FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 46
aprile/giugno 2017

D'acqua o di fuoco

 

GLI ANGELI DI BALLYVOURNEY

di Armando Santarelli



Credo che nessun uomo possa sottrarsi all’idea che la vera felicità, la pace del cuore, la perfezione assoluta, esistano fuori di noi, oltre la vita breve e sofferta che sperimentiamo su questa terra. Eppure, non c’è essere umano che non abbia goduto della gioia ineffabile che a volte inonda e travolge le nostre anime, una luce così abbagliante da togliere ogni peso alle nostre pene, e sciogliere ogni dubbio circa il vero senso dell’esistenza.
Non so se abbiamo già conosciuto la felicità in una vita precedente, di cui i momenti estatici rappresentano la reminiscenza, l’attonita e splendida nostalgia. Oppure se Iddio, o un Suo emissario, si decidano ogni tanto a scendere nell’umano per donarci un presentimento, un assaggio di quel che ci attende nell’Aldilà. So che queste gioie inebrianti, per brevi che siano, costituiscono un indizio, una visione, un segno di ciò che è celato nella nostra anima, e che solo di rado riusciamo a cogliere nella sua essenza. Perché il segno, benché abbagliante, è spesso incomprensibile, e se ci seduce lo fa solo per pochi istanti, lasciandoci la dolorosa speranza dell’Eternità, che presto viene travolta dalle ambasce quotidiane.

Nessuno può negare la difficoltà di comprendere l’irruzione del Trascendente nella nostra vita; ma difficoltà non vuol dire impossibilità. Purtroppo, noi sottovalutiamo, o peggio ancora, ignoriamo le gioiose annunciazioni della nostra identità più autentica, rinunciando a trasformare la nostalgia di grandezza e bellezza che è in ognuno di noi in conquista di tali valori.
Eppure, sebbene possa arrivare nei momenti e nei modi più strani, la chiamata dell’Angelo è per tutti. Non importa l’età, la salute, l’intelligenza, il senso morale che possediamo quando la scintilla si accende nel nostro animo; ciò che importa è riuscire a cogliere nel sintomo il significato da attribuire alla nostra vita, perché la vita non sa che farsene di chi rimane alla superficie delle cose.
Se ognuno di noi ha la sua vocazione elettiva, non si può negare che le persone eccezionali avvertano la chiamata nel modo più eclatante. Gli spagnoli e i sudamericani chiamano duende il fuoco creativo che divampa nell’animo dei letterati, dei musicisti, dei cantanti, dei pittori capaci di esprimere universalmente le verità che intuiscono.

Per lungo tempo, Franz Kafka pensò di non poter riuscire a tradurre i pensieri che si agitavano nella sua mente in parole espressive, pregnanti, insomma da letterato vero. Avvertiva l’impossibilità di raccogliere i moti dell’animo nelle frasi compiute e armoniose in cui si rivela il senso e la bellezza della scrittura: “Tutto il mio corpo mi mette in guardia da ogni parola, ogni parola, prima di lasciarsi scrivere da me, si guarda in giro da tutte le parti”.
Ma il sacro fuoco ardeva sotto la cenere, e nella notte fra il 22 e il 23 settembre 1912 mandò la prima, inestinguibile fiammata. Dopo aver consumato la cena, Kafka sedette alla scrivania, come faceva tutti i giorni. Ma quella sera il suo essere fu percorso da una forza nuova, misteriosa, sovrumana. Kafka scrisse per l’intera notte, impossibilitato a disobbedire al comando capace di infrangere il muro che aveva ostacolato sino ad allora la manifestazione del suo genio letterario. Il risultato di quell’Annunciazione laica, eppure miracolosa, fu Il verdetto, uno dei capolavori dello scrittore praghese.

Il daimon di Kafka aveva atteso quasi trent’anni per rivelare al timido e solerte impiegato delle Assicurazioni Generali che la sua vera vocazione era la letteratura. In altri casi, lo Spirito che guida la nostra vita si adopera molto presto per sollevare il velo che copre il destino che ci è stato assegnato. La vocazione di Judy Garland si manifestò quando aveva solo due anni e mezzo. Dopo aver eseguito un brano musicale insieme alle sorelle nel teatro di Grand Rapids (Minnesota), sua città natale, la piccolissima Judy iniziò a cantare da solista la celebre Jingle Bells, entusiasmando a tal punto la folla presente da essere richiamata più volte sulla scena, fino a quando il padre fu costretto a portarla via di peso dal palcoscenico. Era nata quella che Fred Astaire definì “la più grande artista che sia mai esistita e probabilmente che mai esisterà”.

Vocazioni precoci, o manifestatesi tardivamente, fuochi subitanei o che bruciano lentamente per poi divampare ardenti e imperituri. Ma il risultato è sempre lo stesso: queste forze della natura hanno il potere di influenzare, di sottomettere al proprio genio tutto ciò che rientra nel loro raggio d’azione. Incontrando le persone che recano in sé il sacro fuoco, avvertiamo all’istante di trovarci dinanzi a esseri umani che hanno avuto in dono una scintilla del divino: quando leggiamo i loro scritti abbiamo l’impressione che mai la mente e l’immaginazione umana abbia raggiunto vette così elevate; quando suonano o cantano ci sembra di essere tornati nell’Eden dal quale siamo stati cacciati; quando vediamo i loro dipinti, non ci pare possibile che siano stati concepiti e realizzati da mano umana.

Lo spettacolo del fuoco che brucia e divampa dal cuore di chi ha in serbo il genio creativo ho avuto modo di ammirarlo proprio di recente, domenica 16 aprile 2017, giorno della Santa Pasqua. Ero in Irlanda insieme agli amministratori del mio paese, nell’ambito di un gemellaggio teso a stabilire legami sociali ed economici fra alcune piccole comunità rurali dell’Unione Europea.
Toccava agli irlandesi della Gaeltacht Mhúscraí (area di cultura gaelica della contea di Cork) ospitare la delegazione italiana, nonché quelle dei polacchi, dei maltesi, dei cechi e dei portoghesi. Il mattino di Pasqua, dopo la Messa, siamo stati invitati tutti nel Centro Culturale Ionad Cultúrtha del villaggio di Baile Mhúirne (Ballyvourney) per assistere ad un concerto musicale organizzato appositamente per i delegati ospiti. E lì, nel grazioso teatro del Centro, è accaduto qualcosa di prodigioso.

Dopo pochi minuti di attesa compaiono sul palco sei bambini; il presentatore ci dice soltanto che hanno dagli otto ai quindici anni, e che provengono dal vicino villaggio di Cill na Martra. I loro nomi – desueti per noi, ma affascinanti – evocano antiche stirpi gaeliche: Aodhagán, Caitríona, Ellen, Liam, Maebh, Méabh, Nóra.
Sono questi – pensiamo tutti – i musicisti che, come ci è stato detto, dovrebbero offrirci un saggio della tradizione musicale gaelica più autentica? E dov’è il loro maestro, la persona che dovrà dirigere la piccola orchestra? Mentre il nostro stupore cresce parallelamente alla curiosità, vediamo i sei bambini impadronirsi con grazia e disinvoltura dei loro strumenti: un flauto irlandese, un piffero di stagno, 2 violini, un pianoforte, una concertina e una fisarmonica cromatica. Nel silenzio assoluto della sala, sussurrano qualcosa fra di loro, poi il più grande, che suona la fisarmonica, batte il piede sul pavimento del palcoscenico. In un istante, siamo travolti da un esaltante cascata di note saltellanti ma concordi, nostalgiche eppure allegre, un cocktail di antico e moderno, un pianto misto a un sorriso, l’incontro e la perfetta fusione dei toni morbidi dei flauti con le armonie gitane delle fisarmoniche, le carezze dei violini, le vibrazioni argentine del pianoforte. I piccoli musicisti di Mhúscraí alternano una serie di reels, jigs, slide che sollecitano tutti i sensi, spazzando via i nostri dubbi, perché stiamo assistendo a uno di quei fenomeni che giustificano la contiguità fra musica ed estasi dell’anima.

Ma il bello deve ancora venire. Terminato il siparietto musicale, una delle piccole orchestrali, Ellen, e altre due ragazzine, Hannah e Mary Ellen, si piazzano al centro del palco. Indossano un semplicissimo vestitino color cielo, i capelli biondi sono raccolti da una coroncina, hanno lineamenti delicati, visi bianchissimi e occhi brillanti. Si guardano un istante, annuiscono, e al cenno di una di loro iniziano a cantare. Un canto? Non so se sia possibile definirlo così, perché quelle voci non paiono uscire da ugole di esseri umani, ma da un coro angelico. Dolcissime, soavi, ineffabili, intonano una melodia allo sean nós (in gaelico “vecchio stile”) modulando la voce come se stessero suonando il più fine e delicato degli strumenti musicali. Paralizzato sulla sedia, commosso, sono percorso dal fremito interiore che ti proietta direttamente in Dio. Più il canto si snoda, più avverto il sentimento che ho assaporato una sola altra volta nella vita, ascoltando il coro dei monaci russi nel monastero athonita di Agiou Panteleimonos: la percezione del superamento dello stato di essere umano, l’esultante pienezza che deriva dal contatto con l’Assoluto.

Sono sicuro che i suoni e le voci dei piccoli artisti di Mhúscraí oltrepasseranno presto i confini dei loro villaggi per entrare nella casa del mondo. Creature d’aria, del cielo, il daimon che ospitano li ha fatti tornare al contatto con le radici ancestrali e profonde dell’Isola di Smeraldo; da queste sono nate i fiori spontanei – ma curati con amore, affinché crescano sempre più splendenti e rigogliosi – che porteranno ovunque il profumo, la bellezza, l’anima della terra d’Irlanda.


armando.santarelli@inwind.it