FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 52
maggio/agosto 2019

Sorelle & Fratelli

 

IL PITTORE E LO SPIRITO DEL TEMPO
Riflessioni sulla mostra romana di Ennio Calabria

di Marco Testi



La conclusione della mostra romana di Ennio Calabria ha offerto lo spunto per una profonda riflessione sullo stato di salute dell’arte italiana, e non solo italiana. Appare più evidente, nel percorrere le sale del Museo di Palazzo Cipolla, l’importanza di un percorso che si sviluppa dagli anni Cinquanta ad oggi e che ha incontrato altri sentieri: quello politico, ad esempio, perché l’artista assume in sé anche la dimensione della necessità dell’incontro tra impegno civile, ideologia e cultura. Su questo incontro ci dobbiamo soffermare un attimo, perché rappresenta un momento distintivo e insieme una testimonianza di come esso possa rimanere nel tempo una volta mutati gli scenari e tramontate alcune sicurezze temporali. Ed è per questo che la definizione di “traghettatore”, che lui stesso si è data, ma che è ripresa giustamente dal curatore della mostra Gabriele Simongini nel saggio d’apertura del catalogo{1} è la più adatta a definire la sua operazione artistica nel suo dispiegarsi nel tempo. Ma seguiamo per un attimo le parole di Simongini: Calabria è un traghettatore “fra un passato finito in gran parte in macerie ma da salvaguardare nella sua parte di autenticità vitale e la nascita, difficile e ancora oscura, del tempo a venire che ci vede pienamente coinvolti negli attuali e sempre più accelerati mutamenti antropologici”{2}. Se le parole si avvicinano alla cosa, queste ne sono un esempio calzante: l’artista si rivela, anche attraverso questa mostra, classico, nel senso di non appartenenza a mode e ismi di breve respiro, anche se talvolta di illusorio fulgore. La sua opera, a qualsiasi periodo appartenga, è leggibile oggi senza la mediazione dei linguaggi parziali – e bisognosi di esplicitazioni argomentative – del tempo.



La giuria - 1959
olio su tela, cm. 133x180


Un’annunciazione del nostro tempo - 1963
olio su tela, cm. 180x140


Già in “La giuria”, olio su tela del 1958, la presenza di politici e personaggi che oggi chiameremmo mediatici è stemperata, quasi assorbita, in un cromatismo in cui prevalgono i grigi e i chiari. Come davanti ad un televisore, guarda caso anni Cinquanta. Il parlare con, l’accendere una sigaretta, il piano del tavolo che attraversa orizzontalmente la tela, sono parte di uno sguardo che nello stesso tempo è esterno alla scena e nel contempo interiorizzato in quell’incontro, che sta già scorrendo sull’altro piano, quello del tempo, tra dentro e fuori ineludibile dalla teorizzazione kantiana in poi. Non vi è nulla di celebrativo, nulla di fotograficamente mimetico (e sul rapporto tra fotografia e arte pittorica dovremmo un giorno tornare più a fondo), ma nel contempo nulla di disperatamente iper-espressionistico. E non è una questione di appartenenza a correnti né di teorizzazioni di ritorno alla figura, come pure è accaduto in quei tempi, ma di capacità di far vivere nell’arte quell’incontro tra fondamenti a priori della psiche e accadimento storico. Non vi è nessuna aura celebrativa, né una finalità di mìmesis pura, né una torsione ideologica che metta in primo piano un particolare semantico preciso: rimane testimonianza pregna dello spirito del tempo, in grado tuttavia di essere traghettata in altri tempi, perché riesce a contenere in sé l’universalità del linguaggio artistico. Anche in un’opera come “Un’Annunciazione del nostro tempo”, del 1963, la folla già in qualche modo inquadrata nella sua futura medialità elettronica, il volto noto della storia della Chiesa, si fondono in una visionarietà “razionale”, che mette assieme l’ardua funzione di espressione della visione profonda e di riconoscimento nel codice culturale ed espressivo che possa essere decodificato da tutti.



Autoritratto (Pittore volante) - 1961
olio su tela, cm. 100x130


È questo un elemento importante dell’opera di Calabria: la capacità di dire artisticamente l’antico concetto di democrazia in occidente. Non è un paradosso, se ci si pensa bene: la fede politica dell’artista era coerente con lo sforzo di narrare a tutti, il che gli faceva superare le tentazioni astratte e informali nel tentativo di rendere coerente appartenenza politica e attività artistica. Lo sguardo di Calabria diviene anche quello dell’operaio e del contadino, in quanto la deformazione delle forme, quando c’è, è funzionale al giudizio interiore e politico, nel senso di appartenenza alla polis-comunità. E qui ci torna utile “Autoritratto (pittore volante)” del 1961, che è manifesto non dichiarato della condizione dell’intellettuale di quegli anni: un operaio tiene per i piedi l’artista che altrimenti rischia di volar via nei cieli. Chi scrive ritiene che questo olio su tela sia forse una delle opere più eloquenti della prima metà del Novecento e in grado di testimoniare nel dopo lo spirito di quel tempo.



Questa lunga notte - 2013
acrilico su tela, cm. 220x100


Anche quando Calabria guarda all’apparentemente privato, come nel caso di due acrilici su tela, “Questa luna notte”, 2013, e “Questa lunga notte. La luce dei telefonini”, 2015, è evidente la sua capacità di rivelare ciò che è sotteso all’accadere, pur restando accadere. Se il primo è un manifesto, senza essere programma teoretico, impassibile, del cambiamento antropologico post-Novecento, il secondo – e non a caso chi scrive ha chiesto e ottenuto il permesso all’artista di riprodurlo come immagine di copertina di un suo recente libro{3} – rappresenta una sintesi non solo di quel tratto di Novecento ma anche del rischio complessivo della proiezione affettiva sempre un passo più in là. L’incapacità di appartenere ad una storia reale per gettarsi, per usare un motivo heideggeriano, sempre in un altrove-proiezione che ci ha creato universi paralleli di sogno e desiderio, era stata già da tempo individuata nella cultura occidentale: è avvenuto attraverso la narrazione dei guasti di un’idea di libertà svincolata dalla realtà e dal rapporto comunitario nei personaggi di Anna Karenina o Emma Bovary o la tensione verso l’altro, che in Tolstoj e Rebora significò la fuga dal vano e dal non essenziale, in Rimbaud l’abbandono della vacuità della poesia e i conti con la verità fattuale. Rimbaud stesso poneva tra i primi la grande questione dell’addio all’occidente che Gauguin realizzava in pittura. Calabria, invece, sintetizza il sospetto del vuoto d’occidente senza aggiungere nulla che non sia già dentro l’opera: il vagheggiamento di un altro abbraccio mentre l’amato e l’amata sono vicinissimi, quasi si toccano, solo che fingono altri abbracci dalla parte opposta, il che è a mio avviso una delle più geniali sintesi artistiche di un’epoca.



Un volto e il tempo. Pantani: nell’accadere del ricordo - 2005
acrilico su tela, cm. 210x135


Se Calabria è stato tenuto con i piedi dentro la realtà dall’operaio che rappresentava l’altro, il ritratto di Pantani è una delle icone temporali di questo ritorno alle cose. Il suo arrivo al traguardo è già immagine della fine, perché la fatica del volto è insieme imago mortis, con quel corpo in croce, rivestito di una patina di nudità che ne fa un contemporaneo sudario destinato a testimoniare la persistenza della memoria e quindi ulteriori incontri anche se non nel qui e nell’ora.



Giovanni Paolo II. Un papa polacco - 2004
acrilico su tela, cm. 58x62


I ritratti di Giovanni Paolo II sono la testimonianza della contraddizione apparente dell’uomo: la gloria, la grandezza, la sofferenza, il tramonto e la corruzione della carne. Un artista un tempo impegnato in una battaglia ideologica che ha visto su fronti diversi la Chiesa cattolica e la concezione del mondo marxista, più o meno ortodossa, riesce meglio di altri a dare il senso di quella contraddizione. Non un giudizio, o l’affermazione del sì ma che suonerebbe come benevola e retorica concessione temporanea all’antico avversario, sebbene l’affermazione di una sintesi nuova e in continuo cambiamento che ci ripropone la vexata quaestio del rapporto tra weltanschauung, arte ed etica. Una questione che nel rinascimento italiano divenne fondante, i cinquecento anni dalla scomparsa di Leonardo stanno lì a dimostrarcelo: in altre parole è l’evidenza del mistero dei rapporti tra sacro e ricerca individuale nella sua radicalità, e che in Calabria oggi ritrova un esempio paradigmatico di incontro non dettato da convenienze, ma da una convinta assunzione del ruolo intrinseco che il sacro, comunque lo si voglia guardare, ha nella vita umana. Le Madonne non solo leonardesche hanno alle spalle autori talvolta non in linea con l’ortodossia o in rapporti tutt’altro che idilliaci con le autorità ecclesiastiche, eppure quelle icone divengono non solo ideali e appropriati soggetti di devozione, ma specchio creativo di quell’epoca e la traghettano avanti verso altre sintesi. Come anche questa mostra ci ha aiutato a capire.



{1}Ennio Calabria, Verso il tempo dell’essere. Opere 1958-2018, Silvana Editoriale, 2018, pp. 251, 28 euro. Catalogo della mostra omonima tenutasi a Palazzo Cipolla, Roma, dal novembre 2018 al gennaio 2019.

{2}P. 14.

{3}Marco Testi, Sentieri nascosti, Edizioni Fili d’Aquilone, 2019, saggio introduttivo di Franco Ferrarotti, in copertina “Questa lunga notte” di Ennio Calabria.


testi.marco@alice.it