FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 15
luglio/settembre 2009

In cornice

 

L'UOMO NEL QUADRO

di Damiano Zerneri



Per raccontare... o per giustificarmi dell’iniqua condotta che giuro s’origina dalla scorza dell’età virile, e in essa di ciò che guida all’essere in procinto di compiere azioni delle quali avrò ahimè a dire oltre – di come esse mi perdettero portandomi a dove sono ora, a quartiere nel limbo, privo di ricetto alcuno e di pace – potrei cominciare col ricordo del tempo in cui mi misero a fare il soldato. Che là quando giungeva l’ora del rancio l’aria d’improvviso s’imbeveva di grascia al comparire dei paioli della razione di sussistenza, ingenerando a tutto il battaglione una frega di cucchiarelle che pronti tiravamo fuori dal tascapane.

Certo, bisogna dire che davvero essa aria di cucina prendeva alla gola dall’unto, questo nonostante non vi fosse nel fluido della zuppa che l’ombra di ossi di bue che dessero sostanza.

A supporto di codesta magrezza proteica, poi, solo una rada verdura a foglia grossa che si sfaceva col calore, sai che sollazzo. Sì, ossi ve n’erano pochi, e inoltre con attaccata assai scarsa la polpa, oltre che una midolla pari quasi a quella del legno e non della materia che era stata viva.

Malgrado questo c’avventavamo come i cani selvatici, con le trippe smosse dalla fame ma anche silicate da tutta la polvere mandata giù ad essere in marcia fin dall’alba. Come i cani selvatici che si morsicano tra loro quando c’è nell’aria il richiamo, dolce, convesso, della femmina.

Non dico tanto, ma da soldato per giorni interi neanche l’acqua in viso ti gettavi. La maglia da sotto si trasformava con l’andar del tempo – delle campagne, de’ li assedi che magari conducevi così a lungo da dimenticare tu pure il ciclo delle seminagioni, perso tra una scaramuccia e l’altra sotto le mura ormai dirute simili a quelle dell’evo in cui pel mondo andavano ancora cavallo e cavaliere entrambi bardati nella cotta di metallo – la maglia si faceva colore del pagliericcio mutatosi in guano nell’umidità dell’impiantito, o della lettiera di fortuna quando i contadini impauriti dal passaggio delle truppe danno asilo nelle mangiatoie, ove dormi caldo dentro il fiato delle vacche.

Spulciavamo, sgrezzavamo quei panni la sera al campo, esplodendo le zecche tra le ugne negre di indice e pollice, di fuori per luce la giga di faville dei fuochi notturni.

Il grosso del sedimento dal corpo lo si toglieva semmai in certi pomeriggi di giornate calde, quando la marcia prevedeva una sosta da poterci gettare vestiti in un canale lungo il cammino, lasciati spadoni e schioppi in cumuli sulla riva.

Sopra di noi, ricordo, gravitavano estive nuvole di pula.

Non posso nascondermi di quanto fosse bella, in ispecie vista da qui, quella vita nella quale era come diventar parte della terra, ma nel contempo aver nei confronti d’essa la distanza che separa il consistere del bianco pane dal piombo della munizione che carichi nella colubrina.

Per quello da immersi nell’acqua polita dei canali si bramiva come cervi, senza una vera ragione in ciò se non lo stare in braccio ad una libertà che afferra anche navigando a scalmi abbandonati in prossimità della morte! E non lo dico certo per discolparmi, v’è da credermi.

E dunque. Per quanto dei periodi felici della vita ci s’illuda, all’atto di viverli, di serbarne tutta la fragranza anche per i giorni che c’attendono avvenire, ovvero quando le oggettive cogenze quotidiane trascineranno inevitabilmente altrove, non senza sgomento detta fragranza la si vede invece dileguare. E così anche a me accadde, tranne poca ma non derogabile cosa, vista ora da quaggiù (quassù?).

Ciò che d’allora veramente non ci abbandonò (in un difensivo “noi” che tutto vuole comprendere) non sono invero cose come quelle che ho descritto poco sopra, nemmanco il fragore maschio/volgare del cameratismo, l’attraversamento in colonna delle terre conquise sul campo, e a seconda delle sorti della guerra il vedere che nei paesi le genti si inchiavardavano dietro i portoni.

Oppure no, niente portoni, altre genti d’altri luoghi ad acclamare la truppa, nonostante le botti col vino addirittura le sotterrassero, che ad andarle a snidare per toglierci la sete bisognava buttare a terra i padri di famiglia e mettergli il ferro contro la gola.

Questi travagli sono la quotidianità del soldato, tanto che noi non ci si faceva neanche caso al fatto di praticare la celebre violenza di chi penetra le mura e depreda la roba d’altri. Del resto se non ti rendi non dico satollo, ma almeno da ritrovarti sfamato, con la pancia mezza piena, come ti puoi comportare in battaglia?

Ma aspetta... a quelli, i villici, poiché gli preservi la cotenna dallo stocco dell’invasore, allora eccoli a coprirti di fiori, ma rivoltargli di saccoccia due o tre secchi di sidro, un capretto da sventrare o qualche chilata di salsicce gli devi mettere il pugnale contra il ventre (poi chiaro che all’ultimo non affondi; all’ultimo con un colpo assai destro la lama la tiri all’insopra e tagli via la cinta che regge le brache al villico, così che gli crollano i panni mentre lui, nel terrore, tra le risate generali ti confessa financo dove ha nascosto le carni d’oca più grasse, quelle che ha messo a conserva dentro a noci di un grasso limpido o puro che pare vetro di chiesa).

Non so perché mi distendo dentro questo vaniloquio che ha solo finalità di differire/procrastinare e non dico invece almeno una parola che sia a parziale discolpa di ciò che ero in punto di compiere.

Dicevo infatti che quello che piuttosto ci rimase, e solo adesso, nella situazione in cui alfine mi son venuto a trovare, dentro a questa risalita di sdegno per me stesso che mai avrei immaginato di includere nell’animo mio, animo che, quand’anche ne avessi avuto reale percezione, potevo solo vantare essere quello d’un semplice e serio lavoratore, brav’uomo, sano membro della comunità... aspetta, lo devo pur ammettere che quello che ci rimase anche nella vita di comuni cittadini era il retaggio di quando, facendoci forti della condizione di fanti equipaggiati di tutto punto, avessimo molte volte avuto a profittare della nostra forza sulle popolazioni inermi.

In particolare, anzi, no, soltanto, abusare delle giovani donne, che andavamo a svellere casa per casa dai nascondigli di fortuna che ormai conoscevamo per la consuetudine di una lunga pratica, mentre fuori venivano messi a fuoco i paglioni, i portanti di legno delle case alte e strette.

Nell’irrompere quel medesimo bramire che avevamo nei lavacri di massa dentro ai canali, o scagliandoci (per il coraggio v’era stata in precedenza una distribuzione extraordinaria di acquavite a tutta la truppa) di tra la gragnola di proietti che il nemico ci scagliava contro falciando fila per fila ma senza arrestare l’avanzata.

Quante servette, quante mogli, quante primogenite di famiglie onorate ho riversato sul pavimento a franger loro le più intime carni? E mi mordevano o graffiavano; ci fu pure una che tentò di infilarmi le dita negli occhi per cavarmeli di là come uova ancora da sotto al bucio della gallina. Non dico oltre su come finì quella fanciulla...

E comunque quante ne ho picchiate da far svenire o peggio, per essere poi libero d’agire a mio piacimento. Quante vittime enumerate a fine giornata insieme ai compagni d’armi. Quanti famigli ho ridotto all’impotenza con lo spadone prima di sfogare le mie brame sulle donne di casa.

Ed era un sovrappiù di riuscita quelle volte in cui capitava che violate con isforzo, dalle tenere valve uscisse un sangue denso come succo.

Con qualche commilitone di quegli anni è capitato in seguito di ritrovarsi, ormai rincasati stabilmente alla vita civile, a riannodare i ricordi appunto nella loro natura ferina e di prepotenza brada, ritornando col dettaglio a episodi i più rappresentativi, per noi, di qualche donna predata e poi lasciata in un canto.

Refe brutale quello che andavamo ad intessere nelle nostre chiacchiere, che con un moto prima d’ellissi e poi rovinoso procedevano disarticolandosi per l’alcole, la fermentazione dentro ai nostri ventri di tutto quel bere. Del resto la deregolazione dei sensi l’avevamo conosciuta di già in quei nostri tempi di militanza nell’armata, e di certe cose poi non si ha più dimenticanza, persino se rientri in una vita d’ogni giorno improntata alla morigeratezza.

Certo, ridere adesso delle atrocità passate, in sovrappiù largendoci l’un l’altro grandi manate sulle spalle, non dava di noi segno di aver cangiato in molto la natura con cui vivevamo i lontani giorni da soldati, ma io posso assicurare che smessa la divisa la mia vita poco o nulla manifestava di quelle che ormai erano soltanto antiche, trascolorate devianze.

Avevamo scordato ormai, persino nei sogni, i cumuli di cadaveri nei sabbioni, eppure quando c’incontravamo non mancavamo di assegnarci l’un l’altro una qualche grande investitura, cavalieri neri di peccati a non nominarsi, con la ciucca in corso, con l’ipotetica feluca in capo, per il numero copioso di tutte quelle che stuprammo una volta presa questa o quella città, debbo confessarlo.

Ma cittadini! Io veramente non posso spiegare ciò che mi prese... Che giorno era, l’avant’ieri, mercoledì pomeriggio verso sera, ieri mattina, domenica all’ora della funzione?

Davvero ho smarrito facoltà di misurare il tempo.

Vorrei rammentare che nonostante tutto quanto ho esposto fino ad ora e di cui spero mi sia dato atto della sincerità in essere, io sono ora un rispettabile commerciante in granaglie, ammogliato, abitante nel villaggio di Y, appena fuori i confini delle porte daziarie, regolare contributore con oboli alla Camera dell’Ospizio di povertà cittadino.

Sono in definitiva, pur con le mie occasionali piccinerie, che son quelle di un qualsiasi essere umano per come lo conosciamo, uno come voi, uno probo, devoto all’autorità, industrioso.

I piccoli segreti o le pulsioni non-nominabili che abbiamo le teniamo ben chiuse nel tiretto dello spirito, non raccontiamoci storie.

Anche voi, sì anche voi, non voltate la faccia dall’altra parte. Nudi siamo tutti davanti alle nostre miserie, uguali alla lepre che sanguina spellata e ancora inchiodata al palo. Anche voi... che alzate il dito contro di me, certo.

(ma fuori tutto è otturato da un silenzio color rosso cinabro).

Tornando a quel giorno, la ragazza, la fantesca della nostra famiglia, aveva il pomeriggio di libertà. Ma invece di andare a spasso, magari con un innamorato, era rimasta a casa. Aveva detto di sentirsi un poco indisposta. Era rimasta lì con addosso il vestito della festa, dismesso l’abito quotidiano delle faccende casalinghe.

Mia moglie e mia figlia erano uscite per delle commissioni.

Più tardi sono sceso dabbasso. Passando presso la sala piccola ho visto la ragazza che dormiva seduta al tavolo, con la testa poggiata nel palmo. Davanti a lei se non ricordo male c’erano un piatto con della frutta, una brocca.

Subitaneamente, non chiedetemi come, il sangue m’è entrato come in una combustione. È possibile che col tempo la vita coniugale avesse proceduto a render tenui le normali o sane accensioni della brama sessuale? Assolutamente sì, tant’è vero che negli anni capitò qualche volta, anzi, anche abbastanza spesso, che mi rivolgessi a delle prostitute in città.

E comunque quella fantesca, la quale era al nostro servizio da poco tempo, saranno stati un paio di mesi, m’era piaciuta da subito.

Era fresca, con la pelle all’apparenza, e credo anche al tatto, ove fosse stato possibile carezzarla, come una foglia di erba salvia.

Ma come fare, come saltare il fossato e dar corso alle voglie che pure v’erano, si levavano nel ventre sotto forma di lingue di fiamma, di sicuro non agevoli da estinguere? Come aver facoltà d’agire, dentro casa mia, con attorno moglie e figlia e anche un cognato scapolo semidistrutto dalla podagra...?

Ciononostante alla fantesca, la quale era una semplice, invitta ragazza che veniva dalle campagne circostanti, pensavo con sempre maggior frequenza, in un flusso emotivo che aveva terminazioni in una gora fonda dentro me ove s’accendeva appunto il sangue, nell’istinto sempre vigile.

Per cui, come detto, non so proprio cosa mi prese, ma mi diressi verso la stanza.

Neanche sapevo cosa avrei fatto, se avrei adoperato subito la forza o se, una volta svegliatala, avrei tentato di convincere la ragazza con delle blandizie, magari qualche vaga promessa.

Ma ecco che sulla soglia, in prossimità della preda, non so come, non sono in grado di spiegarlo in nessun altra maniera, fu come se scomparissi. E con una scioccante agnizione mi ritrovai qui, a quartiere in questo che chiamo limbo per non saper che altro dirne, ove la mia voce risuona e risuona e risuona, senza che alcun altro suono, anche il più piccolo fruscio d’aria costretta, proceda a risponderle.


Nota dell'autore
Il riferimento del racconto è a un quadro di Johannes Vermeer, grande pittore della “Dutch golden age”, vissuto nel diciassettesimo secolo in Delft, cittadina della provincia olandese rinomata all'epoca per le sue manifatture di maiolica.
Non mi dilungo su Vermeer, bensì mi concentro su un suo quadro dal titolo di “Giovane donna assopita” (A maid asleep).
Si tratta, tra quelle pervenuteci, di una delle prime opere del maestro di Delft, se non ricordo male la seconda rappresentante una scena cosiddetta “di genere” (genere inteso ovviamente secondo i canoni dell’epoca). Eccola:



(ca. 1656-1657, The Metropolitan Museum of Art, New York)


Qualche anno fa, degli studiosi prendono il quadro e lo sottopongono ad un esame ai raggi x. Dall’esame risulta che originariamente Vermeer aveva dipinto un uomo nel vano della porta, salvo poi cancellarlo in uno stadio successivo del lavoro. Le ragioni di questa cancellazione sono sicuramente da riferirsi ad una questione di equilibrio generale della composizione. Del resto Vermeer pare dedicasse lunghissimi periodo di tempo allo studio della disposizione delle figure nelle proprie tele, le quali spesso e in maniera allusiva includono figure femminili accanto a sedie vuote, come a dipingere la “presenza” femminile unita alla “assenza” maschile.
In questo racconto ho voluto immaginare quell'uomo, chi fosse (per sommi capi), cosa gli frullasse nella testa prima di scomparire a confessarsi nel vuoto di un limbo di colori a olio spatolati ad arte.


(Il racconto è apparso sul blog dell’autore strindberg.livejournal.com)


nuotatore@gmail.com