FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 27
luglio/settembre 2012

Attese & Risvegli

 

IL RISVEGLIO DOPO L'ATTESA

di Armando Santarelli



Le attese: tutta una vita, la nostra prima vita.
Le attese cominciano coi sogni; il topo sogna di sopraffare il gatto, la zebra di sfuggire al leone, il bambino di avere accanto il giocattolo che ha sempre desiderato. E si alimentano di sogni: mio figlio diventerà un calciatore famoso, un grande medico, un manager dell’industria, un politico di primo piano.
Tu, ragazzino, ci credi, e cominci a recitare un ruolo. Non sai se vuoi davvero quel che ti chiedono, ma lo fai, perché ti senti importante, e ti senti importante perché i genitori ti guardano con orgoglio; è ciò che rimandano gli occhi dei genitori a determinare il nostro io acerbo.

Albertino era un bambino che vinceva tutte le gare di nuoto, prima nel suo club, poi nell’intera regione. Col tempo, qualcosa si è inceppato; quelli cui dava mezza piscina di distacco hanno cominciato ad avvicinarsi, poi a lottare alla pari, sino a quando qualcuno se lo è lasciato dietro. Non andava più bene neanche a scuola Albertino, gli insegnanti dicevano che “zoppicava”.
Non sono bravo né a terra né in acqua, voglio vedere se in aria, almeno… Albertino è volato da una finestra del quarto piano. Quando la mente di un ragazzino si scatena non c’è niente che possa fermarla, neppure l’angelo custode che abbiamo pregato da piccoli, seduti sul letto, con le mani giunte.

Fino a che punto si può convivere con un’idea cucita sulla tua pelle da altri con stringhe che il tuo corpo, crescendo, dilata fino a venirne straziato? Possiamo capire il dramma di un figlio che neppure quando gioca può dimenticare il ruolo che un genitore gli ha assegnato?
Io ero un bambino studioso, che perciò doveva riuscire nel campo della conoscenza. Ma per i miei genitori non era ancora abbastanza; volevano un figlio super educato e super rispettoso. Piangevo disperato per un’insufficienza, sudavo come un condannato a morte se il parroco non faceva in tempo a confessarmi e non potevo prendere la comunione. Se litigavo con altri bambini, evitavo di rispondere alle loro provocazioni, perché qualsiasi parola fuori posto sarebbe stata riferita a mia madre. Io guardavo con invidia i compagni di scuola che prendevano brutti voti e se la ridevano. Se il maestro mi dava 6 come voto, sapevo che cosa mi aspettava: la delusione di mia madre, una freccia conficcata nel mio cuore.

Siccome ero bravino nei temi di italiano, qualcuno cominciò a dire che sarei diventato un grande giornalista, o uno scrittore. Non so chi l’abbia detto per primo, so soltanto che da allora è iniziata l’attesa. Un incontro, un ricordo, una lettera, un’emozione; mai più, per me, semplici accidenti, ma eventi cui dare un senso letterario; un lungo, incessante rimuginare interiore da vulcano spento, rari momenti di euforia creativa in un mare quasi sempre piatto e limaccioso.
“Mi sembrava, in quei momenti, di esistere nello stesso modo di altri uomini, che sarei invecchiato, che sarei morto come loro, e che in mezzo al mucchio sarei stato semplicemente uno dei tanti che non hanno attitudine allo scrivere”. Ma questo è Marcel Proust, che proprio mentre auspicava che il destino perché gli lasciasse il tempo e la forza necessarie a compiere la lunga opera sepolta nell’io e disvelata dalla memoria involontaria, poteva annunciare alla domestica Céleste Albaret, nella primavera del 1922, che aveva scritto una parola in calce all’ultima frase della Recherche: “Fin”.

Non c’era stato un solo istante in cui non avesse pensato all’opera che lo avrebbe elevato ad un’altezza ineguagliabile nel mondo delle lettere. “Adesso posso morire” disse alla fedele Céleste dopo quella storica rivelazione.
Emily Dickinson pubblicò pochissime poesie nel corso della sua vita, e morì sconosciuta al mondo delle lettere. Eppure, quell’essere fragile, misterioso e solitario era assolutamente convinta della grandezza della sua poesia.
Ma la natura ha riservato la gloria a pochi eletti. Noi, i più, moriremo nell’attesa di qualcosa che è defunto ancor prima di esistere. “L’uomo”, ha scritto Cioran, “vive a tal punto nell’attesa che ha concepito l’idea dell’immortalità proprio per un bisogno di aspettare per tutta l’eternità”.
L’eternità… La quasi totalità dei libri stampati giacciono inutili e intonsi nelle librerie; ma chi può escludere il successo postumo di chi oggi viene considerato uno scribacchino? C’è del masochismo, c’è la vergogna del fallimento, c’è l’ossessione di dover lasciare una traccia nell’idea che si è ancora in tempo, che l’attesa finirà soltanto quando, come Proust, ci dedicheremo anima e corpo all’opera che ci consegnerà alla letteratura.

Robert Musil si arrovellò intorno a questa scelta. Nel 1908, al futuro autore dell’Uomo senza qualità si era aperta la possibilità della carriera accademica grazie ad Alexius Meinong, professore di psicologia a Graz, che lo avrebbe voluto come proprio assistente. Pur tentato dalla prospettiva, Musil finì per rifiutarla, segnando così uno dei momenti decisivi della sua vita, come annotò malinconicamente il 22 agosto 1937: “Pare che il mio sviluppo naturale avrebbe dovuto essere il seguente: accettazione dell’offerta di conseguire la docenza a Graz. Paziente sopportazione della noiosa attività di assistente. Partecipazione spirituale alla svolta in psicologia e filosofia. Poi, dopo la saturazione, un naturale abbandono, e tentativo di passare alla letteratura. Perché non è andata così? Decisivo fu che io riponessi delle ingenue speranze nell’ulteriore decorso della mia carriera di scrittore, che non sapessi affatto com’è pericoloso nella vita non sfruttare le proprie possibilità. Fu stupido che per me non riconoscessi minimamente valida l’idea che ci si inserisce energicamente nella materia che la vita ci mette sulla strada, ma facessi invece con energia quel che cercavo io stesso”.

L’autore di uno dei capolavori letterari del Novecento che parla di “ingenue speranze”! C’è di che deporre noi ogni speranza, e darsi al footing, al bricolage, ai giochi di società. Come faccio a considerarmi uno scrittore se qualsiasi descrizione mi richiede uno sforzo quasi insopportabile? Perché continuo a scrivere dello scrivere, invece di parlare di ciò che vedo e di ciò che so?

Mentre penso queste cose, la campanella della chiesetta dell’Annunziata annuncia il catechismo dei bambini. Un istante dopo arriva il coccodè delle galline di Eufemia, e il profumo del ciambellone che mia moglie sta cuocendo nel forno di casa. Il nucleo rettiloide dell’animale che eravamo prima di diventare creature coscienti mi rimanda un brivido euforizzante e benefico. È una gioia pura, libera da qualsiasi fine, una gioia che non ha legami con dèi, filosofie, sogni, ricchezze, promesse, vittorie.
Bussano alla porta. Lorenzo, che abita al piano di sotto, mi prega di aiutarlo a riempire il conto corrente di una tassa che dice di aver già pagato.
“E’ un furto, ma la pago lo stesso”, aggiunge subito, “non voglio debiti con lo Stato, io ho sempre dormito tranquillo”.
Mangiamo il ciambellone ancora caldo, ci facciamo un bicchiere di cesanese, e mi racconta del primo furto avvenuto nella storia della nostro paese. Era il 1954: rubarono la “vugata”, la biancheria che la signora Esterina, moglie del “possidente” Sor Carlo, aveva steso ad asciugare nel giardino di casa.
“Fu uno scandalo”, commenta, “non era mai successo, e quasi non ci credevamo. Ma le chiavi rimasero attaccate alle porte, non volevamo cambiare certe abitudini, per un ladro. Ci siamo ripresi subito, c’era altro da pensare. Fatte le cose tue, ti davi da fare per il paese, per la parrocchia, la squadra di calcio, la banda… E ti sentivi soddisfatto, anzi contento di te stesso”.
Non pronuncia la parola “gioia”, ma gli si legge negli occhi.

Gli anziani sono come cantine ricche di pregiati vini d’annata; solo che dovremmo stappare qualche bottiglia in più, invece di tenerle in un angolo, coricate e ricoperte di polvere. Non c’è gioia - mi sta dicendo Lorenzo - senza la percezione della meraviglia del mondo; e il mondo è fatto delle cose essenziali e naturali che sono intorno a noi.
Il monaco buddhista Thich Nhat Hanh, uno dei più grandi saggi del nostro tempo, diceva che si ragiona e si scrive meglio se fra un pensiero e l’altro ci prendiamo il tempo per coltivare la lattuga. Raccomandava altre due cose semplicissime: fare dieci minuti al giorno di respirazione profonda e prendersi cura degli altri.
Nel mondo della vita c’è qualcosa di più importante della visibilità, del successo, della “realizzazione”: il risveglio è quando, per ciascuno di noi, cominciano a contare sempre meno le cose e sempre di più le emozioni e il bene che vogliamo condividere col nostro prossimo. Il risveglio è quando ci abbandoniamo al fluire dell’esistenza, appropriandoci della seconda vita concessa a tutti noi, quella che inizia quando ci rendiamo conto di averne una sola.


armando.santarelli@inwind.it