FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 51
gennaio/aprile 2019

Ostacoli

 

NESSUNO

di Matteo Moscarda



«Non ricordo esattamente quando è successo» disse Manfredi, «ma c’è stato un momento in cui ho cominciato a mettere tutto in discussione. Posso azzardare, e far coincidere quel momento con la lettura di Uno, nessuno e centomila. La prima di dieci. È l’unico libro che ho letto più di una volta, e l’ho letto almeno dieci volte. Ho cominciato intorno ai quattordici anni, per cui immagino che tutto sia cominciato allora. Mi ero innamorato delle riflessioni di Pirandello, del suo modo di ragionare. La cosa del naso storto, per esempio, di apparire del tutto diversi da come ci si immagina. O quell’altra per la quale non dovremmo mai vergognarci di presentare qualcuno a qualcun altro, perché comunque l’uno e l’altro si vedranno in modi diversi da quelli nei quali li vediamo noi. Oppure, la più bella, per me, era quella del parallelo tra il pianista e l’anima, in cui Pirandello si chiedeva: “Dove va a finire l’anima quando arriva la demenza senile? Scompare o non è più in grado di esprimersi? Non è forse come mettere un pianista bravissimo davanti uno strumento scordato? Non escludiamo, così, qualsiasi possibilità che il pianista possa esprimere il suo genio, e dimostrarlo?» Che poi no, questa del pianista non era in Uno, nessuno e centomila, era nel Fu Mattia Pascal, ma alla fine cambia poco. In tutti i romanzi e in tutti i racconti Pirandello spingeva sempre il lettore a interrogarsi sulle cose più ovvie, a mettere tutto in discussione. Ti proponeva sempre questa specie di relativismo infinito, questo gioco di specchi delle percezioni. E a me piacevano tantissimo, le sue riflessioni, le trovavo vertiginose. E allora cercavo sempre di crearne di mie, simili alle sue ma soltanto mie. Ai tempi io ero vulcanico, scrivevo poesie, suonavo la chitarra, disegnavo bene, secondo molti, e ballavo bene, e facevo ridere, ed ero molto creativo, in generale. Per cui cominciai anch’io, inventai delle riflessioni che, secondo me, erano in linea con quelle di Pirandello. Una di queste era quella dei gusti. Dicevo a tutti che i gusti alimentari non esistevano, che erano soltanto una costruzione sociale, o esperienziale. Spiegavo che non c’era un motivo scientifico che giustificasse una preferenza alimentare, il che d’altronde è vero, ogni antipatia o simpatia alimentare è legata a un trauma o a un bel ricordo, lo diceva già Freud con la storia del gattino, ma è una cosa provata scientificamente, le preferenze sensoriali sono soltanto una fissazione, o un pregiudizio culturale. E allo stesso modo qualsiasi altra preferenza è del tutto immotivata, e molto raramente dipende da un giudizio tecnico, attendibile, o da una valutazione empirica. C’è chi apprezza il rock progressive perché è tecnicamente superiore al pop, ma ognuno ha i suoi parametri, e chi preferisce il pop lo fa proprio perché il pop è tecnicamente inferiore al rock progressive. Ma la domanda è: perché bisogna scegliere tra una cosa tecnicamente superiore e un’altra tecnicamente inferiore? Perché qualcuno trova ridicolo ascoltare un cantante stonato come Bob Dylan e altri trovano melensa una voce perfetta come quella di Sinatra? E perché gli uni e gli altri pensano che la propria preferenza sia in fondo “corretta”? Perché chi ama l’estate trova strambo chi ama l’inverno e chi ama l’inverno considera frivolo chi odia l’estate? E in tutti i punti intermedi tra gli estremi, non è forse vero che per ogni singola preferenza in qualsiasi ambito ci sarà sempre qualcuno che la troverà incomprensibile? Bene, il motivo è che queste preferenze sono del tutto arbitrarie: non esiste un’unità di misura del gusto, perché il gusto è un prodotto sociale, come dice Bourdieu, e in quanto tale cambia di cultura in cultura, di paese in paese, di persona in persona, e pertanto non è mai in sé.

Ecco, questo era il tipo di discorso che facevo ai tempi. Il problema è che col passare degli anni ho ripetuto così spesso certi concetti che ho finito per crederci. Se si interpreta una maschera troppo a lungo è difficile scollarsela di dosso, e così è successo a me. Alla fine sono diventato un iper-relativista, non riuscivo più a sbilanciarmi, a esprimere un parere, un’opinione, perché ero eccessivamente consapevole del fatto che si trattasse soltanto di un’opinione. Già intorno ai venticinque anni non ero più in grado di dire nulla davanti a più di due persone: quando si era in tanti a parlare, durante una cena, o una serata tra amici, i dialoghi collettivi mi apparivano un caos inutile, una presunta comunicazione che in realtà era soltanto una sommatoria di espressioni, quel “rumore” che, al contrario, rende più difficile la vera comunicazione. E allora stavo zitto, parlavo soltanto se mi interpellavano, e facevo attenzione a non esprimere mai opinioni, ma a mettere sul piatto soltanto fatti scientifici. Nel frattempo disegnavo, scrivevo, suonavo e ballavo sempre meno, perché mi era diventato chiaro che il fatto che qualcuno trovasse bello ciò che facevo non significava nulla, e che probabilmente ciò che facevo era bello soltanto per me e per chi mi voleva bene. E in effetti così era, le mie poesie, le mie canzoni, la mia musica, i miei quadri, tutto ciò che ho fatto è sempre stato orrendo, e più passavano gli anni più mi rendevo conto di aver sprecato ore a scrivere, disegnare e suonare cose orrende e inutili, costantemente spronato dai miei amici, che, incapaci di esprimere un parere oggettivo, si complimentavano con me soltanto perché mi volevano bene, e non perché ero bravo a fare qualcosa. E il risultato fu che cominciai a odiarli tutti, quelle teste di cazzo che non capivano un cazzo di poesia, musica e pittura, e che per anni mi avevano istigato, incentivato, supportato a portare avanti quella mia produzione artistica vomitevole, vergognosa, ridicola, indegna e mortificante persino per me stesso. Li odiai, all’improvviso li odiai tutti, pensai di essere circondato da dei deficienti, e già intorno ai trent’anni smisi di frequentare chiunque, avevo ripreso a scrivere, suonare e dipingere, ma senza far vedere a nessuno quello che facevo, facendolo unicamente per me stesso, l’unica persona la cui opinione poteva importarmi, in qualche modo. Ma poi mi stufai, era puro onanismo, e allora bruciai tutto, cancellai tutto, decine di dischi registrati in casa, da solo, decine di quadri sempre e comunque orrendi, migliaia di racconti e decine di romanzi inutili, impubblicabili, li cancellai, cancellai e bruciai tutto, non ho lasciato traccia, non c’è più niente intorno a me che dimostri chi sono stato (per fortuna) e anche adesso, anche adesso che non sono più niente e nessuno, che non vedo più nessuno né ho alcuna voglia di vedere nessuno, anche adesso che parlo con te unicamente perché nemmeno tu esisti, nemmeno tu sei qualcuno, e anche i tuoi gusti e le tue preferenze sono una mera invenzione, una fissazione, un capriccio sociale per autodefinirsi, un tentativo patetico e disperato di connotarsi in qualche modo, di rendersi un personaggio in qualche modo interessante, o peggio, di cercare l’amore della tua vita in base alle vostre affinità in termini di gusti, preferenze musicali o abitudini, anche adesso che io e te stiamo parlando, due nessuno messi a confronto, mi chiedo: ma due nessuno come noi, ma di che cosa potranno mai parlare?»


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