre (“Parlai dei corpi/ sotto l’interminabile notte di novembre,/ parlai di sei uomini stesi sulla gramigna,/ parlai delle donne, le due, buttate sul pavimento”) e Geografia.

Il protagonista di questi versi prova a vivere appartato, ad abituarsi alla distanza da tutto ciò che gli era familiare (“Mi sono allontanato da tutto ciò che sentivo mio”) e al viaggio insensato attraverso un universo nemico, ma viene ugualmente perseguitato dai volti e dalle voci di bambini, donne, uomini, anziani (“come un grido che si moltiplica in echi sotterranei/ e tormentano e sfasciano tutto ciò che toccano”) che hanno conosciuto la smisurata violenza degli anni più bui del conflitto civile, vivendo come “ombre nella polvere del transitorio” e che poi hanno tragicamente perso la vita in un clima di totale distacco nei confronti delle sofferenze umane.

Queste poesie offrono al lettore una lunga serie di immagini ed esempi dell’infelicità di un uomo che in realtà rappresenta ognuno di noi (“è l’ultima ora del giorno,/ e io sono tutti gli esseri della terra”), la negatività della condizione naturale (“Desolazione è il mio nome e il nome / di ciò che mi circonda”), la nostra continua tensione verso una difficile se non impossibile felicità, la sua e la nostra marginalità nel mondo (“mi hanno chiesto di vivere tra i rifiuti dell’umanità / e di stare tranquillo e di aspettare”). Versi che rappresentano anche una condanna degli inganni ideologici, del dolore che provoca e comporta qualsiasi conflitto (“non è la guerra, ma è la guerra”), del dominio della sofferenza e dell’impotenza che riduce al nulla il senso del vivere (“resto quieto in questo nulla”).

Quella di Jorge Galán è una potente poesia del silenzio che riesce comunque ad esprimere l’inquietudine che caratterizza il restare “in attesa ma senza aver nulla da attendere”, la sospensione tra vita e morte che costituisce la nostra intera esistenza, l’assenza totale di slancio vitale: “Il mondo è freddo e non ho figli né moglie né parenti. / Sopravvivo possedendo il nulla. / La mia casa è il desiderio”.

Il poeta non intende più recuperare i valori di un passato avvolto intorno a un nucleo di dolore e di rimpianto (“non parlo più dell’ingenuo passato / col suo finale di cielo chiuso da milioni di tavole di legno”), anzi sembra quasi voler comunicare l’inconsistenza di ogni ricordo e, al contempo, il peso di un futuro incerto (“Tremore sono i giorni del passato; / forme della penombra, le albe che verranno”). Nei dialoghi del poeta salvadoregno con i suoi fantasmi interiori, con le sue ombre di ragazzo trentenne e poi di adolescente e di bambino sono tanti i momenti in cui si fa riferimento all’incombenza della morte e alle atrocità commesse contro gli innocenti (“Ascolto la morte cantare alle mie spalle”), a coloro che sono scomparsi per una causa che risulta difficile da comprendere, al bisogno di recuperarne l’immagine e di tendere il braccio dal vuoto della vita presente verso ciò che è ormai irrimediabilmente perduto: “senza possibilità di tornare ma desiderando farlo / fino a quelle mie strade dove solo la morte / ha una risposta”.

La relativa semplicità dei versi è alla base della fortissima intensità di questa raccolta che si adatta prima ai ritmi della giovinezza e delle illimitate ma vane speranze, poi a quelli della solitudine notturna e dell’inquietudine che l’accompagna, della memoria e delle grida lontane, della protesta contro l’indifferenza, gli inganni e contro la disperazione che ha attraversato un intero Paese. Dietro le parole del poeta si annidano malesseri e ricordi laceranti, ma anche i numerosi tentativi di dar voce a desideri inappagati che resistono alla spietatezza della nostra esistenza, alla distruzione e alla morte, al crudo disinganno. La passività del presente, la nostalgia di una vita semplice e di una realtà persa per sempre, i tentativi di recuperare i vincoli con il passato non fanno che acuire l’incomunicabilità e lo smarrimento (“Se sto in mezzo alla moltitudine scompaio. / Ma so che se affondo un centimetro / il pianeta affonda con me”), la solitudine di un uomo circondato solo da rovine, la distanza e la perdita della terra natia e degli affetti. Questi versi di Jorge Galán, al tempo stesso cinici e delicati, si strutturano su un eterno confronto tra livelli differenti come quello della partecipazione affettiva e della rassegnazione, del “vero” e dell’indeterminato, dell’ “estasi dell’ombra” e dell’ ”imminenza del giorno” (“Di luce è il mattino e di malata luce cinica la notte, / e di luce quest’istante, e la vita stessa, / ma tutto è ombroso”). L’unica soluzione a tutto questo vagare struggendosi nel dolore senza mai riuscire ad attribuire un significato al passato e ai ricordi sembra essere proprio il dimenticare, consegnando all’oblio ciò che è destinato ad essere serbato per sempre: “Soltanto l’oblio è simile alla salvezza”.




POESIE DI JORGE GALÁN
da Mezzanotte del mondo
Edizioni Fili d’Aquilone, 2019
a cura di Alessio Brandolini
(Finalista Premio Camaiore Internazionale 2020)


ABITANTE

Desolazione è il mio nome e il nome
di ciò che mi circonda.
All’inizio della strada, case abbandonate,
porte strappate di colpo dal vento del nord,
cortili dove per anni solo la neve ha passeggiato.
Sulle tegole rotte orme di brina.
Lampioni guasti, terra spaccata, tazze, ciotole,
cornicioni, colonne, tutto spezzato.
E quell’odore che non è di terra, non è il declino
né la morte, bensì quell’alito che proviene
de quello che è stato maledetto.
Argento ricoperto di polvere
come un bel volto bendato.
Sulle pareti figure di animali.
Buchi di proiettile dove il serpente
è penetrato nell’oscurità.
Un’eco, voci, sussurri quasi oceanici
al mattino, una macchia nell’aria, il peso
di ciò che un tempo era leggero e volatile
ma che poi ha acquisito corporeità.
Desolazione è il nome di ciò che mi circonda.
Desolazione è il mio nome sacro.
La pioggia non abbandona i campi morti.
Sono venuto fin qui per sapere
che nemmeno il vento abbandona
il marmo nero delle tombe, le labbra nere
di coloro che scomparvero nelle intemperie, trascinati
fino alle città limitrofe e al mare
come un’eco che si allunga per un’assurda durata.
Cammino sulla terra morta, tra mute di pitone
e vermi rossi, sul fango ancora umido,
senza avanzare, né distinguere l’oriente dal ponente,
fischiettando come se nulla fosse importante,
riempiendomi la bocca con fame antica e antiche parole,
senza allungare la mano ma toccando ogni cosa,
nominando ancora quello che un tempo aveva un nome.
Desolazione è tutto quello che cresce e mi circonda.
desolazione coloro con cui nuoto in uno stagno
del quale non riesco a scorgere il fondo.
Quello che abita nell’oscurità delle acque
sono i resti della cena di un animale gigantesco.
Potrei gridare e non fuggirebbe il topo bianco né il gufo
dagli artigli di brina.
Potrei colpire un tamburo e non si accenderebbe una stufa
né si ascolterebbe un sospiro di sollievo.
Potrei fare un discorso e non suonerebbe una campana.
La solitudine non ha fondamento, sto con me stesso,
è l’ultima ora del giorno,
e io sono tutti gli esseri della terra.


CANZONE DI NATALE

Alberi di luce lungo gli immacolati viali,
ma tutto è ombroso.

Draghi dorati nelle vetrine,
bambole dai capelli così lunghi che fuggono in corridoio.

Un suono di zoccoli di cavallo
aprono crepe nell’aria che è un sedimento di pioggia.
E neve accumulata sul pavimento come giornali vecchi.
E luce. tutto è luce. Ma tutto è ombroso.

Un uomo che suona una tromba
mi fa pensare a Gerico, a muri di pietra bianca,
all’improvvisa demolizione, a esseri minuti
che crescono attraverso le loro grida.

Questo è l’anno della mia morte.
L’anno dove mi fermo e torno all’inizio.

Alberi di luce sull’orlo del mio naso.
Non c’è aroma di nulla. Pini di plastica. Sedie di metallo
e di pietra sugli enormi immacolati viali.

Di luce è il mattino e di malata luce cinica la notte,
e di luce quest’istante, e la vita stessa,
ma tutto è ombroso.


UMANO

Ogni giorno sento che hanno ucciso qualcuno su un autobus,
un altro in un negozio, un altro per strada
davanti a dodici bambini. Nella sterpaglia
fioriscono le teste tagliate.
Non è la guerra, ma è la guerra.

E tutto il giorno e i giorni seguenti il mio pensiero si rabbuia,
torno a camminare senza voltarmi bisbigliando frasi adulte
con modi infantili,
cercando un padre nell’oscurità,
ricordando il suono dello sperone che s’interra nella polvere,
un’eco, l’eco della fuga, che sempre fugge
persino quando passeggia, guardando sempre all’indietro…

La croce emerge e l’osso si spezza.
I cani abbaiano a treni che non esistono.
Il topo corre tra i piedi delle belle bambine.

Ogni giorno e i giorni successivi vivo in una città
che si alza tra una moltitudine di colonne di fumo,
la mia città nella sua guerra interminabile,
le mie quattro colonne dell’alba, l’uragano
sulla cui punta invertita sono in equilibrio, la coperta
piena di buchi di pallottole che metto ad asciugare all’orizzonte.
il muro di centinaia di migliaia di metri che voglio abbattere
con tutto quello che taccio e maledico, col mio discorso
scagliato all’acqua nefasta dove spuntano i volti
del ragazzo che sono stato a ventinove anni e a dodici
e a quindici anni, Bocca chiusa. Insetti
sulla bocca. Un’arancia ricoperta da terribili formiche.

Di giorno in giorno e ogni dì avanzo
sapendo che in questa inevitabile immensità
stiamo insieme e racchiusi l’uno nell’altro,
in attesa ma senza aver nulla da attendere,
osservando nella terra morta
la nascita del temporale di polvere,
senza possibilità di tornare ma desiderando farlo
fino a quelle mie strade dove solo la morte
ha una risposta.


L’UOMO NELLA TEMPESTA DELLA SERA

Mi hanno chiesto mia figlia.
Mi hanno chiesto dei mobili nuovi.
Mi hanno chiesto di abbassare la testa e tacere
e benedire il pane amaro
e il vino nel bicchiere sporco di muschio.
Mi hanno chiesto mia figlia di dodici anni.
Mi hanno chiesto una moneta di argento una volta e cento volte.
Mi hanno chiesto di consegnare il pane,
non tagliarlo ma di consegnarlo intero,
pane amaro, una pagnotta bianca,
soffice come la pancia del maialino.
Mi hanno chiesto di non lasciare la mia casa a mezzanotte.
Mi hanno chiesto mia figlia di dodici anni e quella di undici.
Voci che arrivano all’alba e di buon mattino.
Volti occultati tra le cicatrici.
Mi hanno avvertito che ho tre giorni, mi hanno avvertito
di un’oscurità più profonda.
La madre delle mie bambine arretra alla stanza chiusa.
Evita di guardarmi. Sceglie tra una morte e un’altra morte.
Non vuole obbligarmi a calarmi nella polvere.
Non vuole benedire l’oscurità
né maledire il rumore dell’alba.
Sa che il rovescio del silenzio è l’esplosione.
Non vuole condannarmi benché sappia che sono già condannato.
Mi perdona prima che arrivi la colpa.
Mi hanno chiesto mia figlia.
Mi hanno chiesto di serrare all’alba
le sette porte della mia casa
e di riaprirle all’arrivo della sera
e in quel momento recitare una preghiera per allontanare i morti.
Mi hanno chiesto di calpestare i fiori dei tetti
di ripetere una e due e tre volte il mio nome,
di ricordare e dimenticare ogni cosa,
di mozzarmi una mano, d’inginocchiarmi
e implorare perdono per la luna sull’oscurità verticale del pino
e per la dolcezza del lillà
e lo stagno dove il topo mostra la testa
e per il piumaggio del gufo e il colore della farfalla.
Mi hanno chiesto mia figlia di undici e mia figlia di dodici.
E il mondo è un luogo deserto, privo di ogni salvazione,
ignorante di ogni destino e di ogni gioia.
La mia vita retrocede fino a raggiungere l’origine della tempesta.
La mia mano cresce sul manico dell’ascia.
Si radica, si moltiplica come le tombe nella terra
sotto piogge che cadono tutto l’anno e anno dopo anno.
Mi hanno chiesto di vivere tra i rifiuti dell’umanità
e di stare tranquillo e di aspettare
e salutare coloro che osservano quando mi allontano.
Mi hanno chiesto di pisciare sul mio volto e sorridere.
Mi hanno assicurato che appartengo a loro, io e i miei,
e che solo la morte è la padrona dell’alba.
Che solo la morte è la madre amorosa.
Che solo la morte è la madre
e il padre che vegliano su di noi mentre dormiamo,
mentre sogniamo il sogno inusitato
di questi terribili giorni.


SEMPRE

Ogni mattina, albe come gabbiani
s’immergevano nell’acqua
e restavano nel fondo
finché la luce si dissolveva come cubetti di zucchero
e si estinguevano la bellezza e l’immensità.
Allora avevo sempre dodici anni
e gennaio era una riga bianca sul quaderno.
La cucina era un rumore di voci,
non sempre umane e tranquille.
Il mezzogiorno, un coltello
che tagliava prima di cadere.
Rosso era il grano. Rossa
la mutazione della foglia.
Buttato sul letto, ogni sera arrivava l’estate.
Nella nebbia calda dei soffitti,
gli uccelli erano disegni di cenere.
Gli uomini dimenticavano di camminare. Lamenti
erano le donne che non potevano nutrirsi
e volevano solo dormire o andare al fiume
e distendersi come le iguane sulle pietre.
Buttato sul letto, era terribile
guardare le lastre delle case sotto la neve,
paesi interi macchiati di bianco,
le volpi che annusano nella spazzatura
ed il gracchio dei corvi
come una traccia sui camini.
Il fumo della tazza di tè
era il fantasma di un bambino
che si alzava per baciarmi.
E tuttavia, il peggior momento era al crepuscolo,
l’ora inevitabile
quando tutto ciò che non funzionava
prendeva a girare
senza riuscire a fermarsi.




Jorge Galán
è nato a San Salvador (El Salvador) nel 1973. Narratore e poeta.
Ha pubblicato i libri di poesia: El día interminable (2004, El Salvador), Breve historia del alba (2007, Spagna, Premio Adonáis), La habitación (2007, El Salvador), El estanque colmado (2010, Spagna), La ciudad (2011, Spagna), El círculo (2014, Spagna), Medianoche del mundo (2016, Spagna) con il quale ha vinto, come inedito, il XVI Premio Casa de América de Poesía Americana.
Per la poesia in Spagna ha ricevuto il Premio Antonio Machado (2009) e in Messico il Premio Sabines (2012).
Per il romanzo Noviembre (Spagna, 2015; Inghilterra, 2019) ha ricevuto il Premio della Real Academia Española.
Il romanzo La habitación al fondo de la Casa (Spagna, 2013) è stato pubblicato anche in Italia da Mondadori con il titolo La stanza in fondo alla casa (2016, con introduzione di Almudena Grandes). Ha pubblicato anche libri per ragazzi.

federicasilvino@yahoo.it