FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 32
ottobre/dicembre 2013

Geometrie

 

ODISSEA DI UNA SFERA

di Armando Santarelli



Siccome sono una persona istintiva, irrazionale, idealista, sognatrice, inconcludente – insomma uno di quelli che la vita destina a subire continue e meritate delusioni – mi chiedo spesso che cosa sarei stato (probabilmente un fallito totale) senza quel po’ di rigore logico acquisito negli anni trascorsi al Liceo Scientifico e nella Facoltà Universitaria di Giurisprudenza.
Se c’è un barlume di razionalità in ciò che faccio ogni giorno – perché io vorrei dar sempre retta ai miei impulsi, alle mie emozioni – lo devo al fatto che la pratica quotidiana di operazioni matematiche e geometriche, e successivamente il rigore normativo di codici e testi di diritto – mi hanno convinto, alla lunga, della necessità di affidarsi alle scelte che stabiliscono le corrette priorità della nostra esistenza. La vita è una geometria di percorsi – alcuni fatti di linee magnificamente rette, altri resi difficili da curve ardimentose – di cerchi che si aprono e si chiudono, di scale che si salgono e scendono, di triangolazioni umane, sociali e professionali; e il nostro impegno quotidiano consiste nel riconoscere subito queste figure, di delinearle con la maggiore esattezza, in modo da poter optare per un percorso, piuttosto che per un altro.

L’assoluta necessità delle scienze esatte per ogni ambito della vita umana è fuori discussione. Senza la logica matematica non avremmo sviluppato la tecnologia necessaria per costruire le automobili, il telefono, il computer, le apparecchiature mediche che salvano migliaia di vite ogni giorno, i moduli spaziali per andare sulla Luna e su Marte, gli strumenti che ci consentono di prevedere le condizioni meteorologiche. Senza la geometria non avremmo avuto le Piramidi e la civiltà egizia, il Partenone e la sapienza greca, la cupola di San Pietro e l’architettura religiosa. Eppure, a dispetto dell’enorme debito della nostra specie verso la matematica e la geometria, queste scienze non si fanno amare che da pochi; il perché è presto detto. Non sono facili da apprendere, e soprattutto richiedono un’esattezza che non può venir meno in nessuna fase della loro utilizzazione. Come potevo amare la matematica o la geometria quando, dopo che estenuanti operazioni logiche mi avevano portato al risultato finale di un’espressione, o di un problema geometrico, di un’equazione, di un integrale o di una derivata, constatavo con orrore che il risultato finale non era lo stesso cui era arrivato il primo della classe, magari per un più o un meno invertito in qualcuno dei passaggi? Cavolo, mi dicevo, se al tema di italiano, o all’interrogazione di storia, scrivo o dico qualche stupidaggine, questo non inficia il tutto, ed è giusto che una prestazione venga valutata nella sua globalità, e non per un segnetto che va a compromettere ogni cosa!

Adesso, ma è troppo tardi per rimediare, capisco meglio quanto le scienze esatte contribuiscano a migliorarci nella sfera interiore, oltre che in quella puramente intellettiva. Io e mia moglie abbiamo pianto di gioia quando sull’Acropoli di Atene, superati i Propilei, ci siamo trovati dinanzi alla perfetta architettura templare del Partenone. Non era necessario il baedeker che portavamo con noi per comprendere come quella stupefacente bellezza fosse il risultato di scelte geometriche e matematiche effettuate con un’esattezza assoluta, capace di donare agli elementi architettonici un’armonia insuperabile. Le scienze esatte non si limitano a plasmare la nostra mente ad un indispensabile rigore logico e procedurale; non meno dell’arte, della letteratura, della filosofia, ci aiutano ad apprezzare la bellezza del Creato e la grandezza dell’opera umana. Specularmente, alcune delle cose più belle e perfette che ci circondano non sono altro che incredibili e splendide geometrie, che pulsano però di una vita intima e misteriosa, del soffio divino che pervade tutte le creature, anche le più fragili e invisibili. Perché che cosa c’è di più bello e perfetto dell’armoniosa, ineguagliabile trama ricamata dal più abile tessitore della natura, il ragno? O dei commoventi favi delle api, con le simmetriche celle esagonali che splendono dell’oro del miele? O delle imprevedibili, festose evoluzioni acrobatiche di uno stormo di uccelli, mantello palpitante di vita che il vento invisibile dell’istinto spinge nell’aria come un enorme drappo nero agitato da un torero celeste?

Poi ci sono le nostre geometrie, utili e preziose, le figure esteriori ed interiori cui chiediamo di regalarci ogni giorno uno spicchio di felicità. Le forme che scegliamo per le nostre case, per i mobili, per gli utensili domestici, affinché ci parlino da amici, ci comunichino confidenza, protezione, senso di pace. E, nascoste dentro di noi, ma più forti di ogni altro elemento, le geometrie dell’anima, le traiettorie intime e invisibili dei comportamenti che abbiamo saputo disegnare con saggezza ed onestà, gli edifici interiori che costruiamo mattone dopo mattone per elevarci e tentare di afferrare il senso della vita, gli angoli acuti, riparati e silenziosi, dove ci rintaniamo per ritrovare la quiete, il raccoglimento, il battito del nostro cuore, l’ansito della nostra coscienza.

E che dire delle geometrie inconsapevoli e spassose che abbiamo inventato da bambini, le linee vergate col gesso per giocare a campana, l’arco dolce e musicale disegnato dalla moneta nel battimuro, il lancio in linea retta, fermo e preciso, della noce che distruggeva il “castelletto”, le curve assunte dai nostri corpi agili e flessuosi per evitare di essere colpiti nella palla prigioniera, gli arditi semicerchi aerei dell’altalena per arrivare più su, sempre più su, e, per me che adoro il calcio, la perfetta parabola della palombella, con la palla che scavalca il portiere in uscita e si adagia mollemente nella rete. La palla, uno dei miei amori più grandi, la geometria ludica che da sempre affascina, intrattiene, diverte, esalta, la sfera cui è impossibile rimanere indifferenti quando ti viene incontro volando nell’aria o rotolando ai tuoi piedi…

La sfera di stracci, di cuoio o di plastica la cui odissea letteraria inizia proprio nell’Odissea omerica, e di cui si rintracciano le origini in quasi tutte le civiltà umane, si presta a innumerevoli utilizzi ludici e sportivi. Ma uno solo è capace di fermare le guerre come succedeva per i Giochi Olimpici dell’antica Grecia, di unificare i sentimenti dell’ethnos, di suscitare il transfert che invade intere masse sociali: è la palla-piede, il football, lo sport che, secondo i sociologi, riecheggia più di ogni altro gli ancestrali riti della caccia, lo sport che – ha scritto il grande Gianni Brera – “simboleggia la difesa degli affetti più cari dagli assalti dei nemici, ai quali si restituiscono pari pari le offese”, lo sport che Giampaolo Ormezzano ha definito “un mistero, un qualcosa dalla forza immane, l’unico nel quale può succedere (ed è successo) che l’Algeria possa battere la Germania nella fase finale di un Campionato del Mondo, mentre non potrà mai succedere che l’Algeria possa sconfiggere gli Stati Uniti d’America in una partita di basket”.

È il fenomeno-calcio ad aver originato la più bella ed emozionante cronaca sportiva che io abbia mai letto; il brevissimo commento – che da adolescente trovai in un anonimo Almanacco dedicato ai Mondiali di Calcio – dedicato ai minuti finali della partita che, nei Mondiali di Svezia del 1958, laureò il Brasile campione del mondo per la prima volta. Era il Brasile che non aveva ancora rimosso il trauma della più cocente delusione calcistica di tutti i tempi, quella che è stata definita la più grande tragedia sportiva di un popolo, ovvero la sconfitta per 2 a 1 subita contro l’Uruguay, al Maracanà di Rio de Janeiro, il giorno 16 luglio 1950, sconfitta che aveva consentito alla Nazionale uruguagia di vincere la Coppa Rimet dinanzi a milioni di tifosi brasiliani increduli, disperati, inconsolabili.



A otto anni da quell’evento, un intero popolo aspettava la vittoria ai Mondiali come segno di riscatto, di orgoglio, di gioia, di affermazione di una scuola calcistica che, in effetti, praticava il football più bello del Pianeta. E la finalissima del mondiale di Svezia del 1958 vedeva proprio il Brasile opposto ai padroni di casa. Dopo l’iniziale goal svedese, firmato da Liedholm, la squadra brasiliana cominciò a disegnare la rete di triangolazioni, passaggi illuminanti, ficcanti serpentine, lanci millimetrici, cross liftati, che permisero agli attaccanti auriverdi di ribaltare il risultato. Al minuto 55’, il giovanissimo Pelè incrementò il vantaggio brasiliano segnando un gol straordinario, una magnifica combinazione di dribbling, palombella a scavalcare un difensore e pallone colpito al volo e insaccato alle spalle del portiere svedese. Ed ecco la cronaca del giornalista Roberto Zanzi che trovai in quell’umile Almanacco dei Mondiali di Calcio: “I radiocronisti brasiliani sembravano impazziti, il lungo urlo del “gooooooooool” sembrava un ululato senza fine, e quando l’incontro sviluppava ancora le sue trame sul verde tappeto dello stadio Rasunda, a Rio, a San Paolo, nelle grandi metropoli brasiliane, nei piccoli villaggi dell’interno, si scatenò una sarabanda irresistibile; tutta l’esuberanza, la gioia incontenibile, l’entusiasmo della torcida compresso per lunghi anni, si rovesciarono nelle strade, improvvisando una festa che non si era mai vista prima”.

Forse vi sembrerà eccessivo, ma mi vengono i brividi ogni volta che leggo questo brano. Penso al popolo brasiliano, alla sua povertà, alla sua triste allegria, al suo amore per il bel calcio, e alla strana, misteriosa capacità di un gioco con la palla di comunicare una breve, ma autentica felicità, a intere comunità umane. Il brano di Zanzi è un tributo alle emozioni che sa donare il calcio, ma anche alla meravigliosa cornice che lo ospita, quando parla delle “trame che si svolgevano sul verde tappeto di Rasunda”. Chi ha avuto la fortuna di giocare a pallone sui campi di calcio inglesi sa che cosa vuol dire calcare superfici lisce come tavoli da biliardo, sa come sia più facile, sopra quei magnifici manti erbosi, effettuare un passaggio “col contagiri”, triangolare come aiutati da un goniometro, fare lo scavino per disegnare la palombella che uccellerà il portiere avversario.

Ecco, la geometria più semplice, ma per me più bella ed esaltante, avrei voluto disegnarla nel vecchio stadio di Wembley, col mitico pallone bianco degli anni ’70, calciandolo senza forza, ma con assoluta precisione, e indirizzandolo nell’angolino dove il portiere, pur tuffandosi, non sarebbe potuto arrivare. Il calcolo geometrico più istintivo e piacevole del mondo, la beffa ai danni di un antagonista, non di un nemico, cui, dopo aver festeggiato il gol, avrei detto, per consolarlo: “Non abbatterti, oggi il rettangolo della porta era disegnato per me, per farmi sentire, almeno una volta, il Dio del pallone che avrei voluto essere”.


armando.santarelli@inwind.it