FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 18
aprile/giugno 2010

Aquiloni

 

ASCOLTARE
una rubrica per le orecchie

di Federico Platania



Peter Gabriel. L'arte di farsi aspettare


«Da quanto non fai un film?», chiedeva Daniele Luchetti a Nanni Moretti in una scena di Aprile. E ai balbettanti tentativi di difesa del regista, che citava alcuni vaghi progetti cinematografici, Luchetti insisteva incalzando: «Ma io dico un film vero, Nanni, un film! Da quanto non lo fai?».
Il dialogo l’ho citato a memoria, ma il senso è quello e restituisce bene l’atteggiamento dei fan di Peter Gabriel (tra cui il sottoscritto) nei confronti del loro beniamino. «Da quanto non fai un disco vero, Peter?». Già, perché il Nostro è uno a cui piace farsi desiderare e, considerato il prestigio di cui gode tra colleghi e appassionati e l’indiscusso talento di cui ha dato prova dall’inizio della sua carriera, viene proprio da chiedersi perché sia così restio a diffondere al mondo le sue composizioni. Sono passati otto anni dalla pubblicazione di Up (il suo ultimo disco vero) e stiamo ancora aspettando. Uno dice: l’importante è la qualità. Meglio un capolavoro ogni dieci anni che dieci prodotti mediocri a decade. E va bene. Ma quello che fa rabbia è che in queste ere geologiche che separano una chicca dall’altra Gabriel si cimenta in progetti paralleli. Ma diamine! Fai il tuo lavoro, chiuditi in studio e componi, è per quello che ti paghiamo! E invece no.
Il brutto è che noi gabrieliani siamo così in crisi di astinenza che alla fine questi progetti intermedi ce li beviamo avidamente, piccoli astri che non brillano se non di luce riflessa e che non fanno altro che ritardare l’incontro con il prossimo vero sole, piccole quantità di metadone in attesa della prossima dose. La triste logica del “mejo che gnente”, insomma.
Cerco di ricapitolare, a uso e consumo di chi non ha questa scimmia (e di scimmie mi toccherà parlare anche dopo, come vedrete), provando a sintetizzare in dieci righe la carriera di Peter Gabriel che – a questo punto l’avrete capito – è l’Artista che mi ha folgorato sulla via di Damasco quando ero ancora un ragazzino che ascoltava lo Zecchino D’Oro, colui che mi ha fatto innamorare della musica rock, colui per il quale ho messo i soldi da parte per comprare il mio primo CD, il primo poster da appendere in cameretta, il biglietto per il mio primo concerto (Palaeur di Roma, 13 giugno 1987, me lo ricordo come fosse ieri), insomma il responsabile di tutta una serie di sverginamenti artistico-musicali che non possono non aver lasciato il segno. Per cui anche se adesso ascolto largamente altro, l’imprinting è pur sempre l’imprinting, quindi appena sento aria di novità in casa Gabriel mi sale alla bocca quella bavetta pavloviana che conosco bene.



Peter Gabriel nel 1976, al lavoro sul suo primo disco solista.
Fonte: synergy-emusic.com


La carriera in sintesi, si diceva. Peter Gabriel, suddito del Regno Unito, classe 1950, frequenta una delle più prestigiose scuole private del Surrey, la Charterhouse, dove incontra alcuni dei membri con i quali nel 1967 fonderà i Genesis (andate a chiedere oggi a un adolescente chi sono i Genesis. Se vi dice bene vi risponderà che sono il gruppo di Phil Collins). Dopo aver militato qui per otto anni, consegnando alla storia del rock dischi che sono considerati capolavori anche da chi quel genere musicale lo frequenta poco, molla tutto e intraprende la sua bradipesca carriera solista.
Qui occorre fare una precisazione: i primi quattro dischi solisti di Gabriel non hanno titolo (i successivi tre in compenso hanno tutti un titolo di due sole lettere, a riprova di una incurabile stitichezza creativa perfino nell’onomastica delle opere). Sebbene esista un costume mai pienamente ufficializzato che affibbia ai primi quattro album un titolo sostitutivo in ragione del soggetto di copertina (segnatamente: “Car”, “Scratch”, “Melt” e, chissà perché, “Security”) qui nell'Urbe noi giovani adepti eravamo usi riferirci molto più semplicemente ad essi con gli epiteti “er primo”, “er secondo”, “er terzo” e finalmente “er quarto album de Peter”.



Le copertine dei primi quattro album di Peter Gabriel


Insomma, all’inizio il Nostro è abbastanza prolifico. “Er primo” esce nel 1977 ed è seguito già l’anno successivo da “Er secondo”. “Er terzo” è del 1980 e “Er quarto” del 1982. Siamo a un disco ogni due anni al massimo, e ci si può stare.
Dovrei parlare anche dei contenuti, ma rischieremmo di andare davvero per lunghe e le dieci righe entro le quali mi ero ripromesso di tracciare la struggente carriera del nostro formidabile genio sono già state ampiamente superate. Mi limito a dire che i primi due dischi rivelano qualche incertezza (il primo anche a causa della tonitruante produzione di Bob Ezrin, il secondo per qualche condimento chitarristico di troppo da parte di Robert Fripp), ma ci sono delle indiscusse prove di talento gabrieliano. È però con i successivi due album che non è più esagerato parlare di capolavori. “Er terzo” e soprattutto “er quarto” sono come i dipinti degli antichi maestri che hanno fatto da modello per generazioni di manieristi a venire. Non è tanto la qualità e la quantità degli ingredienti messi insieme (che pure è altissima per entrambe le grandezze: teorie psicanalitiche, suoni etnici, nevrosi intimiste, elettronica, sperimentazione, una voce da brivido), quanto il perfetto equilibrio tra gli stessi. E si aggiunga: Gabriel è uno dei pochi che quando fa musica world non scade automaticamente nel soporifero e/o nell’inascoltabile folkloristico. Confrontate ad esempio la prodigiosa San Jacinto del suo quarto album con un pezzo a caso da Music for the Native Americans di Robbie Robertson (ho preso apposta come paragone un rocker di alto lignaggio), e ditemi se non salta subito all'orecchio la differenza che c’è tra una grande canzone rock che parte da suggestioni etniche e un collage delle stesse suggestioni che sfociano però in brani niente più che interessanti.
Ecco. Una delle cose che mi piacciono di Gabriel è proprio quella capacità di fare il proprio mestiere (l’autore di musica rock) senza perdere mai di vista il risultato del suo lavoro. E cioè, banalmente: canzoni rock. Può sembrare lapalissiano, ma da quando esiste quella cosa multiforme e sfuggente che chiamiamo “musica leggera” troppo spesso artisti, anche in buona fede, hanno cercato di farla diventare qualcos’altro con esiti che di frequente erano molto ma molto inferiori agli sforzi messi in campo (è un discorso che credo di aver già affrontato in passato su queste pagine elettroniche). Invece Gabriel fa l’esatto opposto: prende quel “qualcos’altro” e lo comprime dentro alla musica leggera fino a distillare canzoni. Pure, semplici, meravigliose canzoni. (Sto scrivendo a ruota libera e allora una divagazione in più o in meno non farà differenza. È quello che ad esempio fanno i Baustelle – che sto ascoltando a ripetizione in questo periodo – quando partono dallo stile delle colonne sonore di Ennio Morricone per confezionare perfette pop song italiane).



Le copertine dei successivi tre album


Ma torniamo ai nostri uffici cronologici. Dopo i primi quattro album cominciano le battute di arresto: So esce nel 1986, dunque a quattro anni di distanza dal precedente. Bisogna aspettare altri sei anni per ascoltare Us (1992) e poi ancora dieci (!) per Up (2002). Anche qui ogni sfiancante attesa è ripagata da dischi di una qualità che la metà basterebbe (questo è sicuramente vero per So e Up, un po’ meno forse per Us, ma stiamo parlando di sfumature tra vari livelli di eccellenza). Per carità, non si può mettere fretta al genio, l’ispirazione lavora secondo meccaniche arcane e, come diceva la Yourcenar, il tempo è un grande scultore. Però sette sole opere in un arco di 25 anni fanno pensare.
Fanno pensare, intanto, a un Gabriel chiuso nel suo antro a smontare e rimontare, a incidere continuamente nuove tracce, a scartare e ripescare fino alla nausea. Un Gabriel iper-perfezionista, e sicuramente è cosi (e si sente). Ma la realtà è anche un’altra, ed è la realtà di un artista costantemente ossessionato dal dare vita a grandi progetti paralleli, quei famigerati progetti interlocutori che lo tengono lontano (e tengono lontani noi) dal suo vero lavoro.
Vediamo allora cos’altro ha combinato Peter Gabriel negli ormai oltre trent’anni di carriera solista.
Nel 1980 fonda il WOMAD (World of Music, Arts and Dance), un’organizzazione per la promozione e la realizzazione di eventi culturali con la partecipazione di artisti di ogni parte del globo. Nel 1989, costola del WOMAD, dà vita alla Real World, casa discografica specializzata in musica etnica. Gabriel insomma si inventa produttore, non contento dei suoi impegni come autore e performer (sì, perché le sue esibizioni dal vivo sono veri e propri spettacoli multimediali che impegnano il Nostro in lunghe fasi preliminari di ideazione e realizzazione). Poi si invischia in qualche avventura imprenditoriale, come We7, il sito che distribuisce musica digitale legalmente gratis grazie a spot pubblicitari inseriti all’inizio dei brani, oppure la Solid State Logic, casa produttrice di console e altro hardware audio.
E ancora l’iniziativa umanitaria Witness, che prevede la donazione di videocamere e fotocamere agli abitanti delle aree del pianeta dove i diritti umani sono a rischio affinché riprendano e diffondano le violazioni degli stessi. Progetta poi un videogioco musicale (Xplora1) e scrive la “colonna sonora” per il Millennium Dome di Londra (che poi finisce in un disco, Ovo), così come firma vere e proprie colonne sonore cinematografiche che chi scrive, pur salvando qualche brano, non ritiene decisive (Birdy per l’omonimo film di Alan Parker; Passion, per L’Ultima Tentazione di Cristo di Martin Scorsese, Long Walk Home per La Generazione Rubata di Philip Noyce). Ci scappano anche un paio di dischi dal vivo che in tutta onestà restituiscono ben poco dell’energia e dello spettacolo dei concerti gabrieliani (Plays Live nel 1983 e Secret World nel 1994). Questa, in sintesi, una panoramica dei progetti paralleli. E probabilmente sto tralasciando qualcosa.



Scratch My Back


Ora, qual è l’ultimo coniglio che esce fuori dal cappello? Si chiama Scratch My Back e tanto per cambiare non è il nuovo disco vero di Peter Gabriel. È qualcosa di meno e qualcosa di più. Qualcosa di meno, perché non sono nuove composizioni, ma cover di canzoni di altri artisti. Qualcosa di più, perché per complicarsi la vita e trovare scuse per rimandare il suo lavoro Gabriel non si è limitato a fare un disco di cover ma ha messo su un progetto trasversale (ma perché la notte non dorme e di giorno compone, piuttosto?). E più precisamente: io faccio una cover di una tua canzone, tu fai una cover di una mia canzone. Come gli scimpanzé che si spulciano a vicenda (ve l’avevo detto che sarei tornato a parlare di scimmie, no?). Scratch my back, appunto, grattami la schiena, il grooming reciproco che fanno gli animali. Dei dodici artisti “coverizzati” da Gabriel per ora solo tre hanno deciso di restituire il favore: Lou Reed, gli Arcade Fire e i Radiohead (il cui rifacimento della gabrieliana Wallflower sono curiosissimo di ascoltare) mentre David Bowie, alla quale Gabriel aveva “grattato” via Heroes, ha declinato l’invito e l’ha ceduto a Brian Eno (che in fondo di Heroes è coautore). Quando tutti i pezzi saranno pronti verrà pubblicato il seguito di Scratch My Back che si intitolerà I’ll Scratch Yours (ovvero “Io gratterò le vostre”. Secondo me i titoli dei due album andrebbero invertiti, ma tant'è).
Due parole su Scratch My Back e poi prometto che chiudo (stavolta la lunghezza della mia rubrica rischia di superare la somma dei testi di questo numero di Fili d’Aquilone…). Non è un disco memorabile, basato com'è su un’idea di produzione tutto sommato non dirompente: rinunciare a strumentazione elettrica e batteria e suonare tutto con archi e pianoforte (ma la mia generazione è venuta su con la “novità” dei dischi unplugged e delle riscritture sinfoniche dei classici del rock e vedere pubblicizzare tutto il progetto con lo slogan “Orchestra, no Guitars and no drums” mi ha lasciato un po’ freddino).
Per me una cover funziona quando ti mostra il lato nascosto di una canzone che hai ascoltato chissà quante volte. Ad esempio: un brano tex-mex-country come Ring Of Fire, con tanto di trombette mariachi nell'originale di Johnny Cash, fa uscire tutte le sue insospettabili venature sinistre e oscure nella rilettura new wave che ne hanno fatto i Wall of Voodoo. Una radice dark a cui mai avresti pensato e che pure, quando ascolti la cover, non puoi non sentire e accettare come autentica. Ecco, in Scratch My Back Peter Gabriel riesce a fare questo solo una volta, con la cover di The Boy In The Bubble che sprigiona una struggente atmosfera piovigginosa e inglese che nell'originale di Paul Simon era messa in ombra dagli orpelli sudafricani.
Per il resto a fianco di buoni pezzi (Mirrorball, Aprés Mois, Flume) c'è anche qualche pasticcio (My Body Is A Cage, sfiancante) e qualche delusione (Listening Wind dei Talking Heads, dalla cui adozione gabrieliana mi aspettavo molto di più).
Questo è Scratch My Back, questa è la dose di metadone con il quale dobbiamo cercare di arrivare al nuovo vero disco. Si vocifera che si intitolerà I/O (tanto per cambiare, due sole lettere) e che Gabriel sia al lavoro su circa 130 bozzetti di composizione. Sull'anno di uscita ci mettiamo il cuore in pace. Quanto al contenuto, vale il vecchio slogan che la casa discografica coniò all'epoca del suo esordio da solista: «Expect the unexpected». E noi aspettiamo.



Peter Gabriel, oggi



federico.platania@samuelbeckett.it