FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 40
ottobre/dicembre 2015

Forza & Debolezza

 

SOTTO LA NEVE, IN NESSUNA DIREZIONE
Sull’ultimo libro di racconti di Domenico Vuoto

di Francesco Tarquini



Se si volesse ritagliare, all’interno di quella Roma periferica stretta tra il quartiere di Primavalle e la Pineta Sacchetti, la mappa dei luoghi in cui si svolgono le vicende narrate in Nessuna direzione – il più recente libro di racconti di Domenico Vuoto (Il Labirinto, 2014) –, ci si troverebbe di fronte a uno spazio assai esiguo. Poche migliaia di metri quadrati in un territorio anonimo.
In questo ristretto spazio e in una stessa notte si svolgono tre storie, i cui personaggi, pur estranei l’uno all’altro, vivono vicende analoghe nel loro avventurarsi sotto la neve che cade incessante sul loro microcosmo come su tutta la città. Una nevicata eccezionalmente fitta, intensa e prolungata, in cui quelle poche strade intrecciate o convergenti si dilatano a dismisura, fino a coincidere con il mondo, di cui si smarriscono le dimensioni: “Dove siamo? Dove sono più le linee e i confini nei quali ci si riconosceva in questa zona a nord ovest di Roma? Qui e in altri quartieri della città e oltre, oltre ancora, sotto una neve mai così fitta e ostinata, il mondo sembra dissolversi.”

La neve che “rende la terra uniforme, cancella i passaggi”, che rende le strade tutte eguali, via Marconi, Montiglio, Battistini, Maffi, percorsi che si intrecciano da un racconto all’altro, persone che percorrono da una storia all’altra le stesse strade, Pineta Sacchetti, Donati, Zenatello… Una volontà ostinata dell’autore di continuare a definire lo spazio, di insistere nel nominarlo e delimitarlo con un puntuale riferimento alle strade: come per sottrarlo alla neve implacabile che livella ogni cosa e inghiotte al tempo stesso spazio e vite, le vite di quelli che nello spazio innevato escono col rischio di perdervisi.

Sono piccole vite: “forme d’ombra”, per citare lo stesso Vuoto da un suo libro di aforismi. Vanno sotto la neve. Dentro la neve. Andare nella neve come un viaggio senza meta attraverso la vacuità della propria vita, attraverso la sua mancanza di direzione. Le storie si dilatano oltre i loro stessi confini, rivestendo il senso di altrettanti capitoli di una non riscattabile storia umana.
Nessuna direzione, appunto. Il titolo dice di un destino che si declina lungo i tre racconti che compongono questo libro, come i tre atti di un dramma; o i tre tempi di una sonata.

Nel primo racconto, “Bianco su bianco”, si annuncia e comincia a svilupparsi il tema della neve: “Fiocchi vorticano in danze scomposte sobillati dal vento”; e si intreccia a quello della solitudine e della morte nella vicenda di una anziana donna che si avventura di notte nel parco per seppellirvi il proprio gatto, ultimo affetto della sua vita; e qui cade nella neve senza riuscire a rialzarsi, continuando a lanciare invocazioni d’aiuto alle quali spera che un’altra voce risponda.

Nel secondo, “La prima volta”, il tema cresce nel suo aspetto di ingannevole magia e si fa al tempo stesso più denso e minaccioso, nel contrappunto fra due storie incrociate. Quella di una ragazza poco più che adolescente, che si dibatte per sottrarsi alla volgarità dei genitori interessati soltanto ai vantaggi del loro status sociale; e quella di un uomo di mezza età, deluso e incerto, incapace di cogliere la tacita richiesta di comprensione da parte di lei, la sua timida quanto aggressiva ricerca d’affetto. Viene accennato appena, come un’attesa subito tradita, il tema dell’incontro. “Avrebbe voluto chiederle di accompagnarla, si rese conto che sarebbe stata una forzatura. Quella della ragazza, pensò, era più di una camminata, era una storia dalla quale lui era escluso. Si limitò a raccomandarle di non attardarsi sotto la neve.”

Nel terzo racconto infine, “Notte di gloria”, si conclude la tragica sonata. I temi si stringono tra loro, e si fondono. Una giovane coppia in un giardino pubblico. Due bottiglie di birra. Un rapporto logoro, trascinato per incapacità di chiuderlo. La reciproca ostilità che si rivela. Un vagabondo straniero. Perfetto capro espiatorio. La neve si macchia di sangue. Alla protagonista femminile è affidato il compito di dichiarare, in un sussurro, il senso profondo del libro: “Il mondo le sembrò muto, e il buio l’avvolgeva tutto. Tornò ancora con la mente all’uomo, si chiese dove fosse diretto. Lei stessa non aveva una direzione… Nessuno magari sulla terra aveva una direzione.” Non c’è altra risposta se non quella implicita nella pietà della scrittura: nessuna risposta.

La nevicata che soffoca e seppellisce la città, prima ancora di costituire un efficacissimo ricorso narrativo, sembra a me infatti il nemico oscuro contro il quale il narratore si batte, immerso anch’egli nella disumanità di quel candore impassibile. Il nemico al quale è costretto a cedere: e di fronte al quale può soltanto scrivere. Strappare i suoi personaggi alla loro realtà di stereotipi, farne piccoli testimoni dell’inconsapevolezza proprio mentre di questa restano vittime. Non è la loro pochezza a renderli protagonisti, nell’intenzione di Vuoto, bensì il loro essere vittime di un destino collettivo. Lo scrittore è chiamato a narrare proprio quelle storie, quelle prove di destino: e lo fa con i suoi mezzi, i soli che possieda contro quella neve: una forma ricca, complessa, marcata da continui slittamenti dei tempi verbali, dal presente al passato remoto e viceversa, quasi a istituire un tempo tutto e solo interiore; dalla fusione, realizzata con naturalezza, di stile alto e colloquialità; dal fluido passaggio da prima a terza persona e dalla pratica esperta del discorso indiretto libero e del monologo interiore.

Nella messa a punto della forma-racconto, la distanza imprescindibile della scrittura viene qui a intrecciarsi in modo altrettanto imprescindibile a una forma della compassione; che si rivela come il dato etico più maturo, doloroso e profondo della narrativa di Domenico Vuoto. Mentre lo scrittore raggiunge i suoi personaggi, sembra di udire una domanda, appena suggerita: se c’è un inferno, dove se non qui?


Domenico Vuoto, Nessuna direzione, Il Labirinto, 2014, pagg. 80, euro 12.




Domenico Vuoto
è nato nel 1941 in Calabria. Nel 1960 si è trasferito a Roma, dove si è laureato in Lettere. Ha insegnato materie letterarie in un ginnasio romano fino al giugno del 2005. Dal 1970 ha iniziato a scrivere racconti e aforismi, collaborando contemporaneamente, per alcuni anni, ai programmi radiofonici della Terza rete. Suoi racconti e saggi sono usciti in antologie e riviste, come «Paragone» e «Arsenale», di quest’ultima è stato redattore dal 1985 al 1987.
È autore dei libri: Storie innaturali (volume miscellaneo di racconti e prose aforistiche, accompagnato con disegni di Enrico Pulsoni); L’altro sguardo (sei racconti con disegni di Giulia Napoleone); Il libro dei turbamenti (Manni, 2005); Pensieri di passo (Il Labirinto, 2010); Variazioni sul noto sentimento (Palomar, 2010); Nessuna direzione (Il Labirinto, 2014).


tarquini.francesco@fastwebnet.it