FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 32
ottobre/dicembre 2013

Geometrie

 

RACCONTARE LA BELVA D'OCCIDENTE
Sul libro di racconti di Alessio Brandolini Un bosco nel muro

di Marco Testi



I.

Un bosco nel muro, nuova silloge di racconti di Alessio Brandolini, segue di tre anni le poesie di Il fiume nel mare. Quella del racconto è una dimensione congeniale all’autore: la sua prosa è costituita da susseguirsi di momenti o di stati mentali, apparentemente priva di increspature, tesa alla mimesi, in grado di metterci di fronte un universo autonomo in cui regna sovrana la casualità. Nessuna spiegazione, nessuna sonda delegata al narratore onnisciente, nessun intervento altro rispetto al mondo narrato, che diviene, come avrebbe desiderato Flaubert, altro dal mondo psichico e fisico dell’autore empirico. Si tratta perciò di una scrittura avente come punto di riferimento l’accadimento puro, il che significherebbe tutto e niente, se non si chiarisce che il puro accadimento trascina l’universo narrato in una nuova vita, fatta di azioni come di profondità psichiche: in caso contrario si avrebbe un mondo narrato fatto di automi senza profondità interiore, se non quella che potrebbe inferire il lettore.
Da questo punto di vista, Brandolini costruisce un mondo tridimensionale, in grado cioè di motivare la propria esistenza in quanto ancorato a fisicità e psichicità. La sua sonda appare impassibile, perché le creature narrate vengono lasciate agire senza commento: in realtà, talvolta il creatore le perde di vista, o partecipa alle loro aporie e alle loro perplessità. Lascia trapelare il loro punto di vista, ma si rifiuta di offrire un punto di fuga, perché quella soluzione significherebbe la fine dei dubbi, delle incertezze e della loro medesima vita. Può solo narrare il punto di vista di qualcuno di loro, rifiutandosi di far pesare il piombo della letterarietà.
Le creature nascono con le incertezze umane, non hanno soluzioni, guardano l’orizzonte metropolitano con gli occhi aperti e nello stesso tempo annebbiati dalla foschia di un lontano dubbio, disturbati dal frusciare di un sospetto che non giunge alla coscienza. Finchè non sbattono direttamente contro l’indicibile, il non comprensibile, l’inspiegabile. Ma anche qui rivelano la completa autonomia prospettica dal loro creatore che nel frattempo le ha lasciate libere di pensare o non pensare ciò che credono.


II.

La forza di questa narrazione è quella di conferire dignità a tutto ciò che non si condivide o che è distante dal bagaglio culturale e ideologico latu sensu dell’autore. Ad esempio quando la scrittura penetra zone psichiche interdette e non praticate in genere dalla narrativa impegnata e vicina al pensiero egemone dell’intellighentzia contemporanea, in parte tributaria delle conquiste razionali compiute dal Settecento in poi, e che in realtà vengono da più lontano. La sua ricognizione è di tipo assai diverso da quella vulgata, basata – si potrebbe talvolta aggiungere attardata – sulle ricognizioni freudiane fatte proprie da tutta una dimensione socio-culturale che vedeva quella esperienza come fondamentale per capire il mondo. Brandolini con Il bosco nel muro va oltre alcune sue conquiste territoriali, sia detto in senso narrativo, come quella di Fumo a Pazza dei Mirti, presente nella raccolta di racconti di più autori Roma per le strade (Azimut, 2007).
In quel racconto l’autore coglieva la dimensione mimetica della narrativa e la faceva completamente sua. Per mimesi si intenda non una acribica descrizione naturalistica ma la penetrazione nella psiche del personaggio, senza interventi didascalici. Un bel successo, per un narratore, non c’è dubbio. Ma con questa nuova prova, lo scrittore va oltre. Affronta l’esistenza dalla parte delle radici, dell’accadimento puro, senza commenti implicanti il giudizio autoriale. Non solo: non teme il giudizio tranchant di una parte della classe dei colti che potrebbe incolparlo di lesa maestà razionale e deterministica, intraprendendo sentieri non leciti per alcuni sedicenti portatori della ratio d’occidente. I quali non capiscono che il sentiero oscuro potrebbe essere intrapreso anche con la precaria, ma questo abbiamo, luce della ragione. Luce che oltre alla precarietà possiede anche la caratteristica della limitatezza. Si dovrebbero accettare fino in fondo le indicazioni della cultura scientifica, ed anche artistica, formatasi dal primo ventennio del Novecento in poi, che ha sottolineato la difficoltà ad offrire punti di riferimento validi una volta per tutte, Heisenberg in primis.


III.

Ma torniamo alla scrittura, e partiamo dal punto di vista narrativo: dai racconti di Brandolini ne emerge con forza uno in particolare, e non potrebbe non essere così, visto che ogni atto è di per sé espressione prospettica, anche se questo è volutamente sterilizzato da ogni sovraccarico ideologico ed esegetico.
Abbiamo già detto della capacità dello scrittore di arrivare al puro e semplice accadimento, attraverso lo sprofondamento nella mente – e non solo nella mente – del personaggio, senza commenti o interpretazioni. In alcuni casi questo radicamento della scrittura nel semplice essere va a pescare il non interpretabile, ciò che siamo stati riabituati, dopo il tentativo del suo recupero in chiave terapeutica, a guardare come altro, se non come – di nuovo – patologico. Ma che ha sicuramente più dimensioni e più universi di senso di quanto noi possiamo supporre.
La follia o presunta tale di alcuni meandri affrontati da Brandolini non è mai nominata: «Allora cerco il male nei buchi della carne, entro con le dita e strappo. Lo immagino come un folletto. Lo tiro fuori per le orecchie, è ripugnante, ma prima di farlo a pezzi ci parlo, lo prendo in giro così da alleviare la solitudine». È la presa diretta dell’abisso, suggerito con le parole d’occidente che probabilmente, non essendo preparate a dirlo, lo hanno esorcizzato con la lingua dell’indagine (pseudo)scientifica. Una lingua che rivela giorno dopo giorno tutta la sua incapacità a entrare in quella che chiamiamo realtà. E che invece resta pensiero, orizzonte mentale affidato a codici e traduzioni incapaci di rivelazione, anzi, per alcuni essi stessi causa del male di vivere post-montaliano.
La scrittura di Brandolini sembra, non so quanto coscientemente, prendere le distanze dai tentativi e dai dogmi razionalistici e deterministici. Lo fa nel modo apparentemente più scontato, registrando inclementemente i movimenti che affiorano sulla superficie: la solitudine, assunta a livelli non unicamente metropolitani, ma ontologici, in quanto minaccia la condizione umana con i suoi tentacoli; l’indifferenza dell’universo, che sembra contaminare ciò che ci attenderemmo non essere cosa: il pensiero, l’amore, gli affetti; atteggiamento che ha un ascendente colto, uno dei tanti, in Leopardi, ma che proviene dai rami sensisti e libertini che guardavano impietrati alla fascinazione della materia pura; lo sguardo del poeta qui investe anche i nuovi confini, segnati da una diversa configurazione della vecchiaia o della dipendenza: sono legati al discorso della compagnia straniera e “venale”, che assume lentamente potenzialità inaspettate: ha una dimensione anceps, di dipendenza ma anche – per opposizione – di nuova forma di affettività; il fenomeno dell’immigrazione, al centro delle inquietudini di un occidente apparentemente contrassegnato da un ordine mai realmente esistito, propone nuovi scenari per i rapporti che si vengono a creare, alcuni fondati sull’interesse, altri su elementi di più profonda natura.
I nuovi orizzonti, racconta Brandolini, non sono necessariamente apocalittici, perché alcune solitudini una volta “incurabili” ora sembrano avere una soluzione: «Quando la domenica pomeriggio ce ne andiamo a Villa Celimontana lei mi sta accanto, spalla a spalla e ogni tanto sussurra delle frasi, nel suo italiano povero e stentato. Ci teniamo per mano e ce stiamo calmi e sicuri: due fragili rocce che si scaldano al sole».
La capacità di raccontare gli elementi della vita quotidiana, senza smembrarli in una scepsi che li devitalizzerebbe, e nel contempo senza riassumerli in una semplificazione ideologica, è tipica di Brandolini: i suoi personaggi sono sonde profonde, mute e a tutta prima inerti, dei movimenti e delle staticità, della incomprensibilità inenarrabile dell’esistenza.


IV.

L’altrove psichico è il terreno di questa narrativa, che talvolta allunga talmente il suo raggio visivo da cogliere movimenti fuori dal suo campo, come in un racconto che riassume in qualche modo le aporie razionali e l’incapacità di comprensione profonda dell’essere, L’intruso. Ciò che noi chiamiamo depressione è un motivo assai ricorrente in questi racconti, ma qui Brandolini naviga in territori non attraversabili dalla logica post-settecentesca o dalle pretese (para)scientifiche dell’analisi psichica. Una donna si getta dalla finestra dopo aver evidenziato un male che per un testimone del suo-nostro tempo ha un nome. Questo nome è in genere depressione, o solitudine, paura, incapacità di affrontare la vita, panico, paranoia. Nomi che vanno bene per chi vuole spiegare secondo l’ottica di una modernità che non ha risolto i problemi che proclamava ai quattro venti di poter affrontare in un futuro fatto di magnifiche e progressive sorti. In questo racconto si entra in un altro orizzonte percettivo. Un orizzonte dove affiorano visitatori non benevoli. Chiamiamoli come vogliamo: Altro, proiezione, delirio. Mentre ci affanniamo a trovare i termini opportuni, la voce narrativa che affiora in questo racconto ci spiazza, perché comunque si veda il problema, essa dice altro, un altro radicalmente estraneo all’acribia nominalistica neo-positivistica.
Il narratore dentro la storia ha un sussulto quando parla per l’ultima volta con l’amica. Perché intravede qualcosa che viene da lontano, forse da altrove, e che nonostante i quintali di nomi appiccicatigli, resta sempre lì acquattata e pronta a saltare. La belva primigenia, forse, a sentire gli archeologi della mente, o il nemico del titolo, l’avversario biblico, e non solo biblico, emerge dal sottofondo tellurico prima celato – ora non più – dallo sguardo: «Le sorrisi e nel suo sguardo mi sembrò di vedere una belva che mi osservava: i suoi occhi infiammati mi urlarono di togliermi di mezzo, di lasciare Carla ai suoi artigli».
Per chi conosce la ratio lucida della visione del mondo dell’autore, la sua fiducia nei giorni e nelle opere dell’uomo, la sorpresa è un moto comprensibile. È come, e talvolta accade, se il narratore si facesse trasportare dalla fascinazione medusea della storia raccontata. Qui la scrittura non abbandona il grado zero della denotazione, ma allarga i suoi confini, si pone dalla parte dell’osservatore dentro la storia. Non nel senso verista del porre l’intellettuale dalla parte dei soggetti della storia lasciando distinti i due piani, sebbene lasciando da parte il faro ideologico che orienta il punto di vista della narrazione per cedere alle sirene del radicalmente altro.
La narrazione qui giunge in zone poste fuori dalle rotte più frequentate, e si spinge verso profondità che nascondono insidie e contraddizioni: dopo la lettura di questo racconto ci si torna a chiedere se il narratore deve tenere ferma la propria identità, se pure ne esiste una dopo Pirandello, o se non deve invece avere il coraggio di cedere all’abbandono del sé raziocinante (mica sarebbe una novità, dopo le esperienze di Rimbaud, Campana, Conrad, e Gauguin, se si vuole uscire fuori dalla letteratura) per affidarsi, pagando pegni non sempre gestibili, ad un altro e talvolta opposto punto di vista.
Il merito peculiare di Brandolini è di essere riuscito a creare un impossibile grado zero della narrazione, tale da far emergere questa contraddizione post-illuministica (molti degli umanisti, per dirne una, si erano convinti, sulla scorta di Platone, delle diverse possibilità di lettura di quella che chiamiamo realtà, oltre a quella aristotelica) capace di far emergere la grande aporia d’occidente in tutta la sua dolente ambiguità.
La narrazione è completamente assorbita da un altro che non la voce delegata dallo statuto della scrittura; questa transizione inquietante si è innescata senza nessuna mediazione linguistica, senza l’uso di parole che in qualche modo esplicitassero il transfert. Qui assistiamo ad una presenza altra, non più gestibile narrativamente con il linguaggio vulgato dalla terapia analitica o dalla psicologia. «Mi spaventai. Quel fuoco era un blocco di ghiaccio indecifrabile». La voce del narratore – preteso portavoce dell’autore – sparisce per lasciare il posto non solo ad un’altra enunciazione, ma ad un altro punto di vista, senza più alcuna mediazione.
La voce narrata si è sovrapposta a quella del narratore, spostando in questo modo più in là la frontiera finora riconosciuta del racconto, quella in cui ogni enunciazione restava delegata a campi semantici precisi i cui legami se mai erano tenuti fermi – e anche distinti – dal canonico come alla base della retorica classica. La metafora narrativa è arrivata qui al suo punto limite. Il narrato ha preso il posto del narratore, la voce narrante altra, quella che avrebbe dovuto essere parte della strategia della finzione consapevole, di un universo di secondo grado, si è insediata al posto della prima ed enuncia come prima fonte di significato. Una donna è terrorizzata dall’emersione improvvisa di un altro che non può essere nominato se non con la strategia retorica della belva nascosta nell’essere, ma quella parola, l’altro, è ancora più significante della fiera dantesca, che pure rimandava anch’essa alle radici elementari dell’esistere qui e ora.


V.

Anche altri racconti qui presenti rivelano questo tentativo di rovesciamento prospettico a favore (narrativamente parlando, ça va sans dire) del non detto e del non dicibile, soprattutto. La brutalità che parla in prima persona in L’amore che rotola, ad esempio, non conosce mediazione, non è presentata né rivelata, ma detta con le parole medesime del protagonista, senza le mediazioni narrative canoniche: «Se ti strangolo è per farti un favore». Follia? I termini per rivelarla non fanno parte dello statuto critico, se ancora così lo vogliamo chiamare, che qui dovrebbe operare. Se mai siamo assai vicini, mutatis mutandis, ad alcuni tentativi di sondare l’assolutamente altro presente nell’uomo di Tommaso Landolfi, soprattutto in un racconto, La muta, che non offre nessuna spiegazione. Presenta l’evento così come avviene.
Come quelli landolfiani, anche questi racconti tentano di esplorare senza mappe euclidee zone interdette all’esclusivo uso di una ragione illuministica. Operano allusioni che pochi hanno fatto, molti tra l’altro in odore d’eresia e di zolfo, come lo Xavier de Maistre che parla nel Viaggio attorno alla mia camera della “mia bestia”, “l’altro”, la quale bestia, sempre secondo il fratello del più inquietantemente noto Joseph, «sa fare il caffè a meraviglia, e molto spesso se lo beve pure, senza che se ne impicci la mia anima». E, detto tra noi, facendo probabilmente da riferimento a “l’animale” di Battiato, in cui l’altro dentro «si prende tutto, anche il caffè». De Maistre, prima di Freud e di Dostoevskij, era riuscito a mettere la bestia a distanza di sicurezza da sé, narrandola ed esorcizzandola anche attraverso il ricorso all’amuleto per eccellenza d’occidente, il pensiero della donna amata.
Ma anche il tòpos occidentale del viaggio viene qui ripreso in un momento in cui il viaggio reale è invertito, da sud verso nord, da oriente verso occidente. Nel racconto Un pozzo nel deserto, un europeo decide di restare in un poverissimo villaggio africano, destando la meraviglia di tutti, perché «di solito sono loro che fuggono in Europa», mentre l’uomo ha chiaro il suo scopo, che è quello di abbandonare l’inutilità e il tedio della civiltà (fatta di malato ingurgitamento di scarti e di un materialismo celato e rinominato). «Ho viaggiato in senso inverso: dal nord al sud, ma non sono il primo» confessa l’uomo, sigillando questa sorta di messaggio in bottiglia di chi è davvero scampato alla morte, quella della dignità umana in una pòlis tradìta e trasformata in metropoli apparentemente democratica, ma in balìa delle pulsioni meno nobili, a tutti i livelli.
I leoni – quelli della psiche – non sono più qui, sembra dire l’uomo che narra, come tanti, la sua fuga nel sud del mondo: si sono trasformati in incubi senza nome, penetrando nel crepuscolo di valori che si auto-ritenevano superiori.


Alessio Brandolini, Un bosco nel muro, Empirìa, 2013, pagg. 141, euro 15.

 


Un pozzo nel deserto


I cavalli selvaggi filano spediti verso l’oasi, la pozza d’acqua che da qui dista pochi chilometri. Il sole picchia sulle groppe, il vento modella le dune, le trasforma in continuazione. La sterpaglia ondeggia lievemente: più spine che foglie e i pochi alberi sono sguarnite sentinelle. Il rumore degli zoccoli è così intenso che sembra provenire da più direzioni: dai quattro punti cardinali, dal cielo e dalla profondità della Terra. L’agile corsa ha il ritmo di tamburi suonati da mani esperte. Code e criniere sono bandiere, i muscoli delle zampe potenti stantuffi.

Da quattro giorni, con un pesante zaino sulle spalle, in solitaria esplorazione. Ho cibo in scatola e due borracce d’acqua. La testa protetta dal cappello dalle larghe falde e voglia di camminare nel deserto. Ho sete ma l’acqua non la tocco: berrò dopo il tramonto, quando farò un bivacco e dormirò sei ore di seguito.

Ora i cavalli sono lontani, li osservo con il binocolo stando pancia a terra. Ho calcolato il percorso, il consumo delle provviste. Loro sono liberi e veloci, non hanno di questi problemi, sanno dove dirigersi.

Tre giorni e arriverò alla meta: la fattoria costruita l’anno scorso. Lì, dal punto più alto, riesco a vedere sia l’azzurro del Mediterraneo che il giallo dorato della sabbia.

L’Africa mi ha accolto a braccia sconfinate, anche se rinsecchite. Nei suoi tramonti ho scaraventato le menzogne. La gente del villaggio tunisino è rimasta sorpresa quando ho deciso di restare, di costruire una casa e coltivare la terra, di allevare animali. Di solito sono loro che fuggono in Europa, che vengono da noi. Ho viaggiato in senso inverso: dal nord al sud, ma non sono il primo.

Sorrido al ricordo delle facce degli operai quando hanno visto sgorgare l’acqua dal pozzo: hanno chiamato mogli e figli e abbiamo festeggiato insieme.

I cavalli sono distanti, all’orizzonte una nuvola di polvere e nell’aria un odore di selvaggio. Il cuore del deserto è un suono di zoccoli in lontananza.

 


Alessio Brandolini
è nato nel 1958 a Frascati e ha trascorso i suoi primi vent’anni a Monte Còmpatri. Vive a Roma, dove si è laureato in Lettere moderne.
Ha pubblicato le raccolte poetiche: L’alba a piazza Navona (in 7 poeti del Premio Montale, 1992), Divisori orientali (2002, Premio Alfonso Gatto - Opera prima), Poesie della terra (2004, poi anche in spagnolo, Poemas de la tierra), Il male inconsapevole (2005), Mappe colombiane (2007), Tevere in fiamme (2008, Premio Sandro Penna) e Il fiume nel mare (2010, Finalista Premio Camaiore).
Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue e pubblicati su riviste italiane e straniere. Nel 2013 ha pubblicato il libro di racconti Un bosco nel muro (Empirìa).
Traduce dallo spagnolo e dal 2006 coordina Fili d’aquilone, rivista web di “immagini, idee e Poesia”. Nel 2011 ha fondato la casa editrice Edizioni Fili d’Aquilone. A gennaio 2014 uscirà il libro di poesia Nello sguardo del lupo.

testi.marco@alice.it