FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 32
ottobre/dicembre 2013

Geometrie

 

AUGURI!

di Marco Berrettini



La mattina del mio cinquantesimo compleanno, mia moglie mi regalò un paio di scarponcini da trekking che da tempo desideravo e li calzai subito.

Ero ridicolo, mi guardai allo specchio e trattenni il fiato per celare la pancia, tonda e imbarazzante, mi gonfiai come un tacchino tendendo la canottiera azzurra e rimboccando le mutande. Le gambe erano l’unica parte del corpo ancora decente, per il resto l’eccesso di alcol, cibo e di notti in bianco giocando a carte avevano disegnato irrimediabilmente il ritratto di uno stanco uomo di mezz’età. Uno scarabocchio. Da qualche mese però mi ero fatto una promessa e per renderla più consistente l’avevo confidata a mia moglie che cercava sempre di assecondare ogni mio desiderio amandomi più di quanto meritassi.

Eravamo sposati da vent’anni, lei ne aveva dieci meno di me, l’avevo conosciuta durante una passeggiata tra le montagne sopra il Lago di Como dove ero solito andare a rimpinzarmi di polenta uncia e pizzoccheri. Dopo pranzo, abbastanza ubriaco avevo cominciato a girare per i tavoli chiacchierando con tutti come se fossero stati vecchi amici, a un tratto mi sedetti al suo fianco quasi senza accorgermene e cominciai a dare pacche sulle spalle a un ragazzotto corpulento e taciturno. Non avendo grande ritorno mi girai di scatto e feci la faccia da papero, lei scoppiò a ridere e mi carezzò il volto. Inclinai la testa a sinistra e, senza togliermi l’espressione da pennuto, sbattei tristemente gli occhi ed esclamai: - Quack! -

Una settimana dopo ci ritrovammo in quel rifugio solo io e lei e vi rimanemmo per due giorni, le chiesi di sposarmi, lei disse sì e pochi mesi dopo, in una piccola baita a oltre duemila metri di altitudine con un solo testimone, il sindaco del paesino di montagna officiò la cerimonia.

A quell’epoca pesavo centodieci chili e per un uomo di un metro e ottanta scarsi non erano pochi. Lei mi insegnò a nuotare, a correre lungo i viali alberati della città, a fare gli addominali la sera e in cinque anni persi venticinque chili.

Poi il tempo si è preso la sua rivincita e ora son così, un’altra volta a due passi dal quintale, ma deciso a riprovarci.

- Ogni sabato voglio camminare almeno cinque ore in montagna - dissi solennemente - entro due anni voglio essere tornato in perfetta forma, basta con questa sfera che mi porto in grembo! -

Il cinquantesimo compleanno cadeva di sabato e così cominciai a mantenere fede alla mia promessa. Indossai un paio di bermuda mimetici, una maglietta bianca con una testa calva di Ciclope, calzini grigi e i miei scarponcini nuovi, preparai anche uno zainetto con le cose fondamentali per una camminata in montagna. Un maglione di lana, una bottiglia di acqua, pane e formaggio, cioccolato, accendino, sigarette, un farmaco anti asma, disinfettante, siero antivipera e un coltello multiuso con il manico in osso che avevo revisionato pochi giorni prima affilando le lame e molando le punte. Lei indossò solo una camicia di jeans legata in vita, pantaloni lunghi, canotta e scarponcini gemelli ai miei.

Alle otto eravamo nel piazzale ai piedi del primo sentiero. Qualche macchina era già parcheggiata, altre ne arrivavano. Cominciammo a salire, lei con passo cadenzato e lento, io rapido e scoordinato. Dopo pochi minuti mi dovetti fermare, il cuore mi usciva dal naso ed ero già completamente bagnato di sudore. Mi voltai e, con gioia, notai di averle dato un buon distacco. Ripresi fiato e quando mi raggiunse mi pavoneggiai, lei sorrise appena e proseguì col suo passo. Una linea retta che puntava alla vetta.

Non riuscii più a superarla, anzi faticai parecchio per non rimanere troppo staccato. Avevo le gambe indolenzite e una gran voglia di fumare che combattevo a grandi sorsate d’acqua tanto che al primo rifugio, dopo meno di un’ora di cammino, già avevo svuotato la bottiglia.

Lei si sdraiò al sole, io entrai, bevvi un calice di rosso e chiesi di rabboccare la scorta di acqua. Un giovane col faccione quadrato e rubicondo mi disse che lì non era controllata e poteva solo vendermi della minerale. Indispettito trangugiai il vino e uscii, fuori vi era una bella fontana in marmo sormontata da un falco in bronzo dal cui becco sgorgava un fiotto di acqua cristallina. Bevvi due lunghe sorsate e riempii la bottiglia mandando, in cuor mio, a quel paese quel ragazzetto ottuso.

Ci incamminammo di nuovo e in breve raggiungemmo una malga chiusa, attrezzata con tavoli e panche in legno. Da lì si poteva ammirare un paesaggio fantastico, mi fermai per scattare qualche foto con il cellulare.

- Forza, proseguiamo, al ritorno potrai scattare quanto vuoi. Ora dobbiamo raggiungere il passo. -

A malavoglia rimisi lo zaino in spalla, ma non prima di avere fotografato un placido cane da pastore di taglia media, bianco e grigio con gli occhi azzurri che, legato a una lunga catena, dormiva beato a pancia all’aria all’ombra del portico.

Dopo quasi due ore raggiungemmo la meta. Uno spettacolo fantastico mi si parò davanti: le cime dei monti erano coperte dalla neve che sembrava disegnare bianchi triangoli a custodia del bacino ovale della diga in cui si specchiava il cielo in una gara di blu. Mi sedetti su un cubo di pietra levigata e divorai tutto quello che avevo nello zaino. Lei mi guardò con amore e mi carezzò la pancia, poi mi consolò e con poche parole mise fine alle mie pene: - Mangia tesoro, buon compleanno, non preoccuparti, io ti amo, a me vai bene così. -

Mi sentii subito meglio, ma non durò. Scendendo faticavo a vedere dove mettere i piedi. Pian piano, la rabbia ricominciava a impossessarsi di me. Lei saltellava verso valle come un leggiadro stambecco, io procedevo come un orso appesantito dalle provviste per il letargo. Inspirai e, ancora una volta, cercai di assumere una forma migliore, ma proprio in quel momento mi resi conto che stavo per appoggiare il piede destro su un pietra circondata da un magico tappetino di muschio. Fu come calpestare una buccia di banana o una mattonella ghiacciata, la gamba scivolò comicamente all’indietro e la mia pancia si lanciò nel vuoto portandomi con sé. Poi non ricordo più nulla.

Ora sono qui, imperituro ricordo, sulla parete di questa roccia. Il mio viso, le mie spalle quadrate, il mio sorriso, incastonato in questa bella lapide rettangolare di marmo bianco a cui ogni sabato mia moglie porta un fiore. In perfetta armonia con le forme asciutte di questi monti.


mberrettini@tiscali.it