FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 49
maggio/agosto 2018

Consenso & Dissenso

 

LA SCIENZA DEGLI ADDII
Sulla poesia di Adalber Salas Hernández

di Alessio Brandolini



Pubblicato recentemente in Spagna dall’eccellente casa editrice valenziana Pre-Textos, La scienza degli addii [Las ciencia de las despedidas, 2018] è l’ultimo libro di poesia del venezuelano Adalber Salas Hernández, nato a Caracas nel 1987 ma che da alcuni anni risiede a New York. Un precedente suo lavoro è Salvacondotto [Salvoconducto, 2015] e molte sono le simmetrie con il nuovo lavoro: pubblicato dallo stesso editore, anche questo dedicato alla figlia Malena e dove l’unica epigrafe di apertura proviene sempre dalla Divina Commedia (ma questa volta dal Purgatorio non dall’Inferno).

In effetti l’epigrafe di Dante segna un passaggio a un mondo meno chiuso e fosco di quello precedente dove gli uccelli non entravano nella nebbia per paura di essere cancellati. In Salvacondotto c’è un dialogo con la Divina Commedia: qui appare l’inferno popolato di morti, di sofferenza come è in realtà il Venezuela negli ultimi anni, un paese che si sta autodistruggendo e dal quale, chi vi è nato, non può fuggire, anche se vive altrove, anche se in possesso di un salvacondotto.

Nel nuovo libro resta la presenza del proprio martoriato Paese e di Caracas, che qui appare più lontana (“la distanza non si misura in metri, ma in scomparse”), una città febbrile che morde la valle. Restano i defunti che raccontano le loro storie (straziante quella del figlio ucciso dal padre), un umorismo caustico, nero (in una poesia i cadaveri riprendono a vivere e si organizzano per andare al potere), una lingua che trascina e deborda, con testi poetici lunghi e sinuosi: rumori, ipocrisie, sangue di cavalli ansiosi di fuggire, campi di sterminio, corpi: come quello del paziente Adalber Salas Hernández o gli “Strange Fruit” in riferimento alla canzone del 1939 di Billie Hoilday, corpo come qualcosa di strano ed estremamente fragile, eppure unico, prezioso.

Una massa di oggetti inutili ma legati a storie di donne, uomini e bambini, una lingua densa e rammendata “di domande difettose”, ipersensibilità, malattia, voci plurime che si distendono e avanzano baldanzose, cariche di energia, talvolta un po’ folli. Voci che si incrociano, si accavallano dando luoghi a sonorità nuove, percussive e aspre d’un jazz sperimentale. Come se le parole volessero scavare nel fango, allargare crepe e ferite, osservare ogni cosa scientificamente.

E poi questi morti che parlano (“Quando uno muore apprende un sacco / di parole nuove”), che raccontano la propria storia infelice, morti portati in tasca perché non si possono abbandonare in casa, cadaveri più vivi dei vivi anche se, come Lazzaro (c’è una poesia su di lui) si portano la morte negli occhi e la mostrano agli altri per renderla più viva, più presente.
Il viaggio non è solo una metafora dell’esistenza (qui Ulisse non torna a Itaca: si è smarrito e gli dèi hanno smesso di osservarlo) ma del dolore che si accumula lungo la strada o anche stando immobili, magari dentro il ventre di una balena che ci sputerà su una costa straniera.

Da una epigrafe di Osip Mandel’štam il titolo di questo libro vulcanico: “Ho studiato la scienza degli addii / nei calvi lamenti della notte”. Osip Mandel’štam, al quale un altro bravo poeta venezuelano (Igor Barreto) ha dedicato il suo ultimo, imperdibile libro: El muro de Mandelshtam (Spagna, 2017).
Accadono strane coincidenze in poesia, oppure è l’attuale e devastante dramma venezuelano a suggerire accostamenti letterari così appropriati seppur lontani nello spazio e nel tempo: per meglio sopravvivere si abbattono muri e si apprende la scienza degli addii.

Nei testi poetici di Salas c’è un forte e costante senso della perdita, anche di ciò che non si è avuto con la presenza costante dei pesci che guizzano via, non si lasciano prendere e che non parlano perché sono sordi. Anche gli organi del corpo sono pesci che nuotano in un’acqua cieca. Scrivere è anche un modo per ripercorre il passato (nel precedente libro si parla dei genitori, degli avi provenienti dalle Canarie, di una nonna che parla il linguaggio delle pietre) e allo stesso tempo creare una nuova dettagliata topografia, una vasta rete di rimandi all’interno della propria opera con i fili conduttori di cui parlavo (la figlia, la Divina Commedia, il Venezuela, i defunti…), dove i ricordi si mescolano all’immaginazione poetica, i vivi ai morti, la musica al rumore assordante della strada, il canto degli uccelli allo sparo che atterra un manifestante.

Le molteplici strade che qui si percorrono sono reali e insieme fantastiche, grottesche, immagini fitte come muri di canne in cui si fatica (ma si apprende) ad avanzare. Stanze che si aprono una dentro l’altra, in una casa enorme che abbraccia il mondo in cui viviamo.
Se in Salvacondotto il futuro appariva come un animale senz’occhi, qui, in La scienza degli addii, c’è la speranza di un nuovo raccolto (o racconto) e in uno degli ultimi testi (una bellissima ninnananna che l’autore dedica alla figlia) si parla di un ritorno non di un addio: “Presto verrò a svegliarti, quando il grano / del futuro che resta sulla tua pelle sarà germogliato”.
Premessa di un paradiso?




POESIE DI ADALBER SALAS HERNÁNDEZ


da SALVACONDOTTO
[Salvoconducto, Editorial Pre-Textos, Spagna, 2015]


XXV

Mi abuela tenía un soplo que le endurecía las venas
y se las volvía quebradizas; cuando caminaba,
en ellas se abrían huecos por los que
se escapaba mi edad. Ningún material
servía para tapar las grietas y detener el derrame.
Entonces ella me hacía buscar un coleto
para limpiar el charco que se había formado en el
piso. A veces, el soplo también le empañaba la voz
y las palabras se le quedaban suspendidas,
ilegibles. Era necesario esperar por un rato, hasta que
finalmente se evaporaba la humedad y uno podía
escuchar qué había dicho.


*

Nonna aveva un soffio che le induriva le vene
e diventavano fragili; quando camminava,
in loro si aprivano vuoti per i quali
fuggiva la mia età. Nessun materiale
poteva coprire gli spacchi e arrestare il versamento.
Allora lei mi faceva cercare uno straccio
per asciugare la pozza formatasi sul
pavimento. Talvolta il soffio le offuscava la voce
e le sue parole restavano sospese,
illeggibili. Era necessario aspettare un attimo, fin quando
finalmente evaporava l’umidità e uno poteva
ascoltare quel che lei aveva detto.


*

Era robusta, pero nunca tan grande
como la recuerdo. Tenía la piel arrugada
y amarga, tenía el cabello seco, las piernas
espesas, la espalda como una caída libre. No
sabría decir cuál era el color de sus ojos. Mi abuela
era una formación geológica, un puño de calcio
endurecido bajo el suelo de un país extranjero,
estaba repleta de pasadizos y pliegues, minas
y grutas, hierro y flebitis, huesos que pasaban la noche
murmurando entre sí. Mineral tallado por una tristeza
que no comprendía ni comprenderé. Por eso siempre
creí que hablaba el lenguaje de las piedras y
me preguntaba con insistencia por qué
no querría enseñármelo.


*

Era robusta, però mai così grande
come nel ricordo. Aveva la pelle rugosa
e amara, aveva il capello secco, le gambe
spesse, la schiena come una caduta libera. Non
saprei dire di che colore fossero i suoi occhi. Nonna
era una formazione geologica, un pugno di calcio
indurito sotto il suolo di un paese straniero,
era piena di stretti passaggi e pieghe, miniere
e grotte, ferro e flebite, ossa che passavano la notte
mormorando tra loro. Minerale intagliato da una tristezza
che non capivo né mai capirò. Per questo ho sempre
creduto che parlasse il linguaggio delle pietre e
mi chiedevo con insistenza perché
non voleva insegnarmelo.


*

Solamente habitaba por completo esa hora del atardecer
en la cual se encienden todas las lámparas, pero no
se ve nada: cuando a la luz le da vergüenza mostrarse. Iba
de un extremo a otro de la casa, arreglando todo a su paso,
precedida por el olor a detergente, como si fuera su cortejo,
murmurando Cara al sol con el tono indefenso y un poco
distante de las canciones para niños, el tono de los que no son
ni víctima ni victimario, de los que ya fueron
perdonados hace tiempo, porque nunca saben lo que
hacen. No reparaba en el peso furtivo de la tierra
que le llenaba la boca. Con esa canción me mandaba
a dormir y yo cerraba los párpados, insomne, tieso,
mientras crujía la esclerosis de la tarde.


*

Possedeva del tutto soltanto quell’ora dell’imbrunire
nella quale ogni lampada viene accesa, ma non
si vede nulla: quando la luce ha timore di mostrarsi. Andava
da un estremo all’altro della casa mettendo tutto in ordine,
preceduta dall’odore di detersivo, come se fosse il suo corteo,
bisbigliando Cara al sol {*} con il tono indifeso e un po’
distante delle canzoni per bambini, il tono di quelli che
non sono né vittima né carnefice, di coloro che già furono
perdonati tempo fa, perché non sanno mai quello
che fanno. Non rifletteva sul peso furtivo della terra
che le riempiva la bocca. Con quella canzone mi ordinava
di dormire e io chiudevo le palpebre, insonne, rigido,
mentre scricchiolava la sclerosi della sera.

{*}Inno della Falange franchista, composto nel 1934.


*

Nunca descubrí si ella también dormía
o si, en cambio, esperaba el amanecer
oyendo la tos lisa de los pájaros, rodeada
de sus muebles, cojines con faralao, figuras
de porcelana, todos tan viejos que ya no
se parecían a sí mismos. Una casa como
un espacio vacío en la memoria. Y en medio,
ella, quizás dormida, quizás no, con un amasijo
de raíces en el pecho, bajo las tetas caídas,
las manos nudosas tanteando en la oscuridad,
buscando el clavo del que cuelga
lo que soñamos cada noche.


*

Non ho mai saputo se anche lei dormisse
o se, invece, aspettasse l’alba
ascoltando la tosse liscia degli uccelli, circondata
dai suoi mobili, cuscini con merletti, figure
di porcellana, tutte così vecchie che ormai non
somigliavano a sé stesse. Una casa come
uno spazio vuoto nella memoria. E in mezzo,
lei, forse addormentata, o forse no, con un impasto
di radici nel petto, sotto il seno cadente,
le mani nodose che tastano nell’oscurità,
in cerca del chiodo dal quale dondola
quello che ogni notte sogniamo.


da LA SCIENZA DEGLI ADDII
[La ciencia de las despedidas, Editorial Pre-Textos, Spagna, 2018)


VI
(HISTORIA NATURAL DEL ESCOMBRO: HUESOS)

Al rato los golpes dejan de doler porque
caen en el mismo lugar, uno y otro, uno
y otro, solamente suenan, pam pam pam
pam, como cuando alguien corta leña en el
bosque, alguien que uno no conoce, alguien
que no le dice su nombre a los árboles antes
de cortarlos. Pam pam pam pam: el puño en
la barriga, hundiéndose con ganas, la correa
contra la espalda, la bofetada a contramano, el
hilo de sangre caminándome sonámbulo
por la frente. A mí y a mis hermanos, casi
todos los días, cada vez que algo le molesta,
cada vez que está de mal humor. A veces saca
el revólver y dispara contra la pared, contra
el techo, para que nos callemos, para que lo
dejemos dormir en paz. Entonces salimos
al porche y jugamos con las herramientas
oxidadas, armamos muñecos con las palas
y los martillos, cazamos ratas con las hoces
porque los conejos son demasiado rápidos
y papá no nos deja probar con su pistola.
Somos ocho, nos arreglamos como podemos,
una vez hasta hicimos un trineo con una
puerta vieja. Papá nos llamó idiotas: aquí
nunca cae nieve. Cuando me aburro voy
al corral que está en el patio trasero y hablo
con los cerdos que tenemos allí. Les cuento
historias, les digo qué quiero ser cuando
crezca, cuando me vaya a vivir a la ciudad.
Papá cree que estoy loco, creo que por eso me
pega más que a mis hermanos. Pam pam pam
pam. Un día se le fue la mano y así terminé
aquí. Me caí al piso pero no lo sentí. Dejé de
respirar pero no me di cuenta sino al rato; a
veces uno pierde costumbres de toda la vida
de las maneras más raras. Tenía los ojos
cerrados y aun así sabía que papá estaba
caminando nervioso a mi alrededor. Poco
después me cargó hasta el patio y me echó
aquí, en el corral. Al rato los cerdos empezaron
a morderme. Quería decirles que pararan, pero
la verdad no me dolía. Y bueno, papá casi
nunca les da de comer. Cuando ya no quedaba
carne, se comieron también los huesos.
Dejaron algunos para que pudiera seguir
haciéndoles compañía, contándoles historias
para que no se aburran en el calor y el lodo.
Cuando uno se muere, aprende un montón
de palabras nuevas. De pronto conoce cuentos
que nunca había escuchado. Son relatos que
vienen de lejos, como el pam pam pam pam
de los golpes sobre la corteza de la piel, de muy
lejos, de lugares donde ni siquiera papá ha
estado, de gente que nadie de por aquí
ha conocido. Uno también aprende a escuchar
mejor cuando está muerto, cuando ya ni
siquiera tiene orejas. Así fue como oí cuando
papá salió en las noticias de la tele: efectivos
del departamento de policía de Kansas
City acudieron a finales del mes de noviembre
al domicilio de Michael A. Jones, de 44 años de
edad; la policía había recibido quejas
por parte de los vecinos: disparos sonaban a menudo
provenientes de la casa de Jones; al parecer, éste
golpeaba a su esposa y a sus hijos, uno de los
cuales sigue desaparecido. Al poco tiempo
llegaron varios hombres uniformados y
registraron la casa de arriba a abajo. Tardaron
en revisar el corral. No me gustó que lo hicieran,
molestaron a mis cerdos, que no tenían la culpa
de nada: chillaron cuando desenterraron mis huesos.
¿Quién les iba a contar historias ahora? ¿Quién les
iba a hablar de las cosas que nunca verían? No
se preocupen, les dije, mientras me metían en unas
bolsitas plásticas, sean pacientes, yo vuelvo pronto.


VI
(STORIA NATURALE DEI DETRITI: OSSA)

Dopo un po’ i colpi smettono di far male
perché cadono sullo stesso punto, uno e un altro, uno
e un altro, suonano solamente, pam pam pam
pam, come quando taluno spacca tronchi nel
bosco, qualcuno che non si conosce, qualcuno
che non dice il suo nome agli alberi prima
di abbatterli. Pam pam pam pam: il pugno nella
pancia affonda con gusto, la cintura
sulla schiena, il colpo di manrovescio, il
filo di sangue che sonnambulo mi attraversa
la fronte. A me e ai miei fratelli, quasi
tutti i giorni, ogni volta che qualcosa lo disturba,
ogni volta che è di cattivo umore. A volte tira fuori
la rivoltella e spara contro la parete, contro
il soffitto, per farci stare zitti, affinché lui
possa dormire in pace. Allora usciamo
nel portico e giochiamo con gli attrezzi
ossidati, armiamo fantocci con i badili
e i martelli, cacciamo topi con le falci
perché i conigli sono troppo svelti
e papà non ci fa usare la sua pistola.
Siamo otto, ci arrangiamo come possiamo,
una volta costruimmo persino una slitta con una
vecchia porta. Papà ci chiamò idioti: qui
non nevica mai. Quando mi annoio vado
al recinto collocato nel cortile posteriore e parlo
coi maiali che lì custodiamo. Gli racconto
delle storie, dico loro cosa vorrei essere quando
sarò grande, quando me ne andrò a vivere in città.
Papà dice sono pazzo e credo che per questo
picchi più me degli altri fratelli. Pam pam pam
pam. Un giorno gli scappò la mano e così sono finito
qui. A terra senza rendermene conto. Ho smesso di
respirare ma lì per lì senza accorgermene; a
volte uno perde le abitudini di tutta una vita
nel modo più strano. Avevo gli occhi
chiusi e anche così sapevo che papà stava
camminando nervosamente intorno a me. Poco
dopo mi ha trascinato fino al patio per gettarmi
qui, nel recinto. Sul momento i maiali presero
a mordermi. Avrei voluto dirgli di smetterla, ma
in realtà non mi dispiaceva. E sì, papà quasi
mai gli porta da mangiare. Quando non rimase
più carne, si divorarono anche le mie ossa.
Ne lasciarono qualcuna affinché potessi continuare
a far loro compagnia, raccontandogli altre storie
per non farli annoiare nel caldo e nel fango.
Quando uno muore, impara un sacco
di parole nuove. All’improvviso conosce racconti
che mai prima aveva ascoltato. Sono storie che
arrivano da lontano, come il pam pam pam pam
dei colpi sulla corteccia della pelle, da molto
lontano, da luoghi dove nemmeno papà è
mai stato, di gente che nessuno di qui
ha conosciuto. Uno impara ad ascoltare
meglio quando è morto, quando già non
ha nemmeno le orecchie. Così ho inteso quando
di papà s’è parlato al notiziario televisivo: effettivi
del dipartimento di polizia di Kansas
City sono intervenuti alla fine di novembre
al domicilio di Michael A. Jones, 44 anni di
età; la polizia aveva ricevuto lamentele
da parte dei vicini: colpi esplosi spesso
provenienti della casa di Jones; a quanto pare, l’uomo
picchiava la moglie e i figli, uno dei quali
risulta ancora scomparso. Dopo un po’
arrivarono vari uomini in uniforme e
perquisirono la casa da cima a fondo. Tardarono
a controllare nel recinto. Non mi è piaciuto che lo facessero,
hanno disturbato i miei maiali, che non avevano nessuna
colpa: strillarono quando dissotterrarono le mie ossa.
Ora chi gli avrebbe raccontato altre storie? Chi gli
avrebbe parlato delle cose che mai avrebbero visto? Non
vi preoccupate, dissi ai maiali, intanto che m’infilavano in
dei sacchetti di plastica, abbiate pazienza, tornerò presto.


VII
(ISLANDIA)

Me costó años descubrir que la nieve
es la forma menos amorosa del sueño.
Tardé en comprender que
detrás de su blanco sólo hay más blanco,
un hambre plana que nadie ha sabido
dibujar, una mano furtiva que hurta
transeúntes desprevenidos cuando nadie la ve.
Recibí esta nieve como quien recibe las llaves
de una casa que no ha sido construida. Y por
encima de tanta blancura atea, ese
sol sin orgullo, que no cuida de nadie.
Al menos el sol del trópico vela por la sed
que rasga la garganta, regala ese sudor metálico
que nos destiñe el nombre, que presiona
la frente con el peso de una promesa. Aquí
la palabra sol no me recuerda nada. No
lleva un ojo encandilado por dentro, un cielo
pupila cóncava. Se me escurre de la boca, se seca
incómoda en la comisura de los labios. No se arrastra
por el cielo, no me despierta golpeando su martillo claro
contra la campana de mi cráneo. Los techos pálidos,
las calles que se extienden sin saber a dónde,
el santo y seña de los guantes y los abrigos, sigo
sin dominar estas maneras. Camino con
cuidado, a la manera de quien oye voces a
medias y se confunde, creyendo que hablan
su idioma. Conmigo, siempre, este frío
como un pan sin dueño.


VII
(ISLANDA)

Ho faticato anni per scoprire che la neve
è la forma meno amorosa del sogno.
Ho tardato a comprendere che
dietro il suo bianco c’è solo altro bianco,
una fame piana che nessuno è riuscito
a ritrarre, una mano furtiva che rapina
inesperti passanti quando nessuno la osserva.
Ho ricevuto questa neve come chi riceve le chiavi
d’una casa che non è stata costruita. E al di
sopra di tanto ateo biancore, quel
sole senza orgoglio che non bada a nessuno.
Almeno il sole del tropico veglia sulla sete
che raschia in gola, dona quel sudore metallico
che scolorisce il nostro nome, che pressa
la fronte col peso di una promessa. Qui
la parola sole non mi ricorda nulla. Non
ha un occhio accecato dall’interno, un cielo
pupilla concava. Mi scivola dalla bocca, si asciuga
malamente sulla giuntura delle labbra. Non si trascina
nel cielo, non mi sveglia battendo il suo chiaro martello
contro la campana del mio cranio. I pallidi tetti,
le strade che si estendono senza sapere verso dove,
la parola d’ordine dei guanti e dei cappotti, proseguo
senza dominare queste usanze. Cammino con
prudenza, alla maniera di chi ascolta voci
sussurrate e si confonde, credendo che parlino
la sua lingua. Con me, sempre, questo freddo
come un pane senza padrone.


XIV
(STRANGE FRUIT)

Los peces no hablan: es bien sabido. Atraviesan
callados el cielo invertido del mar, sus
pendidos como pensamientos ajenos, colgando sobre
la noche boquiabierta. Se dice que no cantan porque temen
que la voz escape, se deslice hasta la superficie,
donde se quedaría flotando, durmiendo el sueño de
las algas. Cuenta Pierre de Vaisière que en junio de 1724
un barco esclavista atravesaba esas voces morosas
camino a Santo Domingo. Llevaba en bodega alimentos en
conserva, agua dulce, ratas y gatos para comerse a las ratas,
y una mercancía humana que sumaba los trescientos. Olía a tedio
y disentería, a cuerpos amontonados, lamidos por el salitre. A
medio recorrido, el capitán empezó a sospechar que dos
esclavos, un hombre y una mujer, planeaban un motín. Para
curarse en salud, decidió hacer de ellos un ejemplo. Frente
a todo el barco, hizo que a ella le pelaran los miembros
a cuchilladas – murió con los huesos enronquecidos de
tanto gritar. A él, después de tajearle el cuello, ordenó arrancarle
el corazón, el hígado, las vísceras para que fueran picados
en exactamente trescientos pedazos. Abierto, expuesto,
sus brazos y piernas guindaban, moviéndose con el vaivén
del barco. Podía verse el árbol tembloroso que llevaba por
dentro, allí donde el cielo hundía sus raíces rojas.
Cada esclavo recibió uno de los trozos, carne
de su carne perdida. Cerraban la boca como
el mar se cerraba alrededor del barco, boca sin
garganta, sin labios ni encías. Los cuerpos fueron tirados
por la borda. Los recibieron los peces que, en realidad,
no hablan porque son sordos. Los vieron caer y no
se atrevieron a interrogar los ojos en blanco, las hilachas
de piel, las entrañas súbitamente libres. No preguntaron
sus nombres y, por eso, tampoco los sabemos nosotros.


XIV
(STRANGE FRUIT)

I pesci non parlano: è risaputo. Attraversano
silenziosi il cielo invertito del mare, sos-
spesi come pensieri estranei, ciondoloni sulla
notte a bocca aperta. Si dice che non cantino perché temono
che la voce fugga e scivoli fino in superficie,
dove rimarrebbe galleggiando, dormendo il sonno delle
alghe. Racconta Pierre de Vaisière{*} che nel giugno del 1724
una barca schiavista attraversava quelle voci indolenti
sulla rotta per Santo Domingo. Trasportava in stiva alimenti in
conserva, acqua dolce, topi e gatti per mangiarsi i topi,
e una merce umana che sommava i trecento. Puzzava di noia
e dissenteria, di corpi ammucchiati, leccati dal salnitro. A
metà del percorso, il capitano ebbe il sospetto che due
schiavi, un uomo e una donna, pianificassero una rivolta. Per
non correre il rischio, decise di fare di loro un esempio. Davanti
a tutti diede l’ordine di scuoiare a coltellate gli arti
della donna – morì con le ossa arrochite per via del tanto
gridare –. All’uomo, dopo il taglio della testa, gli strapparono
il cuore, il fegato, le viscere affinché fossero sistemati
in trecento pezzi esatti. Aperto, esposto,
le sue braccia e gambe si innalzavano, muovendosi col viavai
della nave. Poteva scorgersi l’albero tremolante che aveva
all’interno, lì dove il cielo affondava le sue rosse radici.
Ogni schiavo ricevette uno dei pezzi, carne
della sua carne perduta. Chiudevano la bocca come
il mare si chiudeva intorno alla barca, bocca senza
gola, senza labbra né gengive. I corpi furono buttati
in mare. Li accolsero i pesci che, in realtà,
non parlano perché sono sordi. Li videro cadere e non
osarono interrogare gli occhi al cielo, i filamenti
di pelle, le viscere all’improvviso libere. Non domandarono
i loro nomi e, per questo motivo, nemmeno noi li conosciamo.

{*}Storico francese (1867-1942).


XVII

        Estudié la ciencia de la despedida
        en los calvos lamentos de la noche.

        Ossip Mandelstam

En Nataruk, al norte de Kenia, arqueólogos
hallaron los restos de 27 seres humanos
amontonados en la palma seca de lo que
solía ser un lago. La datación por radiocarbono
de conchas y sedimentos minerales permitió
estimar que los cadáveres tenían entre 9.500
y 10.500 años de antigüedad. Se trataba de
un grupo diverso: hombres y mujeres adultos
–una de ellas embarazada–, ancianos, niños.
Varios tenían las manos atadas. Todos
presentaban traumatismos graves, señales
de golpes realizados con objetos
contundentes, como mazos, así como
heridas producto de armas punzopenetrantes.
Los expertos creen que los 27 sujetos fueron
reducidos, ejecutados sistemáticamente y
lanzados al lago, donde el limo se ocupó
de conservarlos. Es así como los cuerpos
aprenden a hablar, a decir la vida sin
elocuencia, en kilos de carne, bilis,
flema y saliva, polvo y brillo inclemente.
La vida labios abiertos, dientes cariados,
osamenta de plomo. Cuero extendido
bajo la furia del mediodía, su ojo tosco y
cóncavo. Desaparición, despedida,
miembro fantasma, ciencia trunca.


XVII

        Ho appreso la scienza degli addii,
        tra i calvi lamenti della notte

        Osip Mandel’štam


A Nataruk, al nord del Kenya, archeologi
hanno trovato i resti di 27 esseri umani
ammucchiati nel fondo asciutto di quello che
una volta era un lago. La datazione al radiocarbonio
di conchiglie e sedimenti minerali ha permesso
di calcolare che i cadaveri avevano tra 9.500
e 10.500 anni di antichità. Si trattava di
un gruppo diverso: uomini e donne adulti
- una era incinta –, anziani, bambini.
Parecchi avevano le mani legate. Tutti
presentavano traumatismi gravi, segni
di colpi messi a segno con oggetti
contundenti, come mazze, così come
ferite prodotte da armi a taglio penetranti.
Gli esperti credono che i 27 individui furono
catturati, abbattuti sistematicamente e
buttati nel lago, dove il limo si occupò
di conservarli. È così che quei corpi
imparano a parlare, a dire della vita senza
eloquenza, in chili di carne, bile,
flemma e saliva, polvere e feroce scintillio.
La vita labbra aperte, denti cariati,
scheletro di piombo. Cuoio esteso
sotto la furia del mezzodì, il suo occhio rozzo e
concavo. Sparizione, addio,
membro fantasma, scienza mutilata.


XXV
(HISTORIA NATURAL DEL ESCOMBRO: AUSCHWITZ-BIRKENAU)

Cuando no quede ni una persona que recuerde, cuando no
reste en pie un solo tallo de nuestra memoria y nuestra voz
no valga su peso en sal, especias o ceniza, ¿cómo se verán
estos edificios? ¿Como los hallaron los pilotos aliados
con sus cámaras: lentas hileras de rectángulos abrazados a la
nieve? ¿costillas brotando en el aire hambriento?
¿O como los veo a través de Google Earth, barracas
relucientes como cráneos, rejas y alambres de púas limpios
y hasta corteses, todos más o menos somnolientos,
fingiendo la inocencia de los objetos abandonados
bajo la membrana reseca de mi pantalla? Vista desde el cielo,
la tierra es impermeable, lisa, bulímica. No tiene edad o acaso
tiene la edad de los mitos que se olvidan porque ya no sirven
a nadie. Alguien observará todo esto sin curiosidad o terror,
pupilas cubiertas por la resina de la distancia, como si el pasado
no pudiera ser el futuro y el tiempo apenas
fuera el país de lo ya visto. Cuando estemos masticando las
entrañas del suelo y no tengamos la tela de un nombre
para cubrir nuestra desnudez, no podremos advertirles
que la historia es un largo toque de queda donde
realmente nada concilia el sueño por completo.


XXV
(STORIA NATURALE DEI DETRITI: AUSCHWITZ-BIRKENAU)

Quando non resta nemmeno una persona a ricordare, quando non
sta in piedi un solo stelo della nostra memoria e la nostra voce
non varrà il suo peso in sale, spezie o cenere: come si vedranno
questi edifici? Come li trovarono i piloti alleati
con le loro fotocamere: lente file di rettangoli abbracciati alla
neve? costole che germogliano nell’aria affamata?
O come li vedo con Google Earth: baracche
rilucenti come crani, inferriate e brillanti fili di ferro
e persino cortesi, tutti più o meno sonnolenti,
fingendo l’innocenza degli oggetti abbandonati
sotto la membrana rinsecchita del mio schermo? Vista dal cielo,
la terra è impermeabile, liscia, bulimica. Non ha età o forse
ha l’età dei miti che si dimenticano perché non servono
a niente. Qualcuno scruterà tutto questo senza curiosità o terrore,
pupille coperte dalla resina della distanza, come se il passato
non potesse essere il futuro appena
fuori del paese del già visto. Quando stiamo masticando le
viscere del suolo e non abbiamo la stoffa di un nome
per coprire la nostra nudità, non potremo avvisarli
che la storia è un lungo coprifuoco dove
davvero nulla concilia totalmente con il sogno.


XXXII
(Nana para Malena)

Duerme, hija, para que contigo duerman
todas las balas perdidas del mundo. Que
se aquieten por hoy los huesos desteñidos de
la tierra, que se detenga el cielo brusco
que cuelga sobre nosotros. El cuerpo te pide
esta paz a cambio de aguantar la voracidad
de tus manos, el peso en hambre de todas tus
preguntas –a cambio de tu estatura impaciente
bajo el sol–. Duerme por quienes no pueden
descansar, contando las gotas de sudor frío
que la noche deja en las ventanas. Que el
terror pase a tu lado apenas como un
murmullo, como el cuerpo de una yegua adivinado
en la oscuridad. Que repose tu carne aturdida
por el sonido que producen los árboles al crecer.
Duerme en la otra orilla de estas palabras
con las que te arrullo, menos pesadas que tu
sombra, palabras que no te enseñé sino a medias
y que nada más sirven para hacerse invisible
poco a poco. Lejos de ti quienes siembran
dientes de rata en el suelo húmedo. Que
las patas de tu cama sean tan altas que no
la roce el mar; que los perros no vengan
a salmodiar junto a la puerta de tu cuarto.
Que el espacio te sea infiel, inagotable.
Y que todos los paraísos estén ya perdidos o
por perder. Puse en tu almohada raíces blancas,
hilos que bajan hasta el penúltimo aliento
de la infancia. Duerme tu cansancio liso: en
tu frente queda inmóvil la piedra blanda de tu risa.
Yo vendré a despertarte pronto, cuando el grano
de mañana que queda en tu piel se haya abierto.


XXXII
(Ninna nanna per Malena)

Dormi, figlia, affinché con te dormano
tutte le pallottole vaganti nel mondo. Che
si calmino per oggi le ossa scolorite della
terra che si trattenga il cielo rude
che pende su di noi. Il corpo ti chiede
questa pace in cambio di trattenere la voracità
delle tue mani, il peso affamato di tutte le tue
domande – in cambio della tua statura impaziente
sotto il sole –. Dormi per coloro che non possono
riposare, contando le gocce di sudore freddo
che la notte lascia sulle finestre. Che il
terrore passi al tuo fianco soltanto come un
mormorio, come il corpo di una giumenta immaginato
nell’oscurità. Che riposi la tua carne stordita
dal suono generato dagli alberi che crescono.
Dormi sull’altra sponda di queste parole
con le quali ti cullo, meno pesanti della
tua ombra, parole che ti insegnai solo a metà
e che servono soltanto a farsi invisibili
un po’ alla volta. Lontano da te chi semina
denti di topo nel suolo umido. Che
le zampe del tuo letto siano così alte che non
lo sfiori il mare; che i cani non vengano
a salmodiare vicino alla porta della tua stanza.
Che lo spazio ti sia infedele, inesauribile.
E che tutti i paradisi siano già perduti o
da perdere. Ho messo nel tuo cuscino radici bianche,
fili che scendono fino al penultimo respiro
dell’infanzia. Dormi la tua stanchezza levigata: sulla
tua fronte resta immobile la soffice pietra della tua risata.
Presto verrò a svegliarti, quando il grano
del futuro che resta sulla tua pelle sarà germogliato.


Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini




Adalber Salas Hernández
è nato a Caracas (Venezuela) nel 1987 ed è poeta, saggista e traduttore, attualmente risiede a New York per un dottorato di ricerca presso la New York University.
Ha pubblicato i libri di poesia: La arena, el vidrio (Venezuela, 2008), Extranjero (Venezuela, 2010; Colombia 2012), Suturas (Venezuela, 2011), Heredar la tierra (Colombia, 2013), Salvacunducto (come inedito “Premio de Poesía Arcipreste de Hita” , poi Spagna, Pre-Textos, 2015), Río en blanco (Spagna, 2016), mínimos (Spagna, 2016), Materia intacta (Venezuela, 2017) e La ciencia de las despedidas (Spagna, Pre-Textos, 2018).
Ha pubblicato anche libri di saggistica e svariati libri di traduzione dal francese e dall’inglese.

(Foto di Susanna Bozzetto)


alexbrando@libero.it