FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 14
aprile/giugno 2009

Infanti

BAMBINA E POETA
La breve vita di Sabine Sicaud (1913-1928)

di Viviane Ciampi



Capita spesso che le poesie dei cosiddetti “bambini-prodigio” risultino insopportabili per sdolcinature e artificiosità, quando non sono addirittura “aggiustate” dai genitori o da qualche editore in vena di creare un caso.
Ma come sempre esistono le eccezioni e una di queste si chiama Sabine Sicaud, una bambina dal destino insolito, vissuta molto tempo fa in una cittadina del Sud Ovest della Francia. Aveva appena undici anni, la piccola, quando si mise in luce in un concorso di poesia della sua regione e fa impressione trovare tanta competenza e maturità nelle pagine dei suoi quaderni, quaderni dove peraltro scriveva i primi brevi componimenti già dall’età di sei anni, per una autentica, insopprimibile vocazione alla poesia. Racconta Odyle Ayral-Clause*, la biografa di Sabine a proposito dei successi letterari della bambina, nel 1924:

Quando lo scrittore Marcel Prévost ebbe tra le mani Le petit cèpe (Il funghetto porcino), poesia inviata da una bambina di undici anni, pensò che si trattasse di una mistificazione. [...] D’altronde, in quanto presidente della sezione poesia non poteva eliminare senza prove un componimento di tale qualità. In più, la faccenda aveva acceso la sua curiosità. Voleva vedere da vicino quella misteriosa bambina, per fugare ogni dubbio.
Invitò Sabine e la madre nella sua proprietà di Vianne e le portò a fare una passeggiata. Scorgendo Fafou, il gatto nero di casa, la cui sagoma si stagliava in controluce, chiese alla bimba di dedicargli una poesia. La bimba si mise a improvvisare.
Dopo un po’, quando la poesia fu finita, Prévost dovette rendersi all’evidenza: Fafou valeva la poesia Il funghetto porcino, un piccolo gioiello di duttilità e sapienza botanica; anzi era migliore della prima. Sabine giocava sulla reputazione diabolica dei gatti neri, attribuiva a Fafou un’ambiguità conturbante in cui l’animale familiare pareva nascondersi dietro generazioni di sembianze inquietanti.

Arduo è qui stabilire quale fosse la molla che con animo febbrile le facesse stendere tanti versi nei quaderni. Forse il mistero di Sabine Sicaud rimarrà tale e tanto vale lasciarci trascinare nel suo mondo fiabesco e prendere da lei l’ingenuità, quel modo di spalancare le pupille di fronte alla vita e quella forza sovrannaturale di fronte alle difficoltà.
Già dalle prime liriche in versi, si manifesta la capacità lirica, meditativa e la voglia d’incontrare altre culture, altri popoli, altre razze, come si diceva allora. Frequenti nel lessico, i termini tecnici o scientifici (come i movimenti di cinepresa per l’allora nascente cinema).
Tra i temi spicca, preponderante, l’amore per la natura col rinnovarsi delle stagioni, e fin qui, forse, potremmo anche non meravigliarci per il fatto che una bambina sensibile e osservatrice vagheggi la natura. Ma di quel mondo sapeva far condividere sia l’aspetto gioioso sia l’aspetto tragico, quello più legato alla condizione umana: «Dovrò rassegnarmi / a non più vedere il tuo sottile volto / rianimarsi?», scrive a proposito del tamerice intirizzito dal freddo invernale mentre in altri versi si volge al fungo porcino, tremante, poiché deve far fronte al piede umano che rischia di schiacciarlo.

La bambina poeta che incantò persino una grande scrittrice e intellettuale, animatrice dei salotti dell’epoca come la contessa Anna de Noailles, una delle promotrici di Marcel Proust, coltiva il dono di meravigliarsi; dono che l’accompagnerà per tutta la sua breve esistenza, dietro i vetri della grande casa di famiglia denominata “La solitude”. Alla luce di questa constatazione, poteva allora passare sotto silenzio la scoperta sconvolgente dell’immagine in movimento che era il cinema? Il cinema la faceva sognare e divertire. Al cinema, finché aveva potuto andarci, scopriva Chaplin e Buster Keaton e non le dispiaceva combattere lo scetticismo di chi non amava le diavolerie del mondo moderno, come dimostra la poesia dedicata «a un vecchio signore che non capisce nulla di cinema».

Sabine, denominata “il piccolo elfo”, nel suo viaggio immobile, trovò il sistema - al pari di Salgari - per inventarsi un’esistenza avventurosa al punto di scrivere di luoghi lontani (Vancouver, la Russia), luoghi visti in cartolina o incontrati solo nella ricca biblioteca di casa. Infatti, stende sulla pagina versi come: «quando vivevo a Firenze». La madre, dopo la morte della figlia svelerà: «Era come se Sabine possedesse una memoria di prima della nascita e in più credeva nella reincarnazione».
Attorno agli undici anni, quando ancora la sua vita scorre spensierata, scrive: «voglio vedere e conoscere tutto». La giovane poeta possedeva quel dono raro dell’empatia che la faceva essere castagna quando parlava delle castagne («Ricordo il sordo rumore / greve come una campana a morto / Di poveri frutti uccisi / Mentre cadono sul muschio»); che la faceva immedesimarsi al fungo quando incontrava i funghi. Parlava agli alberi e ai cavalli con lessico vasto e preciso, perdendosi in una profonda visione capace di rinunciare a forme esasperate di individualismo, arrivando alla perfetta identificazione. Nessun cespuglio, arboscello o fogliame attorno alla sedia dove restava per ore d’estate, nel suggestivo parco della “solitude” poteva risultare indegno del suo sguardo.

Un alto grado di consapevolezza la rende partecipe dei drammi del mondo. Voleva la pace ovunque, lei che era nata un anno prima della rovinosa Grande Guerra e di cui aveva certamente sentito i racconti in una famiglia dove - è facile supporlo - si parlava spesso di politica visto che il padre rimase fedele amico del grande pacifista Jean Jaurès, fondatore de L’Humanité. Jaurès era stato a suo tempo strenuo difensore dell’affaire Dreyfus, brutto pasticciaccio che aveva diviso la Francia. Poi avvenne l’agguato mortale del 1914 tesogli da un giovane rivoluzionario in un caffè di Parigi. Ma, tornando a Sabine, come ben sanno i poeti, nulla è più a rischio di leziosità che scrivere una poesia per la pace. Eppure, anche in questo caso, Sabine Sicaud conduce i suoi versi con estrema perizia, evitando i tranelli dell’effusione e del buonismo. Eccola nel componimento intitolato La pace: «Come la immagino? / Non lo so / forse bambina biondissima che tiene tra le braccia / rami di glicine».

Infine, la malattia, in tutto il suo orrore.
Le poesie scritte negli ultimi mesi, sempre sull’orlo dell’abisso, tra dolore e rari momenti di remissione dal dolore, tra timore della morte e capacità di guardarla in faccia, di sfidarla attraverso un amore inventato (quello per Vassilli, un interlocutore inesistente), non perdono la capacità di sedurre e persino di divertire. Come nelle invettive ai medici, incapaci di guarirla: «Non voglio dire che lo facciano apposta / Non si diventa apposta degli assassini». Il suo odio per i medici, numerosi, che la visitano, si fa sempre più feroce, man mano che ci avviciniamo alla fine: «Li immagino / come macellai / a turno, mi palpano». L’ironia si fa sarcasmo: «Oh, come riderei / Non si trattasse di cosa grave».
La madre racconterà più tardi a chi le chiedeva della malattia della figlia che gli ultimi tempi non era più possibile neppure lavarla tanto il povero corpo si era coperto di piaghe.
Gli ultimi giorni, consapevole a pieno del suo destino, arrivano i versi più belli. Vi si può scorgere una sorta di trascendenza. Sono versi brevi, senza titolo, tirati fuori col forcipe, e sempre dedicati al fantomatico Vassili: «Non parlare d’assenza / Tu che non sai».
E così, Sabine Sicaud, alla fine del suo tempo umano consegnò molti quaderni di una poesia senza tempo che le restituirono un’altra vita.
Per molti anni, i curiosi andarono a visitare la dimora di Villeneuve-sur-Lot. E qualcuno giurava d’aver visto danzare un piccolo elfo nel viale dei platani che porta alla “Solitude”, nelle sere di grande vento.


* Docente di francese in una università della California. Autrice del libro Le Rêve inachevé (Ed. Les Dossiers d’Aquitaine, Bordeaux, 1996)





POESIE DI SABINE SICAUD


DEMAIN

Tout voir – je vous ai dit que je voulais tout voir,
Tout voir et tout connaître !
Ah ! ne pas seulement le rêver... le pouvoir !

Ne pas se contenter d’une seule fenêtre
Sur un même horizon,
Mais dans chaque pays avoir une maison
Et flâner à son gré de l’une à l’autre – ou mieux,
Avoir cette maison roulante,
Cette maison volante, d’où les yeux
Peuvent aller plus loin, plus loin toujours ! Attente
D’on ne sait quoi... je veux savoir ce qu’on attend.

Tout savoir... Tout savoir de l’univers profond,
Des êtres et des choses,
De la terre et des astres, jusqu’au fond.
Savoir la cause
De cet amour qu’on a pour des noms de pays,
Des noms qui chantent à l’oreille avec insistance
Comme s’ils appelaient depuis longtemps,
Depuis toujours – des noms immenses
Dont on est envahi,
Ou des noms tout petits, presque ignorés.

Longs pays blancs du Nord, pays dorés
Du sud ou du Levant plein de mystère...
Et les jeunes, aux villes claires :
New York, San Francisco, Miami, des lumières,
Du bruit, de la vitesse, de l’espace...

Ah ! tout voir, tout savoir des minutes qui passent,
De celles qui viendront...
Demain, comme je t’aime !

Je ne fais qu’entrouvir les yeux, lever le front,
Commencer de comprendre.
Hier, savais-je même
Ce que c’était que respirer dans le jour tendre ?

Bonheur de voir, d’entendre,
Qui vient à vous dans un frisson ;
Tant de beauté, tant de couleurs, de sons...

Royaume de la vie !


DOMANI

Vedere tutto – vi ho detto che volevo vedere tutto,
vedere tutto e conoscere tutto!
Ah! non solo sognarlo... poterlo!

Non contentarsi d’una sola finestra
per lo stesso orizzonte,
ma in ogni paese avere una casa
e bighellonare con gaudio dall’una all’altra – o meglio,
aver casa con ruote
o con ali, da dove gli occhi
possano arrivare lontano, sempre più lontano! Attesa
di un non so che... dell’attesa voglio la chiave.

Conoscere tutto... tutto dell’universo profondo,
degli esseri e delle cose,
della terra e degli astri, fino in fondo.
Conoscere il perché
dell’amore per i nomi dei paesi,
quei nomi, che ronzano all’orecchio con insistenza
come se chiamassero da molto tempo,
da sempre – nomi immensi
di cui si è pervasi,
o minuscoli nomi, quasi ignorati.

Lunghi paesi bianchi del nord, paesi dorati
del sud o del levante intriso di mistero...
paesi giovani, dalle città chiare:
New york, San Francisco, Miami, luci,
baccano, velocità, spazio...

Ah! Impregnarmi di tutto, sapere tutto dei minuti che scorrono,
di quelli che verranno...
Domani, come ti amo!

Socchiudo appena gli occhi, alzo la fronte,
comincio a capire.
Immaginavo, ieri,
la gioia di respirare nel tenero giorno?

Felicità di vedere, d’intuire
l’avvicinarsi di qualcuno e abbrividire;
quanta grazia, colori, suoni...

Regno della vita!


FAFOU

     Chimère, dromadaire, kangourou ?
             Non. Rien que cette ombre chinoise,
Fafou, sur la fenêtre, à contre-jour, Fafou,
Toute seule et pensive... un fuchsia pavoise
L’écran vert derrière elle, et j’entends, à deux pas,
Des oiseaux qui l’ont vue et s’égosillent.

Fafou se pose en gargouille. Un œil las
Semble à peine s’ouvrir dans son profil où brille,
Cependant, quelque chose, on ne sait quoi d’aigu...
Par là, se cache un nid d’oisillons nus
Pour qui la mère tremble – Fafou songe.

Un tout petit pétale rouge, qui s’allonge,
Marque d’un trait sa gueule fine... Un bâillement.
Puis un autre... Fafou dormait Innocemment.  
Fafou dormait, vous dis-je ! Elle s’étire,
                La queue en yatagan,
Puis en cierge ; le dos bombé, puis creux. Le pire,
C’est qu’elle n’a pas l’air de voir, s’égosillant,
          La mère-oiseau dans l’if si proche...

          Une patte en fusil, assise, la voilà
Qui se brosse, candide, et sa robe a l’éclat
D’un beau satin de vieille dame où se raccroche
                           La lumière du soir.
Une dame ? Ou quelque vieux diable en habit noir ?
Fafou, je n’aime pas ces yeux d’un autre monde,
Ces yeux de revenant... Tout à l’heure croissants,
                 Maintenant lunes rondes,
      Pourquoi ces trous phosphorescents
      Dans cette face obscure ? Sur la toile
Qui se fonce, elle aussi – la toile du jardin
Où les pendants des fuchsias sont des étoiles
                  La robe d’un noir vif s’éteint...

Elle n’est plus qu’un badigeon d’encre ou de suie,
         Un pelage sinistre ! Où l’as-tu pris
Ce noir d’enseigne de chat noir lavé de pluie ?

Chat noir ou lion noir ? Chauve-souris,
Chouette, quoi ? Je ne sais plus. Sur la fenêtre,
Une tête où l’oreille plate disparaît...
Lézard, couleuvre ou tortue ? Ah ! Si près,
L’oiseau même ne sait qui redouter, quel être
Fantastique et changeant va ramper cette nuit
Dans le jardin au noir mystère de caverne !

          Du noir, du noir... Un point qui luit,
Deux points... deux vers luisants, vertes lanternes...
                         Fafou, je ne veux pas !
D’où reviens-tu, démon, de quel sabbat,
                   De quelle grotte de sorcière,
Lorsque tes yeux me font cette peur, tout à coup ?

                   C’est l’heure des gouttières,
De la jungle ! Foulant, d’un piétinement doux,
Une vendange imaginaire, sur la pierre,
Quelle arme aiguises-tu ? Je ne veux pas, Fafou !
Viens sous la lampe ! Un ruban rose au cou,
Un beau ruban de jeune fille, rose pâle,
Je te veux, comme en haut d’une carte postale,

          Une petite chatte noire, voilà tout...


FAFOU

    Chimera, dromedario, canguro? 
                 No. Soltanto quest’ombra cinese,
Fafou, sulla finestra, in controluce, Fafou,
tutta sola e pensosa... una fucsia si pavoneggia
lo schermo verde dietro lei, e sento, a due passi,
degli uccelli che l’hanno scorta e si sgolano.

Fafou si atteggia a statua. Un occhio stanco 
sembra schiudersi nel profilo dove brilla, 
tuttavia, qualcosa, un non so che d’acuto...
Nei dintorni, si nasconde un nido d’uccelletti nudi
per i quali la madre trema – Fafou sogna.

Un piccolo petalo rosso, che si allunga, 
segna con una riga il suo sottile muso... uno sbadiglio.
Poi un altro... Fafou dormiva Innocentemente.
Fafou dormiva, vi dico! Ella si stiracchia, 
                 la coda raccolta, 
poi a candela; il dorso convesso, poi concavo. Ma il peggio,
è quel fingere di non vedere che si sgola
        la madre-uccello sul tasso così vicino...

        Una zampa a fucile, eccola seduta
si spazzola, candida e il suo manto splende 
di un bel satin di vecchia signora dove si avvoltola
                         la luce della sera.
Una signora? O qualche diavolaccio in abito nero?

Fafou, non amo questi occhi d’un altro mondo,
questi occhi di fantasma... poc’anzi mezze lune,
                 ora lune rotonde,
         perché questi buchi fosforescenti
         in questa faccia oscura? Sulla tela
che a sua volta imbrunisce – la tela del giardino
dove i ciondoli delle fucsie sono stelle
                 il vestito di un vivo nero si spegne...

Più non è che una stesura d’inchiostro o di fuliggine,
        un pelame angoscioso! Dov’hai scovato
questo nero dell’insegna di gatto nero lavato dalla pioggia?

Gatto nero o nero leone? Pipistrello,
civetta, cosa? Non saprei. Sulla finestra,
una testa dove l’orecchio piatto scompare...
Lucertola, biscia o tartaruga? Ah! Così vicino,
l’uccello stesso non sa chi temere, quale essere
fantastico e cangiante striscerà questa notte
nel giardino dal nero mistero di caverna!

         Nero, ancora nero... un punto che brilla,
due punti... due lucciole, verdi lanterne...
                 Fafou, non voglio!
Donde arrivi, demone, da quale sabba,
          da quale grotta di strega,
quando, ad un tratto, i tuoi occhi mi spaventano?

           Questa è l’ora delle grondaie,
della giungla! Sfiorando, con dolce calpestio,
una vendemmia immaginaria, sulla pietra,
quale arma stai arrotando? Non voglio, Fafou!
Vieni sotto la lampada! Un nastro rosa al collo,
un bel nastro di ragazza, di un pallido rosa,
io ti voglio, come in un angolo di cartolina,

          una gattina nera, tutto qui...


MATIN D’AUTOMNE

C’est un matin... non pas un matin de Corot
Avec des arbres et des nymphes sur la terre,
C’est un coin tout petit, entre des murs de pierres
                     Pas bien hauts...
C’est un matin dans le petit jardin du presbytère.

              C’est un matin d’automne :
              Vigne rouge, dahlias jaunes,
Petits doigts tortillés de chrysanthèmes roux ;
Chute de pièces d’or sous l’aubépine, au bout ;
Un tournesol montrant sa face de roi nègre
Sous un vieux diadème en plumes raides, un peu maigres...
Arrosoir vert, près du géranium en pot.
C’est un matin, sans nymphes de Corot.

Le curé dort, la maison dort, le chemin dort,
Pendant que, doucement, tombent des pièces d’or...

       C’est un matin d’automne...
L’aube, qui s’est levée à pas de loup, d’abord frissonne
En peignoir rose... puis se met à rire dans le ciel,
Et tout devient rose comme elle, et rit comme elle,
Et ce sont des clartés roses et blondes telles
     Que le petit jardin doré semble irréel.
Réveillée en sursaut, dans le clocher, la cloche sonne :
     « Vite ! Vite ! Levez-vous, bonnes gens !
C’est le matin ! C’est le matin d’automne !
     Je sonne ! Il fait beau temps !
Entends, vieille servante en bonnet blanc, du presbytère
C’est l’heure, lève-toi... Lève-toi, vieux curé
        Vois les oiseaux, vois la lumière !
Prends ta soutane et ton bonnet carré
Ouvre ta porte et va... l’heure te presse !

L’allée a tous les tons fauves des vieux missels...
Va vite, ne t’attarde pas, sous le grand ciel
Au tout petit jardin plein d’allégresse...
Couleur de feu, couleur de fleurs, couleur de miel
Il est trop beau ! Tu le prendrais pour un autel.
     Tu manquerais la messe...»


MATTINO D’AUTUNNO

È un mattino... non un mattino di Corot
con alberi e ninfe sulla terra,
è un angolo minuto, tra muri di pietra
                non altissimi...
è un mattino del piccolo giardino di canonica.

         È un mattino d’autunno:
         vigna rossa, dalie gialle, 
piccole dita attorcigliate di rossi crisantemi;
caduta di monete d’oro sotto il biancospino;
un girasole che mostra la sua faccia da re nero
sotto un vecchio diadema di piume rigide piuttosto esili...
annaffiatoio verde, vicino al vaso di gerani.
È un mattino, senza ninfe di Corot.

Il curato dorme, la sua casa dorme, il sentiero dorme,
mentre, piano, cadono monete d’oro...

         È un mattino d’autunno...
L’alba si desta con passi felpati, s’increspa dal freddo 
in accappatoio rosa... poi scoppia a ridere nel cielo
e tutto si fa rosa come lei, e ride come lei,
e arrivano chiarità rosa e bionde tali 
         che il piccolo giardino dorato sembra irreale.
Risvegliata di soprassalto, nel campanile, la campana suona:
         «Presto! Presto! Alzatevi, buona gente!
È mattino! È il mattino d’autunno!
         Io suono! Il tempo risplende!

Ascolta, vecchia serva in berretto bianco di canonica
è l’ora, alzati... alzati, vecchio curato
         ecco gli uccelli, ecco la luce! 
Prendi la tua tonaca e il tuo berretto quadrato
apri la tua porta e va’... il tempo incalza!

Il viale ha assunto i toni fulvi dei vecchi messali...
Sbrigati, non indugiare sotto il grande cielo
nel piccolissimo giardino pieno di allegria...
Color fuoco, color fiore, color miele
è troppo bello! Lo scambieresti per un altare.
         Mancheresti la messa...”


LE CINÉMA

pour un vieux monsieur qui ne comprend pas le cinéma.

Trou d’ombre. Grotte obscure, où l’on sent, vaguement,
         Bouger les êtres. La pâleur de l’écran nu
Comme une baie ouverte, au fond, sur l’inconnu...
Musique en sourdine, tiédeur, chuchotements
                          Odeur de mandarine,
         De sucre d’orge et d’amandes grillées.
         Attente carillon d’un timbre qui s’obstine
         Petite danse de lueurs éparpillées.

         Puis, coup de soleil brusque. Le mystère
         De ce carré de neige s’animant.
Floraisons de jardins, pics, fleuves, coins charmants,
         Coins tragiques, villes, forêts, la vaste terre...
         La vaste terre, et le ciel vaste, et la magie
         De visages parlant des yeux, des lèvres,
                           Sans la voix.

                  Gestes précis, calme, énergie
                  Ou nerfs qui cèdent, fièvres
Bonheurs et désespoirs. Des paroles, pourquoi ?
                          Un sourire, une larme,
                          Un battement de cils...
          L’émotion n’est pas dans le vacarme.
                  Une ligne, des points... voici le fil
                  Du roman triste ou gai qui se déroule.
                  Aimes-tu voir les hommes s’agiter ?
                  Assis, tu regardes la foule.
Aimes-tu le désert ? Tu le parcours, l’été,
Sous un torrent de feu, sans autre peine
Que de laisser pour toi marcher les sables... Plaines,
Montagnes, mers, te livrent leurs secrets
                          Et le pôle est si près
Que Nanouk l’Esquimau l’accueille en frère ;
                          Et la jungle est si près
Que tu t’en vas avec le chasseur de panthères...
Ô beaux voyages que jamais tu ne ferais !

        Tous les héros, tu les connais,
        Ceux de l’Histoire et ceux de la légende ;
        Tous les contes des Mille et une nuits,
Les contes d’autrefois, ceux d’aujourd’hui
        Et les temples, et les palais,
Et les vieux bourgs où les clairs de lune descendent...
Tu les connais... Tu les connais, toi, prisonnier,
Peut-être, de murs gris, de choses grises, toi
         Dont la vie est grise ou pire...

Vois, des fleurs s’ouvrent, des oiseaux t’invitent, vois :
Aux vergers d’Aladin s’emplissent des paniers...
Cueille des rêves, toi qui fus un prisonnier !
           Ainsi qu’une arche de porphyre,
           La muraille s’écarte... Évade-toi !
Il pleut ou le vent souffle sur le toit,
Ou c’est juillet qui brûle, ou dans la rue,
C’est trop dimanche avec trop de gens qui bavardent
Viens dans ce petit coin merveilleux et regarde...

                           Ici, l’heure vécue,
Même terrible – tous les drames sont possibles ! –
        N’est qu’à demi terrible,
        Et te voilà, comme les tout-petits,
        Riant, toi qui pleurais... Tu ris,
Toi, vieux comme les écoliers que rien n’étonne.

Charlie est là... Charlie ! Et Keaton, et Rimsky.
                Et pour ce bon rire, conquis
Sur toi-même, c’est le meilleur d’eux-mêmes
                         Qu’ils te donnent.

Art muet, soit... N’ajoute rien. Tu l’aimes,
Tu l’aimeras, quoi que tu dises, l’art vivant
Qui t’offre son visage neuf et son langage,
Ses ralentis, ses raccourcis, tous les mirages,
                  Tous ces décors mouvants...
Près de ces gens qui, dans l’ombre, s’effacent,
Viens seulement t’asseoir, veux-tu, sans parti pris ?
De la nuit d’une salle étroite, aux longs murs gris,
Regarde ce miracle : un film qui passe...


IL CINEMA

Per un vecchio signore che non capisce il cinema.

Foro d’ombre. Grotte oscure, da dove spiare,
         strane movenze d’esseri. Il pallore dello schermo nudo
come un’apertura, di fondali ignoti... 
Musica in sordina, tepore, bisbigli
                    odor di mandarino,
        di zucchero d’orzo e mandorle abbrustolite.
        L’attesa, carillon dal timbro ostinato
        piccola danza di sparsi bagliori.

        Poi, brusco colpo di sole. Il mistero
        di questo lembo di neve che si anima.
Fioritura di giardini, cime, fiumi, luoghi incantevoli,
         luoghi tremendi, città, foreste, la terra immensa...
         Immensa la terra, e immenso il cielo, e la magia
         di volti che parlano con gli occhi, le labbra,
                             in assenza di voce.

          Gesti precisi, quieti, energia
          o nervi che scattano, febbre
felicità e disperazione. Parole, perché?
                             Un sorriso, una lagrima,
                             un battito di ciglia...
          L’emozione non fruttifica nel baccano.
                   Una linea, dei punti... ecco il filo
                   del romanzo triste che s’addipana.

                        Ti piace vedere uomini affannati?
               Seduto, guardi la folla.
Ti piace il deserto? Lo percorri, d’estate,
sotto un torrente di fuoco, senz’altra ambascia
che lasciare la sabbia camminare per te... pianure,
Montagne, mare, ti confidano segreti
                           e il polo è così vicino
che Nanuk l’esquimese fraternamente lo accoglie;
                           e la giungla è così vicina
che fuggi col cacciatore di pantere...
oh bei viaggi mai intrapresi!

       Conosci tutti gli eroi,
       quelli della storia e quelli della leggenda;
       tutti i racconti delle mille e una notte,
le favole antiche, quelle d’oggi
       e templi, e palazzi,
e vecchi sobborghi dove piombano chiari di luna...
ben li conosci... li conosci, tu, forse prigioniero,
di muri grigi, di cose grigie, tu
         la cui vita è grigia, peggio che grigia...

Vedi, fiori che sbocciano, uccelli che t’invitano, vedi:
nei frutteti di Aladino s’empiono le ceste...
Raccogli sogni, tu che fosti un prigioniero!
         Così come un’arca di porfido
         la muraglia si scosta... liberati!
Piove dove il vento infuria sul tetto,
o è luglio che brucia, o per la strada,
è troppo domenica con troppa gente chiacchierona
vieni in questo angolino meraviglioso e guarda...

                             Qui, l’ora trascorsa,
foss’anche tremenda – tutti i drammi sono possibili! –
          È terribile solo a metà,
          ed eccoti, come i bambini,
          a ridere, tu che piangevi, ridi,
tu, vecchio, come gli scolari, da nulla stupiti.

Charlie è qui... Charlie! e Keaton, e Rimsky.
          E per queste belle risa, splendida
conquista sul tuo umore, è il meglio di sé 
                            che ti hanno donato. 

Arte muta, e sia... non aggiungere nulla. Ti piace,
l’amerai, checché tu dica, l’arte viva
che ti offre il suo volto nuovo e il suo linguaggio,
le sue riprese al rallentatore, i suoi primi piani, tutti i suoi miraggi,
           le scenografie semoventi...
Vicino a questa gente che nell’ombra svanisce,
vieni a sederti, per un attimo, vuoi, senza pregiudizi?
Dalla notte d’una sala stretta, dai lunghi muri grigi,
guarda questo miracolo: un film che scorre...


CARTE POSTALE

Quand l’anémone rouge et les jacinthes bleues
Fleurissent les parcs d’Angleterre,
Une petite fille en robe rouge ou bleue
Descend les escaliers de pierre.

De green, les parterres, le lierre,
Les beaux arbres jamais taillés
Et les sous-bois pleins de jacinthes...

En robe rouge ou bleue, anémone ou jacinthe
Une petite fille est peinte
Dans le printemps vert et mouillé
De la vieille Angleterre.


CARTOLINA POSTALE

Quando l’anemone rossa ed i giacinti blu
addobbano i parchi d’Inghilterra,
una ragazzina in veste rossa e blu
discende gli scaloni di pietra.

Il prato, le aiuole, l’edera,
gli alberi splendidi mai potati
e i sottoboschi colmi di giacinti...

In veste rossa o blu, anemone o giacinto
una ragazzina è dipinta
nella primavera verde e fradicia
della vecchia Inghilterra.


JOURS DE FIÈVRE

Ce que je veux ? Une carafe d’eau glacée.
Rien de plus. Nuit et jour, cette eau, dans ma pensée,
Ruisselle doucement comme d’une fontaine.
Elle est blanche, elle est bleue à force d’être fraîche.
Elle vient de la source ou d’une cruche pleine.
Elle a cet argent flou qui duvête les pêches
Et l’étincellement d’un cristal à facettes.

Elle est de givre fin, de brouillard, de rosée,
Jaillit de chaque vasque en gerbes irisées,
Glisse de chaque branche en rondes gouttelettes.
Au cœur de la carafe, elle rit. Elle perle
Sur son ventre poli, comme une sueur gaie.
En mille petits flots, pour rien, elle déferle,
Ou n’est qu’un point comme un brillant dans une haie.

Elle danse au plafond, se complaît dans la glace,
Frappe aux carreaux avec la pluie. Ah ! ces cascades...
C’est le Niagara, vert bleu, vert Nil, vert jade,
C’est l’eau miraculeuse en un fleuve de grâce ;
Toute l’eau des névés, des lacs, des mers nordiques,
Toute l’eau du Rocher de Moïse, l’eau pure
D’une oasis perdue au centre de l’Afrique ;

Toute l’eau qui mugit, toute l’eau qui murmure,
Toute l’eau, toute l’eau du ciel et de la terre,
Toute l’eau concentrée au creux glacé d’un verre !
Je ne demande rien qu’un vert d’eau glacée...

Vous ne voyez donc pas mes doigts brûlants de fièvre,
Mes doigts tendus vers l’eau qui fuit ? Mes pauvres lèvres
Sèches comme une plante à la tige cassée ?
La soif qui me torture est celle des grands sables
Où galope toujours le simoun. Je ne pense
Qu’à ce filet d’eau merveilleuse, intarissable,
Où des poissons heureux circulent. Transparence,
Fraîcheur... Est-il rien d’autre au monde que j’implore ?

Alcarazas, alcarazas... un café maure
Et, dans la torpeur bleue où des buveurs s’attardent,
Un verre débordant parmi les autres verres,
Un verre sans couleurs subtiles qui le fardent,
Mais rempli de cette eau si froide, nette, claire...
Ah ! prenez pour cette eau ce qui me reste à vivre,
Mais laissez-la couler en moi, larmes de givre,
Don de l’hiver à ce brasier qui me consume.

Vous souvient-il de ces bruits clairs, dans de l’écume,
Au bord d’un gave fou ? J’ai soif de tous les gaves.
Les sabots des mulets, vous souvient-il, s’y lavent,
Les pieds du chemineau s’y délassent. Dieu juste,
Ne puis-je boire au moins comme le pré, l’arbuste,
Le chien de la montagne au fil de l’eau qui court ?
Cette eau... Cette eau qui m’échappe toujours,
Qui nuit et jour, obsède ma pensée...
Ne m’accorderez-vous deux gouttes d’eau glacée ?


GIORNI DI FEBBRE

Ciò che desidero? Una caraffa d’acqua ghiacciata
null’altro. Notte e giorno, quell’acqua nel mio pensiero,
scorre dolcemente come da una fontana.
È bianca, è blu a forza d’esser fresca
nasce dalla sorgente o da una brocca piena.
Ha questo vago argento che velluta le pesche
e lo scintillio d’un cristallo sfaccettato.

È di brina sottile, di nebbia, di rugiada,
sgorga da ogni vasca in iridati zampilli,
scivola da ogni ramo in tonde goccioline.
Nel cuore del boccale, ride. Stilla
sul suo ventre liscio come un sudore gaio.
In mille piccoli rivoli, per un nonnulla, essa irrompe,
talvolta è solo un punto, brillante in una siepe.

Balla sul soffitto, si compiace nello specchio,
bussa ai vetri con la pioggia. Ah! quelle cascate...
È il Niagara, verde blu, verde Nilo, verde giada,
è l’acqua miracolosa in un fiume di grazia;
tutta l’acqua dei nevati, dei laghi, dei mari nordici,
tutta l’acqua della roccia di Mosè, l’acqua pura
d’un’oasi smarrita nel centro dell’Africa
tutta l’acqua che muggisce, tutta l’acqua che mormora,
tutta l’acqua, tutta l’acqua del cielo e della terra,
tutta l’acqua concentrata nell’incavo ghiacciato di un bicchiere;
non chiedo null’altro che un bicchiere d’acqua ghiacciata...

Non vedete, dunque, le mie dita ardere di febbre,
le mie dita tese verso l’acqua che fugge? Le mie povere labbra
asciutte come una pianta dallo stelo spezzato?
La sete che mi tortura è quella delle grandi sabbie
dove galoppa sempre il simun. Non penso
che a questo rivolo d’acqua meravigliosa, inesauribile,
dove sguazzano pesci felici. Trasparenza,
freschezza... non v’è null’altro al mondo che io implori?

Alcaraza*, alcaraza... un caffè scuro
e, nel torpore azzurro dove indugiano i bevitori,
un bicchiere traboccante tra gli altri bicchieri,
un bicchiere seppur non screziato da sottili sfumature
ma ricolmo di quell’acqua così fredda, netta, chiara...
Ah! in cambio di quest’acqua prendete quel che mi resta da vivere,
ma lasciatela scorrere in me, lagrime di brina,
dono dell’inverno a questo braciere che mi consuma.

Vi sovviene questo bruire chiaro, nella schiuma,
sul ciglio di un torrente furioso? Ho sete di tutti i torrenti.
Gli zoccoli dei muli, ricordate, vi si lavano,
i piedi del girovago vi si riposano. Dio dei giusti,
non posso bere almeno come il prato, l’arbusto,
il cane della montagna sul filo dell’acqua che scorre?
Quest’acqua... che mi sfugge sempre
che, notte e giorno assilla il mio pensiero...
Non mi negherete due gocce d’acqua ghiacciata?

* Tipo di vaso spagnolo.


Dernières pages

N’oublie pas la chanson du soleil, Vassili.
Elle est dans les chemins craquelés de l’été,
dans la paille des meules,
dans le bois sec de ton armoire,
         Si tu sais bien l’entendre.
Elle est aussi dans le cœur du criquet.
Vassili, Vassili, parce que tu as froid, ce soir,
ne nie pas le soleil.


Ultime pagine

Non dimenticare la canzone del sole, Vassili.
È nei sentieri screpolati dell’estate,
nei pagliai
nel legno secco del tuo armadio,
         se impari a sentirla
è anche nel cuore della cavalletta.
Vassili, Vassili, poiché hai freddo stasera
non rifiutare il sole.


Traduzione dal francese di Viviane Ciampi.




Sabine Sicaud
figlia di una giornalista e di un noto avvocato nacque a Villeneuve-sur-Lot nel sud-ovest della Francia, il 23 febbraio 1913, nella casa di proprietà della madre denominata “La solitude”. Questo luogo avrà grande influenza sulla scrittura della bambina per l’armonia della natura che la circonda. Sabine e il fratello Claude, maggiore di due anni, non ricevono una regolare educazione scolastica ma, come si usava un tempo nelle famiglie nobili o benestanti, studiano con l’aiuto di un precettore.
Sabine, grande lettrice già da piccola, vive in una famiglia colta dove un viavai di ospiti illustri la predispone alla curiosità, al desiderio di viaggi. I primi successi letterari arrivano verso l’età di undici anni.
Nel 1927, dopo un banale incidente, la ragazzina contrae un’infezione che «come una bestia invisibile dai minuscoli denti» le invade prima una gamba poi tutto il corpo, procurandole atroci sofferenze. Morirà nel 1928 dopo aver scritto poesie di straordinaria maturità sul dolore e sulla morte. Il suo diventerà un “caso” letterario, grazie alla pubblicazione, a trent’anni dalle morte, dei suoi quaderni. Sono in molti a pensare che se Sabine Sicaud fosse vissuta a lungo sarebbe sicuramente diventata una grande poeta.


Bibliografia

- Poèmes d’enfant, Poitiers, Cahiers de France, 1926.
- Les poèmes de Sabine Sicaud, Avant-propos de François Millepierres, Paris, Stock, 1958.

Fonti

- Odyle Ayral-Clause, Le rêve inachevé, Les dossiers d’Aquitaine, 1996.
- Moulin Jeanine, Huit siècles de poésie féminine, Paris, Seghers, 1975.
- Robert Sabatier, La poésie du vingtième siècle, Paris, Albin Michel, 1992.


viviane.c@alice.it