FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 24
ottobre/dicembre 2011

Crisi

 

URTARE, CONTRAFFARE, ENTRARE
ANCORA IN UN INIZIO
La "Compagnia delle poete"

di Rosanna Morace



Buio. Silenzio. Rumore di tacchi. Silenzio.
Poi, una voce, e un’altra, e un’altra ancora, e l’una si disperde nell’altra con armonia in un ininterrotto filo, l’una diventa l’altra conservando la propria unicità, il proprio timbro, il proprio accento più o meno straniero. Diversi modi di intendere, fare e pronunciare poesia si amalgamano e si integrano con la musica, in una ritrovata dimensione lirica, orale e corale del fatto poetico. La poesia come prima e più primitiva forma di comunicazione, al pari dell’immagine. Poesia semplice, comunicativa, istantanea, fatta di immagini che emergono con forza dal magma di suoni e voci. Poesia scritta per essere detta, e detta da colei che l’ha scritta.

Sono queste due prime e fondamentali caratteristiche delle performance della «Compagnia delle poete»: la volontà di «desacralizzare la poesia», toglierla dal piedistallo avanguardistico-ermetico-retorico su cui si è arroccata per riportarla al pubblico nella sua semplicità e forza viscerale, emotiva, intuitiva. E riportarla, anche, al suo statuto di lirica, nata per essere detta e cantata, restituita alla sua dimensione orale. Ma l’oralità non è un vezzo: è una necessità per la Compagnia, ed emerge dal particolare connubio da cui è nata, nel 2009, grazie ad un’idea di Mia Lecomte, poetessa italo-francese ed esperta di Letteratura della migrazione: sono, infatti, 20 le poetesse che la compongono e che provengono da tutte le parti del mondo: Cile, Brasile, Argentina, Somalia, Grecia, Albania, Croazia, Bosnia, Germania, Svizzera, Francia, Inghilterra, Spagna. In molti di questi paesi la tradizione poetica è innanzi tutto orale, o si "sporca" con forme di oralità che sono oramai estranee alla nostra tradizione e che quindi vengono a rinnovare la letteratura italiana dall’interno.
Perché è bene ribadire subito che questa è poesia italiana, se ancora di poesia nazionale si può parlare. Queste poetesse vivono quasi tutte in Italia da 20 o 30 anni e si muovono tra più lingue (alcune ne parlano 4 o 5 e lavorano presso Università o sono dottori di ricerca) ma è l’italiano la loro lingua di espressione poetica, e dunque è dentro l’italiano che esse inseriscono questo elemento dinamico che è la contaminazione linguistico-culturale, ovvero la nuova via di qualsiasi letteratura nazionale del XXI secolo, non solo italiana.



(foto di Dino Ignani)


Siamo tutti migranti nel mondo di oggi, e la «Compagnia delle poete» trasmette questo senso di mondialità attraverso l’impasto che crea tra linguaggi e forme sceniche, amalgamando armoniosamente voci e codici eterogenei. Musica, video, canto, poesia e danza si integrano sulla scena: ma fino a qui nulla di nuovo, è il processo in atto di contaminazione tra le arti. L’elemento nuovo, che a tratti è magia, è come le diverse lingue risuonano dentro l’italiano, regalandogli ritmi e sonorità sconosciuti, misteriosi, inusuali, che spesso trasformano la parola in musica. Di tanto in tanto affiorano anche parole straniere di cui non si comprende il significato ma si intuisce, o di cui il suono diviene significante di per sé, a prescindere dal significato. Perché, in realtà, non è la singola poesia ciò che si ascolta nelle performance della Compagnia, né è il significato della parola o del verso che si cerca di carpire, ma il tessuto sonoro che li racconta e l’emozione che lascia fluire nello spettatore, e che arriva per altra via. Questa via è, appunto, l’oralità corporea, la parola che acquista corpo, suono, immagine e ritmo, ed è a quelli che ci si lascia andare. Da questo magma risalgono, poi, potenti, singole parole, versi o immagini che rimangono impressi per forza viva e si scolpiscono nella memoria.

      Non so perché questo filo che lega stringe.

      Ifigenia inciampa crolla e cade sgranocchiando ossa di eroi.

      Trattenere la morte al tramonto.
      Urtare, contraffare, entrare ancora in un inizio.

Questi sono alcuni i versi che sono rimasti a me, che mi hanno risuonato dentro e che cito a memoria, forse sbagliando. Ma non credo sia importante citarli esattamente, perché è questo "risuonare dentro" che rimane, ed è un’emozione forte. Tanto più forte perché ho in mente i visi di chi li ha pronunciati e di chi li ha scritti. Non nego che in molti casi l’attenzione possa perdersi, e che la presenza scenica "non-attoriale" o l’accento straniero di alcune possa compromettere la comprensione del singolo dettato: ma, d’altra parte, è proprio quell’accento straniero a regalare un suono così diverso al nostro italiano e a creare questa ‘sonata per poesia’ che sono gli spettacoli della «Compagnia delle poete»; ed è la presenza nuda e cruda di donne sul palco che si espongono nella loro semplicità e quotidianità a restituire una verità ed una forza sincera a versi, gesti ed espressioni. Il video di Janine Von Thüngen che costituisce la scenografia dello spettacolo Madrigne (madri, madrine, matrigne, matriosche che stanno una dentro l’altra ma tutte in una) coglie infatti le poetesse nei loro momenti quotidiani di madri e donne, di contatto con la natura e il corpo, nei gesti rituali e semplici di ogni giorno.

E così ciò che potrebbe essere la debolezza o il punto di crisi scenico degli spettacoli della Compagnia si trasforma invece nel suo punto di forza. Già questo fatto ci racconta, oltre le performance, un modo di superare le difficoltà e "la crisi" con semplicità e naturalezza, ma soprattutto con il coraggio di esporsi nella propria totalità e imperfezione, improvvisandosi continuamente. Perché improvvisazioni sono gli spettacoli della Compagnia, che riunisce poetesse sparse su tutto il territorio italiano, che per problemi logistici e per l’assenza di uno spazio in cui provare (se non i teatri in cui si svolgono gli spettacoli) sono costrette a reinventarsi di continuo e a modificare costantemente il "copione" a seconda di chi sarà in scena e delle poesie che sceglierà. Basta che un solo elemento cambi o si aggiunga per dare un nuovo equilibrio allo spettacolo sempre in fieri. A seconda della città in cui viene rappresentata le performance cambiano, infatti; non solo poetesse e poesie ma anche i musicisti coinvolti, il che comporta tutto un nuovo modo di concepire e vivere lo spettacolo, essendo la musica elemento centrale e anzi proprio un racconto a sé stante, una poesia sotto (o accanto) le poesie.

Dunque lo stesso spettacolo in realtà non è mai lo stesso. Si prenda, ad esempio, Madrigne, replicato tre volte: al «Forte Fanfulla» di Roma, al «Teatro Miela» di Trieste e alla Biblioteca Comunale «Lanfranco da Albegno» di Treviolo (Bergamo), sempre per la cura-regia di Vesna Stanic e il video-scenografia di Janine Von Thüngen. A Bergamo e Trieste, però, il «racconto musicale» di Alberto Chicayban, chitarrista brasiliano di notevole fama e maestria, costituiva una voce a sé stante, forte come le altre, laddove a Roma il trio Andrea Colella (contrabbasso), Emanuele Melisurgo (fiati), Mejrema Reuter (flauto dolce) si armonizzava più dolcemente al tessuto sonoro di poesie, voci e accenti. A Roma, poi, le poete in scena erano 11 (Livia Bazu, Adriana Langtry, Mia Lecomte, Sarah Zuhra Lukanic, Vera Lúcia de Oliveira, Helene Paraskeva, Brenda Porster, Sally Read, Francisca Paz Rojas, Candelaria Romero, Jacqueline Spaccini), 6 a Bergamo (Livia Bazu, Adriana Langtry, Mia Lecomte, Sarah Zuhra Lukanic, Melita Richter, Candelaria Romero) e 5 a Trieste (per l’assenza di Adriana Langtry). È evidente che tutto ciò conferisce ad ogni performance un nuovo respiro, nonché, davvero, la capacità e la voglia di scoprirsi ogni volta a contatto con situazioni differenti.

Si tenga poi presente che ciascuna di queste poete ha un diverso rapporto col palco, col fare poesia, col proprio essere donna e con il proprio vissuto multilingue e di migrazione; e che dunque queste performance nascono anche da una crisi individuale di ciascuna, redenta in arte e in un’identità ricca «per addizione».
Una crisi dovuta alla migrazione ed alla perdita di identità che questa comporta; alla crisi di esporsi in pubblico nella nudità dell’essere donna e poeta (ed anche a questo voler rimarcare l’essere fieramente donne si deve l’insolita scelta del termine "poete"); alla crisi dovuta a pregiudizi e paure, che fanno sì che ancora non si riconosca uno status autonomo e forte a questa notevole letteratura nata da stranieri italianizzati, che invece arricchiscono per addizione e con coraggio un panorama culturale sempre più in decadenza e sempre più incline alla mercificazione del pensiero.




SCELTA DI TESTI DALLO SPETTACOLO “MADRIGNE”
Forte Fanfulla (Roma, maggio 2011)




COSTRUIRE UNA CASA
(Vera Lúcia de Oliveira)

costruire una casa è come mettere ordine nel mondo
sistemo un mattone lui resta dove lo metto
sono io che scelgo il mattone io che preparo la calce
se potesse che tutto io potessi sistemare
non avrei questa stretta al cuore no
rassetterei il mondo che Dio mi perdoni
perfino meglio di lui


TRASLOCARE
(Helene Paraskeva)

Traslocare fa un effetto goffo,
scatole chiuse, lettere non lette,
libri creduti, appunti persi,
e polvere al posto del respiro.
E quei fiori vogliosi sulle tende
sudice patacche,
colpe d’acciaio mai ammesse.

Come si fa a trasferire quel divano?
Chiamalo piuttosto catafalco,
un Gòlgota imbottito di rimpianti
stupido, sgraziato, difettoso.
Non si alza mai in piedi,
non accoglie gli ospiti,
non ha maniere.
Ora di buttarlo.


RAPERONZOLO
(Mia Lecomte)

Da questa finestra faccio la mia casa
con tutto quello che potrebbe essere
alle mie spalle dentro la sagoma di
una vera casa che non si stagliasse
verticale all’origine ma abbandonata
lungo il piano domestica non tutta
sguardo da un solo pertugio proprio
qui in cima da cui disfo e rifaccio
treccia per treccia la casa vera
quale sarebbe alle mie spalle

portefinestre
ceste di zoccoli, galosce, ombrelli
una chaise longue col cappello fiorito
lui che rientra per levare il caffè
lei che riporta i biscotti sul prato
la tartaruga procede sicura
nell’orizzonte al livello del tempo

disfo e rifaccio intrecciando la casa
alle mie spalle rifaccio e disfo
mentre giù in fondo si perde in un’ombra
quello che in alto è sembrato


MEMENTO
(Livia Bazu)

Mai perdere l’attenzione, mai la cura,
piccola e leggera come sono
e quasi trasparente per giunta

non perdermi tra gli angoli senz’anima
del labirinto armato
in cui si nascondono ingannevoli
invisibili e inavvertiti
orchi buchi neri
avidi di oblii e sfiducie
ruminando sempre le nostre impassioni

non assolvermi
ogni giorno
per non condannarmi
per tutti i giorni

rimproverami
fino ad allungare l’orecchio
alla goccia sottile della clessidra
la vaga clessidra nascosta tra i vicoli della mia architettura
che versa lacrime e sangue quando si sente mancare
e acque allegre fiotti di danza
per com’è la voglia e il mistero

cercare il mio abito
e il portatore da vestire con la mia pelle aperta
redimere insieme
cucire insieme una musica ignota
labirinto e uscita


NOTE PER UNA BREVE COMMEDIA SENTIMENTALE
(Brenda Porster)

loro si vogliono bene ma
lui talvolta sta male perché
insoddisfatto di sé
lei si dispiace
che lui stia male
e scrive una poesia sul male di lui
gliela fa vedere.
lui sta veramente male
quando legge la poesia di lei
dice che lei è ipersensibile
e decide di rompere il rapporto
così
alla fine
stanno male tutti e due
                                 the end


SPEZZARE IL COLLO AI PESCI
(Sally Read)

Lungo Camden High Street ci si attaccò un polposo marciume,
grumi scuri di fragole, birra, bile a spruzzi sul pavimento.

La luna, sussurravi. La mia chioma bagnata un cespo di ricci nella calura.
Un litro d’acqua mi sciaguattava dentro.

La tua pelle è come la luna; una madonna seducente nel tramonto.
Il tuo viso inzuppava il sole.

Biascicavi senza posa parole che la mia mente schivava
come un pugno indeciso.

Vicino al pub, i treni sferragliavano per Euston, urlo rovente di pistone e freni.
Volevi brindare, non mi mossi, la lingua grossa,

costole cerchiate di metallo: Ai treni.
Vedo ancora il tuo leggero ritrarsi, sento il tuo dolce canto incurante

Ti amo da morire,
e una lucertola di sudore mi sfrecciò improvvisa tra le spalle, ignara.


RICETTA PER IL PESCE FUOR D’ACQUA
(Eva Taylor)

La maggior parte dei pesci è muto
per cui lasciatelo bollire qualche istante
fatelo raffreddare nell’acqua di cottura
infine versatelo nell’alfabeto.
Imparerà a nuotare, a respirare e a parlare
ma avrà sempre l’impressione
di essere qualcos’altro.
Il suo lieve sapore amarognolo
che alcuni apprezzano
altri trovano nauseante
vi suonerà come accento.
Si può togliere con un filo d’olio d’oliva.
Extra vergine, macinato a freddo.
Meglio freddissimo. Quasi come d’acqua.


PALABRAS
(Adriana Langtry)

De los escombros
nacen
otras palabras.

Spuntano come germogli
tra i mattoni crollati
colmando ogni fessura
di radici,
spaccano le macerie
con la fragilità
incombente
dei fili d’erba,
inquietas y
sinuosas

come stelle filanti.

No son ésas
de ayer

né quelle del passato,
ambiguas,
incrociate,
le parole sono altre.
Nascono
dalle rovine
di una lingua
bifolca,
de la mirada
bifronte
di un Giano stanco.

Si affannano,
balbettano, tambalean,
si rincorrono
nel doppio destino
che le affligge,
doble como
el espejo
que refleja
y observa
,
doppio come
le rive
opposte
dell’oceano.

Nacen
de los escombros

le altre parole.
Afloran redundantes
picchiettando fra i denti
la loro melodia
di suoni disparati.
Sorgono dalle macerie
rellenando el olvido,
dando voz
al silencio

nella lingua
sbagliata.

Si scontrano,
se mezclan, se contagian,
su verdor primigenio

copre di simboli
alterati
los restos mudos
del derrumbe
.
Sorgono dalle macerie
con un recuerdo antiguo
di partenze e addii.
Esplenden
come stelle filanti
nell’ibrido cangiante
dell’occaso.

De los escombros
nacen
otras palabras.
Ni ésas ni aquellas
,
altre.


QUEL CHE RESTA
(Francisca Paz Rojas)

quel che resta
è cambiare percorso alle vie
entrare nell’azione
che denigra se stessa

quel che resta
è ballare
proprio quando non si può
più

trattenere la morte al tramonto
ascoltare a quell’ora la notizia
e fingere di lasciarla scivolare

deporre il perdono
dentro una piccola barca
e farlo scorrere
in acque senza canne
senza fede nell’io risponderò

urtare contraffare
entrare ancora in un inizio,
annaspando al risveglio sfocati,
arrestare ogni falsa preghiera

per dire sì
questo resta
la mobile coscienza sull’orizzonte lento
dove si sta con piedi di maiale
e collo di cigno
dove s’impara una lingua
che benda la prima
con il suo corpo di lupa;
dove l’unico dono è Qui
inarrestabile altero
a tiro di curva,
libero di non eleggere
l’altro,
un nodo a cappio, silenzioso,
appeso a un muro esterno


LA SPOGLIAZIONE DELLE POETE
(Jacqueline Spaccini)

Qualcuna
inizia sfilandosi le scarpe,
le calze e poi la gonna.
Qualcun'altra
si toglie il maglione,
la maglia e il reggiseno.

A tutte hanno sottratto
almeno un'ora.
E quella non ha avuto
il tempo di fare la spesa
in un'intera settimana.

Le colombine alla crema
recano la parola mattutina;
a una la spremuta d'arancia
dà un decimo motivo per esistere,
un'altra ha rubato il suo terzo caffè.

Qualcuna si sarà tolta la pelle
e qualcun'altra l'anima.
Un'altra s'è smarrita.
Dipende.
Sapete com'è, al buio, non sempre si capisce.
Del suo colore, le ha rivestite tutte
la luce nera. Come una coltre,
ma trasparente.


AD OCCHI APERTI
(Begonya Pozo)

Ad occhi aperti
odori la stanza
antica. Siedi.

Con sguardo intimo
ti misuri, e taci.

Da su in giù levi
i pantaloni, lenta,
con cerimonia.

Rimani nuda sotto
le ossa croccanti.


SULLA PUNTA DELLE MIE SCARPE
(Sarah Zuhra Lukanic)

Sulla punta delle mie scarpe
C’è un mondo intero.
Lo osservo incredula
E mi chiudo sotto le stringhe
Slacciate.
Sulla punta delle mie scarpe
Ci sono le tracce del dolore
Quotidiano.
Lo conservo come muschio
Sotto il cipresso verde.
Sono ferma con la mia pala.
Immobile.
Scruto le condoglianze dei famigliari.
Sulla punta delle mie scarpe
Ci sono le gocce di rugiada
Mattutina.
Come se le mie scarpe piangessero
Un altro morto.


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