FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 41
gennaio/marzo 2016

Calma & Fretta

 

SALITA AL GRAN SASSO

di Francesco Dalessandro



più che di mete precise abbiamo bisogno di una visione.
Emile Cioran

I

Non è un’ora che ci siamo lasciati
alle spalle stazione e funivia
e risalita erba e sassi un’erta dolce
col viatico amaro
di uno sguardo nell’anima, dolente
di rinuncia (non fermarmi
non volermi impedire l’ascesa
lascia che m’allontani
da te nell’azzurro mattino
per il tempo
necessario all’impresa forse
al folle ultimo guizzo di un illuso
desiderio non darti
troppa pena se mi volgo
e ti volgi
con lo sguardo se raggiunto
il sentiero a mezza costa già m’inoltro
nell’ombra e sparito alla vista
sarò perso per te sarò lontano
se dubitoso seguo
un altro cammino lasciando-
mi dietro amore e
sconforto
) mentre nasce
l’ansia nascono insieme
queste parole mai
mai prima dette, forse per
immatura volontà o cecità
del sentimento forse
per preservare al bene di una lenta
maturazione il giovane
fuoco della poesia se dilezione
di sere e mattini affannati
ritrovavo nel respiro
di un verso anche a danno
di chi corpo
e ombra di chi sangue
era per i versi di chi indocile
ma quieta
e fiduciosa m’era accanto – con ferita
ma decisa volontà m’incammino
sul lato aperto del monte –
in alto greggi
di bianchissimi cirri migranti verso il Corno
Grande in basso un altro gregge
brucando un’erba
morsa appena dalla lunga siccità
solitario s’arrampica spingendo-
si a quest’altezza – dove un passo
segue l’altro nella polvere bianca
del sentiero riparo non c’è
al vento non c’è
al sole, in silenzio salendo scalini
naturali di roccia e scisti calcarei.

A metà del crinale ci siamo fermati
a riprendere fiato quando le fuggenti
nubi il sole ci nascondono già alto
sul Rifugio, invisibile alle nostre
spalle.
Come uno di noi
già volge indietro il piede perché arreso
e prende la via del ritorno
così io da qui
riprendo la salita: peso d’anni
e altre pene rallentano il passo
rompono il fiato ma
una ferma intenzione mi spinge
nel cavo mattino
mentre un sole
mite, se mitigato
dal vento che a queste altitudini
spazza i lunghi piani le pendici
aspre e lama temprata fende ombrosi
dirupi, si leva sulle spoglie
e arse cime su noi sul mio fardello
inquieto di pensieri.
Coraggio, mi dico, perché un’altra
breve sosta ci attende sull’orlo
del crinale che strapiomba: guarderemo
il sentiero percorso, breve tratto
dove lento e più cauto
è il nostro passo,
a sinistra la strada che sale
fino al “Duca degli Abruzzi” e di fronte
una valle dove l’erba
è puro smeraldo, così tersa e pulita
è l’aria nel già tardo
mattino nel cuore del giorno.


II

Per strada ci raggiungono più esperti
più attrezzati scalatori con lo zaino
sulle spalle scarponi da montagna
passo fermo e sicuro sugli appoggi,
anche giovani ragazzi
di città ma allenati a escursioni
come questa, salutandoci. Li
lasciamo passare, ammirandone prestanza
e volontà li vediamo allontanarsi,
i miei compagni già
ne seguono le orme, io li seguo
con lo sguardo invidiandone l’allegra
gioventù: la mia persa ora è solo
un pulviscolo d’oro in un raggio
di luce. Vibrazione silenziosa
come un fresco miracolo fiorisce
negli occhi della mente un
ricordo: stanze piene
di musica, due coppie
in due angoli strette ballando uno di quei
balli lenti degli anni sessanta
nell’ombra della sera e della stanza
si spendono spiccioli di caste
tenerezze consumano il tempo
gustandone il dolce e l’amaro equamente
divisi, ugualmente
ignare della colpa del futuro
che le aspetta e le attira
nel buio, separate. Era la prima
lunga estate di vacanze
in cui timidi e teneri amori clandestini
e smaliziati amori
m’avrebbero insegnato che cuore
e sangue si perdono insieme
che memoria e dolore sono chiodi della stessa
croce vizi inguaribili eterni privilegi,
se una precoce vocazione
al teatro del mondo ne accende
il desiderio, solo
per sofferenza indivisibili solo
per amore difendibili… Perché
la strada va nel verde di un’erba
maculata di sassi verso l’alto
di più intenso verde
in basso, perché più leggero
e più sciolto è il cammino così strani
pensieri fioriscono nell’anima
affiorando dal tempo. Ma il caro
peso di una vaga
nostalgia, malinconico peso sulle curve
spalle, affanna il mio passo
quando giunti
alla ripida rupe anche gli altri
rallentano e si fanno
più accorti: pareti di roccia
qui incombono. Discosti
e separati affrontiamo
la scoscesa pietraia iniziamo
la salita: spesso il piede
sdrucciola e perde appoggio trascinandoci
in basso. Ora il sole, nonostante
vento di tramontana a quest’altezza
più freddo, si fa
sentire spezza il ritmo
dei passi e li ritarda ma dietro
un grigio sperone di roccia
coronato d’erba cruda miserella un meno
aspro sentiero continua a salire –
forse ultimo tratto per la vetta
dove nubi leggere
e sparse si addensano e sciolgono
in dolce alternanza perdendosi svanendo
nell’azzurro feroce di metà
mattina negli occhi feriti di chi levi
lo sguardo al cielo sedendo su erba
o roccia grigia riprendendo fiato.


III

Ma tu altrove mio sguardo, sorpreso
il cuore da un severo ammonimento
da un dolce abbandono mentre stanco
mi riposo, tu volgiti e guarda
lontano al celeste orizzonte
dove in lunga colorata carovana
forse gli anni vedrai
smarrirsi e svanire come quelle
nuvole passeggere, guarda indietro
alla valle ondulata alla valle
inviolata e serena, alla serena adolescenza
quando acqua d’amore dissetava
il desiderio rinfrescava le prime
sane voglie e speranze non deluse
dall’attesa invitavano al sogno
di un incerto futuro, alla strada
che discende fino all’altro Rifugio
nel fondovalle fresco e riparato, all’altra
cima la media cima che nasconde
la stazione l’albergo e il piano dove
meno temerari i chiassosi turisti
le piccole famiglie senza alcuna
velleità di arrampicarsi di provare
l’ebbrezza dell’alta montagna distesi
sull’erba prendono il sole, e lei m’aspetta
(cosa pensi che fai mentre un tempo
noioso per te per me rapido scorre
in questo spazio stordito di luce che offre
al cuore, al tuo al mio, l’inebriante
vertigine dell’assenza e della pena
di un distacco doloroso ma breve?
)


IV

Meritato ma breve il riposo. I compagni
già pronti a riprendere il cammino
si sono alzati raccogliendo le poche
cose che ognuno porta, borse e zaini
con acqua e panini imbottiti anche frutta
uva e mele deliziose, ora li vedo
avviarsi decisi affrontare prudenti
l’aspra salita – così anch’io, distolti
gli occhi da loro già lontani alzato
lo sguardo alla vetta che l’inganno
dell’altezza avvicina rincuorando la mia
vacillante volontà, m’incammino
e li seguo: il sentiero è confuso
tra le rocce, qui s’inerpica a fatica
non consente distrazioni, fra i sassi
più radi ciuffi d’erba preannunciano
le creste le alte vette
del Corno Grande.

– Ancora un’ora forse due di cammino
su quella parete (non è una guida
a parlare non c’è guida qui, solo
un esperto escursionista incontrato
a questo punto dell’ascesa: lui che
ridiscende) prendete il sentiero
di sinistra: è più lungo ma è più sicuro –.

Dove andremo se, passato ancora un breve
tempo e quest’ansia lieve suscitata
in noi dall’improvvisa incertezza,
indecisi fra il sentiero che sale –
che sale sinuoso scosceso (dove porta
dove porta?) lungo il fianco
accecato di sole sferzato dal forte
vento in alto dove il cuore più veloce
batterà dove un passo dietro l’altro
anelando affannati la vetta non avremo
mai riposo e ristoro – e il sentiero
conosciuto che discende e ci chiama
al ritorno non sapremo quale strada
è la nostra? È la nostra sconfitta,
perdita amara se avremo
rinunciato per stanchezza o paura
mancandoci il cuore, o riconquista
di un sereno pur se ansioso presente.


V

Nella vampa celeste dell’ora nell’accesa
maestà del mezzogiorno, ma velava
l’estremo orizzonte una tremula foschia
e (a noi) a me sul cuore era disceso
il velame di un doloroso ottundimento,
siamo saliti sul ciglio di una lunga
cresta «abbiamo scattato molte foto»
offrendosi ai nostri occhi che il vento
feriva e faceva lacrimare azzurre valli
specchiate nel cristallo dell’aria e silenziose
vette, pallidi cirri ne sfioravano fuggendo
il volto, e distanti paesi mollemente
distesi al sole come paglia a seccare
«poi siamo discesi in uno spiazzo
roccioso al riparo dal vento e lì abbiamo
mangiato, riposando». Una stanchezza
aspra e dolce ora stordiva ogni nostra
volontà mentre altri risoluti scalatori
a gruppi a coppie taciturni in fila
indiana con solerte andatura
affrontavano la nuova parete o loquaci
ne scendevano tornando
in basso, perdendosi agli occhi. Perché
una pena nostalgica s’era risvegliata
in me un’ansia sottile cresceva
come fiamma nell’anima, volgendosi
ai ricordi ai rimorsi ai persi ardori
la mente, oro e rame del tempo passato
e del presente disincanto. Non era
il sole a turbare il riposo né il vento
a piagare le labbra spalmate di burro
di cacao ma era l’ozio cui tutte
le membra già con tenero abbandono
lentamente cedevano era l’ansia
ora inquieta a torturare il cuore sazio
di troppa libertà e solitudine di tutta
quella luce, era il cuore assediato
dal rimorso... «Non c’era più tempo
per salire per raggiungere la vetta,
era tempo di tornare bisognava
ridiscendere a valle», così volti
i nostri passi all’indietro prendemmo
la via del ritorno.


VI

Sole e nuvole resistono, ma il vento
l’uno tempera e le altre
sospinge a occidente, quando giunti
a metà strada su quel colle
dove l’erba si riaffaccia fra le rocce
sulla terra dove le arse folate
non alzano polvere, lasciamo
che l’indugio rallenti la marcia
che aria e luce dispensino ai cuori
nell’ora meridiana solitudine
e pace agli occhi la visione
di un verde doloroso, lasciamo
che il tempo si perda nella posa
e nel sorriso se l’occhio
della macchina fisserà i nostri volti
in un’istantanea ma eterna
incoscienza poi che persi
di quell’attimo i nostri pensieri
dopo mesi anni o giorni guardando
le già vecchie
immagini di noi noi non sapremo
più chi eravamo chi saremo siamo...

Affrettiamoci adesso, affrettiamoci! Il tempo
vola via sul sentiero sonoro e sulle smosse
pietre dove con fatica salimmo
e ora a balzi a salti scendiamo
scivoliamo, fino a valle fino al piano
che regola il passo, giù dove
giovani falchi bruni solitari (come
noi) dai picchi più alti si lanciano
unendosi in coppie in saltuari
stormi a volo sui verdi declivi
o planando indolenti si posano. Se ora
faccio io l’andatura, è il mio cuore
ansioso che regola il passo che guida
con premura la marcia ma, caduto
il vento, è una plaga biancazzurra
battuta dal sole la gola dove nicchie
e gradini senza spalti richiedono piede
fermo e prudenza sull’orlo del dirupo
del capogiro, al precipite sguardo.
Erba non c’è più che accompagni
la marcia e rassereni il nostro passo
che illuda di fresco l’arsura ma solo
arsa roccia con riverberi di sole,
solo polvere a soffi che mulina
e ci acceca. Procede con prudenza
benché il desiderio la incalzi anche la
ragione: non l’offuscano memoria
e volontà né l’inerte ricordo di amori
delusi né slanci di morte se gli alterni
anni persi strinati dal gelo ancora
dolgono. Così, se virata la punta
della cresta la stazione dietro l’ansa
del monte ci riappare in una piena
di luce e d’azzurro straripanti il mio
miope sguardo già ti cerca (dove sei?
eccomi torno a te per non lasciarti
più). Ma altra strada altra polvere
ci separano ancora e l’ora spietata
strema il passo che verso te mi porta
e incalzato dall’ansia dolorante di rimorso
arranca e scende dure selle di roccia
spaccata scalini di calcare spezzato,
scalea senza fine. Sole e vento
colano bronzo nel vuoto fra assenza
e attesa del tuo tempo, in me nutrono
il sangue ne accrescono i battiti
affannando il respiro nell’ansito
stanco del sentiero, finché l’ultimo
gradino apre ai piedi il declivo
agli occhi inquieti albergo e funivia.



La silloge è inedita.



(Foto di Dino Ignani)


fdalessandro48@gmail.com