FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 41
gennaio/marzo 2016

Calma & Fretta

 

VADO DE PRESCIA...

di Armando Santarelli



Volete sapere quanto tempo impiego a consumare un pasto? (l’ho cronometrato): circa quattro minuti. A farmi la barba? Non più di cinque minuti.

E quando parlo? Se mi ci metto, a Enrico Mentana, detto “mitraglia”, lo faccio diventare una pistola ad acqua…

Lo so, vi state chiedendo se sono veloce pure in certi frangenti… Sicuro! Io vado sempre di fretta, voglio fare cento cose al giorno, e non cederò mai troppo tempo a nessuna di esse, fosse pure un amplesso con Rooney Mara!

Il risvolto fastidioso è resistere ai rimproveri che mi vengono mossi per questo mio modus vivendi (in-vivendi secondo molti parenti ed amici). Naturalmente, i rimproveri sono cominciati sin da quando ero bambino: “Mangi troppo in fretta, non ti fa bene, il cibo non ti si accosta”. E proseguiti quando ero un adolescente: “Mangi male, non aiuti la digestione, da grande ti verrà un cancro allo stomaco. E poi, così i cibi non li gusti!”

Ho abbozzato per anni, fino al giorno della ribellione: “Nossignori! Io i cibi non li gusto se mangio lentamente! Ci ho provato a mangiare con calma un bel piatto di bucatini all’amatriciana: arrotolare per bene, masticare adagio, attendere un paio di secondi, fare un altro bell’involto di bucatini… Dopo un po’ di minuti avevo ingoiato solo tre-quattro bocconi, i bucatini si erano freddati e avevano perso tutto il loro gusto. Allora li ho messi nel forno a microonde, tirati fuori belli fumanti e mangiati in un minuto, incurante del cancro (stavolta dell’esofago) che, sempre a detta dei parenti laureati in medicina, può derivare dall’ingerimento di cibi bollenti.

Insomma, la salute è mia e la gestisco io. Il problema è che ho influenzato tutta la famiglia, e qui la situazione si complica: non vorrei essere ricordato come un propalatore di tumori all’apparato orogastrico!

E poi ci sono altre complicazioni pratiche, per esempio, nelle occasioni (parecchie) in cui abbiamo ospiti. Quando il primo piatto arriva in tavola, noi quattro di famiglia, per quanti sforzi facciamo (per esempio bere ogni tanto un goccio d’acqua o di vino, iniziare un discorso qualsiasi pur di non mettere niente in bocca, prendere due rigatoni per volta quando vorremmo inforchettarne sei o sette, stare immobili come baccalà mentre lo stomaco ci chiede “A reca’, ma oggi che v’è preso?”), dicevo, nonostante la buona volontà, dopo un paio di minuti abbiamo quasi spolverato il piatto di pasta, mentre gli ospiti non hanno ancora avuto il tempo di dire: “Buona, complimenti”.

A quel punto non resta che affidarci alle manovre più estreme e disperate, tipo lasciare nel piatto due-tre rigatoni, piuttosto soli e vergognosi, oppure, se non siamo riusciti a risparmiarli, tenere la forchetta sospesa a mezz’aria, come se dovessimo ancora utilizzarla; ma il piatto è vuoto, e credo che i nostri ospiti abbiano pensato più volte che quando mangiamo ci comportiamo non come dei maleducati, ma come dei veri deficienti!

Puntualmente, ci scusiamo e diciamo loro di non farci caso, che la colpa è nostra, perché noi mangiamo in fretta, eccetera. Poi, è vero che spesso, quando gli ospiti sono andati via, ci guardiamo in faccia e arriva quel commento: “Mamma mia, meglio noi cento volte! Un rigatone per volta, la moglie c’ia messo venti minuti a magnasse un piatto de pasta. Senti, questi non se ’nvitano più, okay?”.

Sulla fretta nel radermi non conviene spendere molte parole, è un argomento banale; e poi, la mia faccia, al mattino, parla da sé (voglio dire che parlano i tagli su zigomi, mento, e lobi delle orecchie).

Molto più importante, ovviamente, è la fretta quando faccio quella cosa. Qui, devo cospargermi il capo di cenere e ammettere che qualche volta ho desiderato di migliorare questa “performance”. Ma che ti migliori quando hai raggiunto i sessant’anni e hai sempre copulato come un leone? (voglio dire con la velocità di un leone, cinque secondi; solo che il leone poi torna all’assalto altre decine di volte, mentre a me, per un’altra soltanto, mi ci vorrebbe una scatola di testosterone misto a viagra…). Il fatto è che fin da giovane, quando vedevo due belle tette e il petalo rosa che le donne hanno lì sotto, una dinamo interna dotata di una propulsione irresistibile mi spingeva, anzi spingeva qualcos’altro, a non indugiare in preliminari inutili e snervanti, moine, sdilinquimenti, urletti, cambi di posizione che te lo fanno solo ammosciare. Dunque, andavo subito al sodo, con conseguente “Di già?” della sfortunata, che non era ancora niente comparato al secondo “Di già?” che seguiva poco dopo.

Qualche volta, alla partner di turno provavo a rivelare in anticipo questo difettuccio; le più diligenti si attenevano alla mia velocità spaziale, e non sapete che gioia provavo nell’immediato, contemporaneo ululato finale (anche questo di breve durata). Altre volte mi sono capitate quelle che invece avrebbero voluto “redimermi”: “Ci penso io, vedrai che stavolta sarà un long lasting sex” (e giù una smorfia irresistibile). Risultato: l’effetto contrario, un’esplosione ancor più improvvisa e precoce!

Ho letto da poco, in un articolo dedicato alle regole del perfetto gigolo, che non si deve mai chiedere a una donna, dopo l’amplesso: “Ti è piaciuto?”. Pur non conoscendo questa regola da “macho”, io non ho mai fatto questa domanda imbecille alle mie amanti, e non per evitare una scontata risposta negativa, ma qualche borsettata in faccia…

Chiedetemi però se, dopo avervi descritto le conseguenze discutibili, sconvenienti, e talvolta persino tragiche, che derivano dal fare tutto in fretta, chiedetemi se vorrei cambiare. La risposta è no! Io odio i calmi, i tranquilli, i “posati”, quelli che fanno le cose al rallentatore, gli uomini-moviola, i bradipi umani, i diesel del lavoro e del sesso, eccetera. Io sono un velocista, e penso, lavoro, mangio, corro, leggo, fotto sempre in fretta. Ma solo agendo così ho tempo per tutte queste cose nell’arco di una giornata! Per esempio, dopo che ho fatto l’amore, risposto alle mail, letto dieci pagine di un romanzo, corso per una mezz’oretta, il mio amico calmo e posato è ancora ai preliminari… Poi, finalmente, lui inizia a trombare lentamente, dà un’occhiatina alle posizioni del kamasutra, passa al cunnilingus e alla fellatio, torna al classico “missionario”, si gira e si rigira, e alla fine la pompa non gli regge più, e ciascuno deve fare da solo… Gente fallita, non c’è dubbio. Con me, nello stesso lasso di tempo, la sua partner avrebbe già raggiunto il suo bell’orgasmo (si fa per dire), fatto un bel pranzetto e visitato perlomeno una buona metà dell’area archeologica di Villa Adriana.

La calma è la virtù dei forti, dicono. Può darsi. Ma avrei voluto vedere il calmo e forte di turno nella situazione che mi capitò una mattina di tanti anni fa, quando svolgevo le funzioni di Ufficiale d’Anagrafe e di Stato Civile nel Comune di Gerano. Quel giorno, il ragioniere aveva preso un giorno di ferie, e io ero il solo impiegato presente in ufficio. Verso le dieci, dopo aver sbrigato alcune pratiche, vado a prendere la posta (naturalmente in fretta). Fra le tante buste, una, proveniente dal Comune di Tivoli, contiene un atto di nascita. Essendo i genitori del neonato residenti a Gerano, devo trascrivere l’atto nei Registri di nascita del mio Comune, compilare la scheda personale e aggiungere il nominativo alla scheda di famiglia, dare notizia della nascita al Consultorio familiare e alla A.S.L., e infine confermare al Comune di Tivoli l’avvenuta trascrizione. Dopo aver protocollato la posta, inizio a trascrivere l’atto sui Registri. Ho appena scritto due righe quando irrompono in ufficio due persone.

“Armandì”, esordisce il primo, “devo fa’ un atto notorio. Scusa, ma vado de prescia”.

“Ehhh, vado de prescia pure io”, aggiunge l’altro, “me serve uno stato de famiglia”.

Mi sto spostando verso la macchina da scrivere, per stendere la dichiarazione di notorietà, quando squilla il telefono. Mi alzo e vado a rispondere: è un signore che si lamenta perché i vicini di casa hanno steso dei fili per asciugare la biancheria nel cortile condominiale che conduce alle cantine, costringendo la sua signora a fare uno slalom fra lenzuola, calzini, magliette e mutande. Mentre cerco di spiegargli che quello che mi prospetta è chiaramente un problema fra privati, sento la voce della segretaria comunale che reclama la mia presenza nel suo ufficio: “Armando, vieni, è urgente, devi battere una lettera e inviarla immediatamente per fax”.

“Ma segretaria, sto al telefono e qui ho due persone…”

“Santarelli, questa è più urgente! Dì ai signori che aspettino, è un ufficio serio, questo!”

(Meno male che è serio, penso fra me, perché se non fosse serio…)

“Signorsì”, rispondo.

Chiedo scusa a tutti, metto la lettera nel rullo della macchina, ma a quel punto sento un urlo che proviene dalla cornetta del telefono. Ah, il signore è ancora lì: “Signore, mi scusi..”

“Ma che scusa, un cazzo? Ma che educazione è? E chi è quella che starnazzava come un tacchino? La segretaria? Dije che a ’sto paese è ospite, e che pure lei sta a disposizione della gente, domani vengo a parlà cor Sindaco e se nun sta attenta la faccio trasferì in Calabria, in Aspromonte”.

“Magari!”, sussurro, poi gli chiedo di capire la situazione, e di ritelefonare fra una mezz’oretta.

“Pe’ stavorta passi, la prossima te sistemo pure a te, va bene?”.

“Va bene…”

Tornato alla macchina da scrivere, inizio a pigiare i tasti con la velocità del campione mondiale di dattilografia, col solo risultato che sembra che stia scrivendo in cinese, per quanti sbagli sto facendo… Non sono nemmeno arrivato alla seconda riga, quando la porta della stanza del Sindaco si apre come se fosse stata sospinta da un urugano. Il primo cittadino, coi capelli dritti in testa e gli occhi schizzati di fuori, corre verso di me: “Armando, lascia perdere tutto. Batti questa, è urgentissimo, e poi mandala a questo fax”.

“Sindaco, ma la segretaria…”

Un urlo disumano: “Lasciala perdereeeee! È una viziata! Lo so io che cosa è urgente! Deve sapere che qui comando iooooo!”

I presenti scoppiano a ridere, io non so se ridere o piangere; l’unica cosa che capisco è che se non batto prima la lettera del Sindaco, questi – che è grosso come un orso e incazzato come una iena – mi ridurrà in poltiglia. Quindi, strappo la lettera della Segretaria e inserisco un altro foglio con la carta intestata del Sindaco. Ancora non finisco di scrivere l’indirizzo, e torna a squillare il telefono. Non rispondo, continuo a scrivere come un automa della prima ora, capace di obbedire a un solo comando. Il trillo del telefono, però, non si arresta, e dopo un paio di minuti sento che si apre di scatto un’altra porta: è la segretaria, che chiede polemicamente perché non sto rispondendo al telefono. Gli spiego che il Sindaco mi ha chiesto…

“Il Sindaco non è il padrone del Comuneeeee! Lui fa di testa sua, combina i guai e pretende di spicciarli (disse proprio così) subito, la mia è una lettera is-ti-tu-zio-na-le!”

Proprio in quell’istante entra una terza persona, con delle foto in mano, e incurante di ciò che ha appena sentito, se ne esce: “Armandì, devo rifa’ la carta d’identità. È urgente, m’hanno detto che me la devi fa’ oggi, sennò nun posso riscote”.

Ti farei riscuotere io un fracco di bastonate, penso io, gliel’avevo detto cento volte che la sua Carta d’Identità era scaduta e che doveva rifarla!

La segretaria non molla, si apposta alle mie spalle per vedere che cosa intendo fare. Non ho tempo di rifletterci, perché l’uragano soffia di nuovo, e il Sindaco, con gli occhi di bragia di Caron Dimonio, mi chiede se ho finito di battere la lettera.

“Sindaco”, intima la segretaria, “la mia è altrettanto urgente, e io gliel’ho data prima di lei”.

Nell’imbarazzo e nell’immobilità assoluta dei presenti, il Sindaco, anziché fare il cavaliere, serra la mano, e mostra il pugno alla segretaria: “Mo se nun te ne vai…”.

Lei, per niente intimorita, batte un tacco, militaresca quanto il suo rivale: “No, non me ne vado per niente”.

Creeek. La porta dell’ufficio si apre di nuovo, penso che sia un altro caso di urgenza, e mormoro: “Venghino, venghino”. Ma quando sento “Buongiorno a tutti”, mi mordo la lingua: è il comandante della Stazione dei Carabinieri, che come se recitasse l’orazione di Antonio ai funerali di Cesare, erompe in modo solenne: “Caro il mio Santarelli, perché lei non risponde alle chiamate telefoniche dell’utenza? Mi dicono che stanno telefonando da dieci minuti, e vedo che lei è qui dentro, non è un fantasma”.

“In questo momento lo sono”, ho il coraggio di obiettare.

Lui avvampa: “Santarelli, stia attento a come parla…”

È la segretaria a commuoversi: “Signor maresciallo, Santarelli era impossibilitato a causa delle incombenze improvvise e concomitanti di cui lo abbiamo…”.

Il Sindaco conferma: “Comandante, stavolta è innocente”, espressione che, con quello “stavolta”, equivale ad avermi staccato dalla croce e ad avermici riappiccicato un istante dopo…

Il Comandante increspa le labbra: “Va bene, voglio crederci. Ma la prossima volta lei mi seguirà in Caserma, è chiaro?”.

Mi viene da rispondere: “Limpido, Recoaro!” come una nota pubblicità di quei tempi, ma mi limito ad annuire.

Intanto, ho finito di battere la lettera del Sindaco. Mi sento come se avessi vangato la terra estiva per tre quarti d’ora consecutivi. E infatti, il risultato della dattiloscrittura è degno di uno zappaterra.

Il Sindaco guarda la lettera: “Ma che so’ ’sti geroglifici? Aho’, ma io te mando a puli’ i fossi co’ Peppone, mica Madonne!”.

Mi metto una mano sul fianco: “Scusate, io sono un po’ depresso di natura, c’iò un gran mal di fegato, e stamattina mi sono alzato pure con la cervicale. Se mi lasciate solo, e non mi state tutti addosso con quegli occhi famelici, farò tutto subito. Per favore…”.

“Il Comandante”, dice tronfio l’esponente della Benemerita, “ha capito”. In effetti, il maresciallo gira i tacchi e se ne va; spronati dal suo esempio, anche gli altri, sebbene con evidente riluttanza, si allontanano.

Più calmo (no, non è una contraddizione), ma in fretta, ribatto in pochi minuti la lettera del Sindaco, la sottopongo alla sua firma e la invio per fax. Poi passo alla lettera della segretaria e invio anche questa; subito dopo, chiamo l’utente che è entrato per primo e compiliamo l’atto di notorietà, poi l’altro, al quale consegno lo stato di famiglia. Tocca alla carta d’identità, che preparo al volo perché c’è ancora il Sindaco e può firmarla subito, cosicché posso consegnarla a vista al richiedente. Tempo un’altra oretta e, col cervello e le mani che continuano a bollire, trascrivo l’atto di nascita e completo tutte le operazioni conseguenti. A questo punto, tengo fede alla parola data alle due persone che avevano telefonato e rispondo anche alle loro richieste.

Domanda ai miei gentili lettori: che cosa avrebbe fatto una persona lenta, calma e riflessiva, nella stessa situazione? Risposta: avrebbe fatto incazzare tutti ancora di più e forse avrebbe indotto il Sindaco a mettere in atto i propositi che covava da tempo circa la Segretaria comunale (ovvero scaraventarla fuori dalla finestra); ma soprattutto, avrebbe compiuto si e no metà del lavoro che riuscii a fare prima delle 13,30, ora in cui uscii dal Comune.

Ma da un ufficio pubblico, direte voi, non si esce alle 14? Sì, ma alle 13.30 avevo finito tutto il lavoro, e chiesi mezz’ora di permesso; improvvisamente, i malanni erano scomparsi, e avevo mille cose da fare nel pomeriggio, tutte de prescia, naturalmente…


armando.santarelli@inwind.it