FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 21
gennaio/marzo 2011

Futuro

 

FABIO FRANZIN
Fabrica

di Anna Elisa De Gregorio



Sembra quasi che il dialetto sia un essere vivente, che si faccia a volte esso stesso poesia: colui che lo parla è quasi obbligato da una luce, da un richiamo a scrivere e a far si che questo tesoro linguistico si renda visibile sulla carta facendo testimonianza e memoria di sé stesso. Come se avesse ascoltato la preghiera di Andrea Zanzotto e l’avesse messa in pratica: «Ma ti, vecio parlar, resisti».
È un distendersi dolce quello della personalissima lingua di Franzin (dialetto veneto dell’Opitergino-Mottense con derive nel vicino Friuli): scivola, toglie gli angoli Franzin, rendendo accogliente la scrittura con la semplicità perfetta del faber che conosce il suo mestiere; forse non ci sarà bisogno che in futuro siano «do tre osèi sói magari» (come si prefigura Zanzotto) a dover cantare per conto del “vecio parlar”. La lingua, almeno in questi lembi di terra fra Veneto e Friuli resisterà: mai come in queste zone si scopre tanto interesse per il dialetto, giovani poeti continuano questa “rinnovata” tradizione con risultati egregi. Fra questi c’è Fabio Franzin (nato nel 1963) che ho avuto modo di conoscere a Barcis durante la giornata dedicata alla premiazione del concorso Malattia della Vallata. Ho apprezzato la sua schietta semplicità, la sua cordialità, apprezzamento che è diventato ammirazione quando ho letto la sua Fabrica (Atelier, 2009), ultimo lavoro in ordine di tempo, perché Franzin scrive e pubblica poesia da una decina di anni sia in italiano che in dialetto e partecipa attivamente al dibattito poetico.

Il dialetto è la lingua dell’esperienza diretta, della quotidianità, del fare, l’etimo della parola poesia è esattamente questo: esperire, fare. E sicuramente non si può, in questi tempi di ipocrisia perversa, accettare di ascoltare da nessun altro che non sia operaio “vero” parole e poesia di fabbrica. La retorica e l’insincerità stanno in agguato e fanno comizio, chiacchiera. Un altro poeta, Luigi Di Ruscio, nato a Fermo e emigrato a Oslo, ha parlato del lavoro in fabbrica con eguale “verità” e, non a caso, è stato operaio per tutta la vita. Nelle ultime pagine del libro ci sono vari testi tradotti di Di Ruscio, e di altri “poeti-operai”.

Entriamo allora in questa Fabrica, che «A vardarla stando fòra» non sembra neanche così mostruosa…ma è solo un’apparenza ci dice Franzin.
Siamo davanti a un’opera compatta, un poemetto monotematico declinato in “pentameri” (uso questo bel termine più botanico che poetico), che non tengono conto né dei conteggi sillabici, né delle rime, dando al testo un andamento di eloquio sottotono (anche il verso breve con rotture frequenti date da continui enjambements sembrano i respiri disordinati del parlato), con necessarie incursioni verso lemmi stranieri di uso corrente, è diviso in due sezioni (la prima dal titolo Pori operai e la seconda dal titolo Par nome) e da una appendice finale.

Racconta Franzin che ha scritto questo testo “in quindici giorni di febbrile scrittura”, dopo aver letto La condizione operaia di Simone Weil, saggio del ’36 “avvertendo che nulla era mutato in tre quarti di secolo sulla condizione intima dei lavoratori”… E intima è la qualità che descrive bene questa scrittura, scrittura che guarda dentro, sempre, con insistenza e dolore partecipato.
In tutto il poemetto c’è un accorato autentico sin-patos, che non è rabbia, ma molto di più, è senso di responsabilità, è coscienza che viene dopo l’elaborazione della rabbia. Poesia di testimonianza, poesia civile: queste sono le qualità che “fanno” l’essenza e lo stile del libro.

Pori operai è quasi una “lamentazio” contenuta, estremamente lucida e poco incline al piangersi addosso: Pur non avendo titoli, ogni pagina è l’approfondimento di un discorso più generale e a pag. 16 (della seconda edizione) troviamo i versi eponimi della sezione, che iniziano infatti con: «Pori operai, ’doperàdhi/ fin a cavarghe via anca/ l’ultimo pél de dignità,/fin a spolparli dea poca/autostima che ghe ’à restà»…. Mi pare che non ci sia bisogno di traduzione, qui il dialetto è sicuramente più morbido, ma è comunque vicino alla lingua italiana. La traduzione a fronte è sempre necessaria, ma va guardata con la coda dell’occhio, velocemente in tralice, quasi fosse un peccato.
Bastano venticinque versi per lasciare un segno indelebile sul tema “incidenti sul lavoro”: poche righe sono una lapide unica per infinite ferite e morti. Pagina esemplare raccontata attraverso un parlottare fra sé e sé fatto più di meraviglia che di orrore, dove ancora non c’è la percezione precisa di quello che sta accadendo, proprio com’è nella realtà, quando queste cose accadono: «E chea macia de sangue/scuro là, tea segadhura,/come un continente novo/te ’na carta giografica/»…

La seconda sezione Par nome si allarga a un racconto più variegato, si sofferma sulle persone, sulle loro storie, chiama per nome (dando loro una sorta di riconoscimento, di vita propria) i compagni di fabbrica, spesso l’attenzione è rivolta alle donne ed è delicata, rispettosa: «Marta l’à quarantaré àni./ Da vintizhinque ’a grata/ cornise co’a carta de véro/,/el tampon, ’a ghe russa via/ ’a vernise dura dae curve//del ’egno; e ghe ’à restà/come un segno tee man:/ carezhe che sgrafia, e onge/curte, da òn. I só bèi cavéi/biondi e bocoeósi i ’é ’dèss// un grop de spaghi stopósi/...».
Anche il luogo comune del dipendente che ride alla barzelletta del capo è “deformato” dal sentimento poetico così da diventare altro: «…no’ le trova/cussí comiche, zherte po’ le conósse za, però, visto// che ridér no’ costa niènt/...». Già, apparentemente non costa niente, forse neanche il lavoro in fabbrica è così faticoso, ma definisce e chiude una vita in uno spazio che nessuno, se non chi lo vive, può dire quanto angusto sia. Paradossalmente il tempo sembra dilatarsi all’infinito nell’infinita routine del lavoro, che blocca la mente e impedisce ogni flusso, mettendone in evidenza la tragica insensatezza.
Ho letto anch’io, così come Franzin l’ha scritto, tutto di un fiato questo libro. Non si pensi che ci troviamo davanti a un poeta operaio, niente di più riduttivo e lontano dal vero. Franzin è “solo” un poeta e Fabrica è un libro di poesia dedicato agli operai.


Fabio Franzin, Fabrica, Atelier, Borgomanero, 2009, pp. 96, euro 10 (Premo Pascoli 2009).




POESIE DI FABIO FRANZIN
da Fabrica


Par nome / Per nome

(...)

Joussuf i ‘o ‘à mess
a ciapàr tòchi drio
‘na multilame. L’é
un fià lento, ‘ncora,
calche steca ‘a ghe

      passa via, sora i rui,
      ‘a ghe casca par tèra;
      ma lu ‘l sa che ‘l pòl
      deventàr pì sguèlto,
      co’l tenpo, e ‘lora no’
el ghe bada ae paròe
che ‘l capo che zhiga
drio, te chea lengua
cussì stranba, anca
se l’à capìo che tante
      le ‘é bestéme, anca
      se lo sinte che a lu
      no’ ghe piase ‘l coeór
      dea só pèl, che no’l
      voràe ‘verlo fra i pie
no’l ghe bada parché, fra
‘na steca ciapàdha e una
che casca, el vede i fiòi
e só fémena scanpàr via
daa fame; tornàr far faméjia.


Joussouf ha trovato posto
in coda
ad una multilame. È
un poco lento, ancora,
qualche asta gli

      sfugge, dalla rulliera,
      gli cade in terra;
      ma lui sa che può
      diventare più rapido
      col tempo, e allora non
fa tanto caso alle ingiurie
che il capo gli urla
addosso, in quel dialetto
così incomprensibile, anche
se ha capito che molte
      sono bestemmie, anche
      se ha intuito che gli
      da fastidio il colore
      della sua pelle, che preferirebbe
      non averlo fra i piedi
non ci fa tanto caso perché, fra
un’asta afferrata e una
che gli cade, vede i figli
e sua moglie fuggire
alla fame; la famiglia ricomporsi.


(...)

El Repetón po’, e cussì
tant che ‘l par pròpio
lu, tee fabriche, ‘l parón;
tut un tun-tun de pache,
de sfiati, un gron-gron

      continuo de rui e cadhéne…
      e dee volte el par davéro
      insoportàbie, come se
      calcùn, chel dì, ‘l ‘vesse
      alzà de colpo el voeùme
fin a farte s.ciopàr ‘a testa;
‘bituàrse no’ l’é fazhie, no’
l’é fazhie farlo deventàr
sol un sotfondo. In fondo
a chel rumór sta ‘a tortura
      pì granda de òni operaio:
      ‘e paròe bisogna che ‘e se
      stòrde in zhigo pa’ esister,
      là in mèdho, sorde ‘e vose
      che ciama indrìo un sogno.
Fabriche come discoteche
senza bàeo. El siénzhio
se sconde sot ‘e tasse ‘ndo’
che l’òn che no’ saeùdha
buta via ‘l veén pa’ i sordi.


Il Frastuono poi, e così
assordante che sembra proprio
esso, nelle fabbriche, il padrone;
tutto un pulsare di colpi,
di sfiati, uno stridio

      continuo di rulli e catene…
      e alle volte pare davvero
      insopportabile, come se
      qualcuno, quel giorno, avesse
      alzato di colpo il volume
sino a farti scoppiare la testa;
assuefarcisi non è facile, non
è facile ridimensionarlo
sino a sottofondo. In fondo
a quel rumore sta la più sadica
      tortura per ogni operaio:
      le parole debbono
      piegarsi in urlo per esistere,
      lì in mezzo, sorde le voci
      che chiamano a sé un sogno.
Fabbriche come discoteche
senza balli. Il silenzio
si nasconde sotto i bancali ove
l’uomo che non saluta mai
butta i bocconi avvelenati per i topi.


(...)

Pièro l’é pròpio contento
de far l’operaio; ghe piase
partìr da casa, oni dì, savér
za còss’ che ghe spèta da far
e niènt de diverso: l’à ‘l só

      posto, fisso, ferie pagàdhe,
      el straordinario; schèi in pì
      pa’ zontàr ‘n’antra pièra
      tea casa che cresse sora el
      lòto de tèra, là, drio ‘a cesa.
E no’ ghe pesa passàr tante
ore serà drento a chii quatro
muri; co’ le ‘é libere ‘e ghe
par cussì vòdhe, ‘e ghe par
parfìn perse. Chi ’o che ghe
      dise che no’ l’é a ore, a schèi
      o a pière che se ‘o misura,
      el mondo; che l’é rotondo,
      e ‘l gira ‘torno al sol; chi ’o
      che ghe spiega el vaeór vero
del tenpo: che ‘l pòl èsser
straordinario anca se no’
l’é pagà dal parón, chi ’o
che ghe ‘o dise, a Pièro,
el nostro operaio contento?


Pietro è davvero felice
di essere un operaio; gli piace
partire da casa, ogni mattina, saper
già cosa ha da fare
e nulla di diverso: ha il suo

      posto, fisso, le ferie pagate,
      lo straordinario; soldi in più
      per aggiungere un altro mattone
      alla casa che sta costruendo nel
      lotto di terra, là, dietro la chiesa.
E non gli pesa passare tante
ore chiuso dentro a quei quattro
muri; quando sono libere
gli sembrano così vuote, gli
sembrano persino perse. Chi glielo
      dice che non è a ore, a soldi
      o a mattoni che lo si misura,
      il mondo; che è rotondo,
      e gira intorno al sole; chi
      gli spiegherà il valore vero
del tempo: che può essere
straordinario anche quando non
è pagato dal padrone, chi
glielo dice, a Pietro,
il nostro operaio felice?




Fabio Franzin
è nato nel 1963 a Milano, da genitori veneti. Nel 1970, al seguito dei genitori torna in Veneto, a Chiarano. A sedici anni inizia a lavorare come operaio in un mobilificio, sua attuale professione. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Ha pubblicato libri di poesia in dialetto e in lingua:
    2000   El coeór dee paròe;
    2005   Canzón daa Provenza (e altre trazhe d’amór);
    2005   Il groviglio delle virgole;
    2006   Pare;
    2007   Mus.cio e roe;
    2009   Fabrica;
    2011   Co’ e man monche.



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