Premetto soltanto che, considerata l’estrema complessità della storia che segue, ho optato per uno stile più lineare di quello che mi contraddistingue. Dal punto di vista narratologico, in verità, ma ancora prima stando al formalismo russo, non è la storia a essere complicata, ma il racconto che inevitabilmente ne deriva. Cercherò quindi di asciugare al massimo la prosa, pur nella convinzione che altri sarebbero comunque riusciti a fare meglio di me. Aggiungo che racconto ciò che racconto perché penso veicoli un insegnamento fondamentale, e che lo faccio soltanto adesso, a distanza di anni, perché la morte di tutti i protagonisti di questa storia ne legittima la diffusione.
Erano i giorni in cui si dibatteva del diritto all’anonimato di un personaggio famoso, una contraddizione in termini: sul Sole 24 Ore era infatti uscita una «inchiesta» finalizzata a dimostrare, attraverso visura catastale, che dietro lo pseudonimo della scrittrice Elena Ferrante si nascondeva la traduttrice Anita Raja, moglie dello scrittore Domenico Starnone: ai tempi la Ferrante era molto amata, a prescindere dalla vera identità, e l’autore dell’inchiesta, con la sua incursione nel privato della Raja, ci guadagnò soltanto la lapidazione mediatica: a difesa della Raja, o della Ferrante, gli intellettuali italiani scomodarono persino Pessoa.
Negli stessi giorni, ricevevo su Facebook la richiesta di amicizia di tale Oscar Amalfitano, il cui nome e cognome puzzavano di pseudonimo a chilometri di distanza. Dopo un po’ mi sono ricordato che Oscar Amalfitano era un personaggio di «Panotik», un romanzo di Luigi Borgese che ruota intorno a un social network futuristico ispirato a Facebook. Va detto che sia Oscar Amalfitano sia Luigi Borgese sono degli pseudonimi: nella finzione di «Panotik», Oscar Amalfitano è lo pseudonimo di un poeta incompreso, che ha deciso di farsi chiamare come un personaggio di «2666» di Roberto Bolaño, mentre nel mondo reale Luigi Borgese è lo pseudonimo di Calogero Calaciura, che da questo momento in poi, però, chiamerò Luigi Borgese, come d’altronde lo scrittore è conosciuto in Italia da ormai un ventennio.
Ora, a chiunque conosca Luigi Borgese è nota la sua passione per gli pseudonimi, suoi e altrui. Celebre l’articolo in cui, appellandosi alla «funzione-autore» di Foucault, Luigi Borgese sosteneva che Kilgore Trout non fosse uno pseudonimo di Kurt Vonnegut, bensì come un autore vero e proprio, sia perché Vonnegut gli aveva regalato una coerente biografia fittizia, sia perché Kilgore Trout aveva uno stile differente da quello di Vonnegut e aveva pubblicato dei romanzi firmati con il suo nome, e tutto ciò lo rendeva reale quanto Vonnegut, a tal punto che volendo si sarebbe potuto considerare Vonnegut uno pseudonimo di Trout. Questo discorso sarebbe valido anche per Alexander Search, l’eteronimo attraverso il quale Fernando Pessoa scriveva racconti ispirati a Poe, e che avendo pubblicato a proprio nome potrebbe essere considerato un autore a sé stante, per quanto mediocre.
Ma sto divagando. Vonnegut e Pessoa a parte, lo stesso Borgese non aveva negato di essere ricorso a degli pseudonimi. Di conseguenza, quando ho ricevuto la richiesta di amicizia di Oscar Amalfitano ho pensato che si trattasse di un utente fittizio gestito dallo stesso Borgese, molto attivo su Facebook attraverso un utente a suo nome. Aggiungo che non ho mai avuto tra gli amici Luigi Borgese, ma che ne seguivo i movimenti e le conoscenze, che a prima vista mi sono sembrati molto simili a quelli di Oscar Amalfitano. Ho quindi cominciato a interagire con Oscar Amalfitano convinto che fosse Luigi Borgese, ma anche, e proprio in virtù di questa convinzione, disposto a stare al gioco, e a trattare Oscar Amalfitano come un individuo e non come uno pseudonimo.
Dopo una serie di scambi, però, Oscar Amalfitano ha chiarito di non chiamarsi Oscar Amalfitano, ha confermato che il nome derivava dal personaggio di «Panotik», ma ha anche sostenuto di non essere Luigi Borgese. Ha detto di essere sì in contatto con Luigi Borgese, ma di avergli «rubato» lo pseudonimo perché si era identificato nel personaggio di «Panotik». Sosteneva di chiamarsi in realtà Roberto Blocco, di essere anche lui «un poeta incompreso» e di ammirare profondamente l’opera letteraria di Borgese.
A parte il fatto che anche Roberto Blocco puzzava di pseudonimia, cercando su internet ho trovato ben poco, per quanto quel poco fosse alquanto emblematico: sette articoli dedicati a «Drosera», un’ipotetica silloge poetica di Roberto Blocco arricchita dalla prefazione di Luigi Borgese. Per il resto, Roberto Blocco sembrava non avere un passato. Inoltre, tornando su quei sette articoli, mi sono reso conto che erano tutti firmati da giornalisti o scrittori in qualche modo vicini a Luigi Borgese, anche se questo poteva essere dipeso dalla presenza della sua prefazione, e non implicava certo che Luigi Borgese e Roberto Blocco fossero la stessa persona. Infine, la pubblicazione della silloge «Drosera» era attribuita a una casa editrice inesistente, la «Samovar», e dell’oggetto cartaceo non si trovava traccia, né sui canali di vendita dell’usato né altrove, e tutto ciò che girava su internet era una presunta copertina, palesemente amatoriale. Ma, ancora, tutto ciò non implicava nulla.
Via chat, Roberto Blocco mi ha raccontato che, dopo il «colpaccio» fatto con «Drosera», e l’onore della prefazione di Borgese, ottenuta per vie traverse, non era più riuscito a far breccia nel mondo editoriale. Mi ha quindi chiesto un aiuto, e nonostante gli abbia spiegato che in casa editrice io mi limito a impaginare, la sua insistenza, unita alla mia convinzione che si trattasse di Borgese, ha fatto sì che il gioco andasse avanti, e che io mi impegnassi per procacciargli un nuovo editore, o almeno un contatto utile. A parte questo, Roberto Blocco mi risultava simpatico, per quanto naif, e a poco a poco il piacere di scambiare delle chiacchiere con lui, sempre via chat e mai telefoniche, ha preso il sopravvento sulla convinzione che si trattasse di Luigi Borgese. In fondo non ero e non sono un fan di Luigi Borgese, e pensavo soltanto che fosse educato e divertente per entrambi stare al gioco, e che prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine, come si dice, anche se così non è stato.
Giorno dopo giorno, Roberto Blocco ha aggiunto particolari sulla propria vita, in un modo che faticavo a percepire come spontaneo, ma che non potevo sostenere che non lo fosse. Prima il nome della moglie, poi quello del figlio, e l’età del figlio, poi dettagli sul vero lavoro, perché per lui la poesia era ovviamente soltanto un hobby, e poi tracce biografiche sparse qui e lì, un link con la sua partecipazione a un concorso poetico che però sembrava anch’esso inventato, la presenza di una sua poesia in un’antologia poetica che però risultava irreperibile, e così via. Tutti i dettagli aggiuntivi sulla presunta vita reale di Roberto Blocco non facevano che convincermi sempre di più che si trattasse di Luigi Borgese: più Blocco mi forniva prove della sua esistenza, più lo credevo uno pseudonimo. E anche quando mi ha mandato dei video in cui recitava le sue poesie, anche quando su Facebook pubblicava foto di se stesso in compagnia di persone di cui era l’unico amico, anche quando qualcuno lo taggava e si rivolgeva a lui fedelmente a quei dettagli biografici che Blocco aveva fornito anche a me, io non ho comunque mai smesso di pensare che si trattasse di una monumentale montatura di Borgese, tant’è che alla fine ho dovuto confessarglielo, perché, eteronimo o meno, Blocco mi stava simpatico, e perché, per quanto remota, non potevo ancora escludere l’eventualità che fosse una persona reale.
Roberto Blocco ha detto che non mi biasimava. In tanti erano convinti che fosse Luigi Borgese. D’altronde, perché usare un utente chiamato Oscar Amalfitano, come un personaggio di un romanzo di Borgese, e non averne uno proprio, con il proprio nome? Blocco non era riuscito a convincere nessuno di essere una persona reale, e questa cosa a lungo termine l’aveva amareggiato. Al contempo non voleva aprire un account a proprio nome, perché si era affezionato a quello pseudonimo, e la gente su Facebook lo cercava più di quanto lo cercasse nella realtà, forse perché erano tutti convinti che si trattasse di Borgese, forse perché erano tutti fan di Borgese che volevano stare al suo gioco per compiacerlo, chissà, ma in fondo, cosa importava? Di «Drosera» avevano scritto soltanto sette giornalisti, spinti più dalla stima per Borgese che dall’interesse per l’opera. Forse, pensava Roberto Blocco, lo pseudonimo di Oscar Amalfitano, grazie al successo di «Panotik», gli avrebbe permesso di entrare in contatto, almeno su Facebook, con qualcuno che ne potesse apprezzare l’opera poetica, così sosteneva lui, o forse così Luigi Borgese aveva immaginato che Roberto Blocco avrebbe potuto argomentare.
Ho interagito con Roberto Blocco, o Oscar Amalfitano, o Luigi Borgese, per sei mesi. Per sei mesi l’ho trattato come un individuo nonostante fossi convinto, in cuor mio, che si trattasse di Luigi Borgese, e che prima o poi, magari ispirato da un’affinità elettiva, Luigi Borgese avrebbe ammesso di essere lui; ma, al contrario, più mi allontanavo emotivamente da Roberto Blocco, sentendomi in qualche modo offeso, e sentendo che in qualche modo lo stavo offendendo, più Roberto Blocco tentava di convincermi della sua versione dei fatti, a tal punto da darmi il numero di cellulare del presunto editore dell’ipotetica silloge «Drosera», sostenendo che forse lui, l’editore, poteva avere ancora qualche copia della silloge, che d’altronde era stata stampata in sole quarantanove copie numerate, ma io quel numero non l’ho mai usato, nella certezza che, se davvero Roberto Blocco era Luigi Borgese, così come aveva convinto qualcuno a interpretare Roberto Blocco in un video e su Facebook, allo stesso modo avrebbe potuto convincere qualcun altro a recitare telefonicamente la parte dell’editore. Insomma, non c’era via d’uscita, e alla fine, pur essendo maledettamente curioso, ma essendo anche maledettamente rispettoso della privacy altrui, ho deciso che avrei dovuto ingoiare l’amaro calice del dubbio, o, in parole povere, sopportare il fatto che non avrei mai saputo la verità.
Come se non bastasse, ho dovuto tenere a lungo per me tutto il dilemma, perché se avessi indagato, chiesto in giro, se avessi cercato la verità altrove, piuttosto che nelle laconiche discussioni in chat con Roberto Blocco, avrei rischiato di offendere Roberto Blocco, nel caso in cui fosse davvero Blocco, o di offendere Luigi Borgese, nel caso in cui non si trattasse di Borgese. Poi, però, è avvenuta la disgrazia, e anche se all’inizio ero terrorizzato dal rischio di essere tacciato di sciacallaggio, ragionando sull’ipotesi di mettere nero su bianco quest’episodio al contempo ambiguo e letterario, sono arrivato alla conclusione che, essendo d’altronde anch’io un eteronimo, questo racconto non avrebbe potuto nuocere ad alcuno.
|