FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 13
gennaio/marzo 2009

Nutrimenti

COME NUTRIRE UNA RIVOLUZIONE SENZA POPOLO

di Bernard Noël



Che la Rivoluzione sia oggi necessaria è un’evidenza, tanto più che la sua progettazione non è mai stata tanto vituperata. Tuttavia, non si tratta di fare LA rivoluzione, ma UNA rivoluzione, quindi di progettarla a partire da una situazione particolare nella quale, mentre le circostanze la richiedono, le condizioni generali la escludono. Si dovrà, prima di tutto, prendere in esame questa contraddizione.
Non v’è dubbio che l’arroganza del potere è arrivata al culmine insieme ai favori elargiti ai privilegiati. Meraviglia persino vedere a che punto l’assenza di ripartizione delle ricchezze riduca di continuo il margine d’illusione che poteva rendere sopportabile questa appropriazione esclusiva. Il disprezzo della miseria crea una disperazione forse favorevole alla rivoluzione, ma si tratta di una trappola in quanto la disperazione è esplosiva e non rivoluzionaria: prepara una sollevazione popolare facile da reprimere e che, in fin dei conti, darà una mano all’oppressione.
Qualcuno farà notare come è sufficiente che la disperazione abbia il tempo di organizzarsi, benché le condizioni generali lavorino, appunto, a impedirlo. Il gioco delle cause e delle conseguenze è da molto tempo falsato dall’influenza dei media. La maggioranza si è abituata a poco a poco a sopportare la distruzione dei beni collettivi: l’educazione, la salute, i servizi pubblici, l’informazione. Non vi è più il popolo, esiste invece un pubblico che, privato del legame cittadino ha finito col credere che la redditività contava più del servizio anche se la cosa è contraria ai suoi interessi.

Un popolo è cosciente di un’appartenenza e di una condivisione che creano una solidarietà; un pubblico ha in comune soltanto immagini effimere che lo inducono a false identificazioni o al consumo. Ecco dunque come conseguenza, lo sperpero, divenuto attrazione principale, unico bene pubblico e che spinge a vivere in un presente senza memoria e senza riflessione. La processione delle immagini occupa la mente senza produrre altra cosa che il movimento ripetitivo d’una finta varietà sempre attuale. Così, nessuna prospettiva, solo un appetito rinnovato continuamente dalla pubblicità.
La velocità di rotazione delle immagini è più importante del loro contenuto e ne costituisce il senso. Il potere ha capito recentemente quanto questa velocità potesse far le veci dell’azione grazie al fascino che essa produce, da ciò deriva l’agitazione febbrile d’un capo che mescola tutti i generi allo scopo di moltiplicare la sua presenza in tutti i campi. Il pericolo per lui è che un errore rischia di ripercuotersi addirittura moltiplicandosi, ma questo disturba soltanto lui e non il sistema ormai tanto efficace da aver distrutto tutta la rappresentazione.
Si dimentica, perché fa parte di noi, che la rappresentazione condiziona tutte le relazioni all’interno del corpo sociale e che da essa dipende sia la nostra facoltà d’espressione sia la nostra capacità di riflessione. Dunque, sempre grazie ai media e al loro potere d’occupazione mentale, la rappresentazione ha sempre più tendenza a non essere che la registrazione passiva dello spettacolo proposto in permanenza sullo schermo televisivo. Questo spettacolo, contrariamente a ciò che si dice, non istruisce: occupa semplicemente la testa e svia l’attenzione distraendola. Non rimangono, per opporsi a lui, che le difficoltà della vita quotidiana, le quali, talvolta, portano allo sgomento.

Abbiamo prima accennato allo sgomento e alla ribellione che potrebbe generare, ma lo sgomento convoglia molto più spesso la rabbia verso reazioni razziste e nazionaliste di cui il potere prende possesso per legittimare una politica di esclusione o di selezione e giustificando l’arbitrario. La fabbricazione della passività sociale è in auge da molti anni: essa procede impercettibilmente verso un lavaggio del cervello pianificato secondo le ammissioni dell’ex direttore di TF1 (rete televisiva francese, ndt), che si era detto incaricato del compito di produrre «cervelli disponibili»…
Questo punto della situazione, benché troppo riassuntivo, dice perché la Rivoluzione, sebbene sempre più necessaria, non può che andare in controtempo di questo tempo che la desidera e la rigetta. Il rigetto deve la sua forza a una trasformazione delle mentalità che il potere ha la facoltà, non solo di manipolare, ma di privare dell’energia indispensabile per organizzare la rivolta. E anche di concepirla. A questo si aggiunge il fatto che l’opposizione altro non è che parvenza, il partito socialista (francese, ndt) avendo fatto di più per lanciare le privatizzazioni e le riforme antisociali rispetto alla stessa destra che pretende di combattere, ma con la quale si accontenta di disputarsi il potere.

Per farla breve, tutto contribuisce a rendere la Rivoluzione impensabile nel contesto attuale rinvigorito, oltretutto dalla mondializzazione. Tuttavia il sentimento della sua necessità ci porta a dire che la situazione presente la rende impensabile solo nella misura in cui, sempre rimandata a dei modelli antichi, essa resta, di fatto, impensata.
Questo impensato è dalla parte di coloro che ne avvertono la necessità, e per il motivo che la Rivoluzione suppone la presa di potere poi un cambiamento radicale dell’ordine sociale. Orbene, tutte le rivoluzioni che sono passate attraverso questo procedimento, se è vero che hanno preso il potere, sono riuscite solo a installare un regime che, rapidamente degradato dall’esercizio dell’autorità e il reimpiego dei vecchi dirigenti della polizia e dell’esercito, non ha potuto che aggiungere delusione alla coazione. Tutte, tranne la Comune di Parigi, ma quest’ultima è stata preservata dal suo stesso disastro solo dalla violenza della repressione che l’ha distrutta.
Non voler prendere il potere col pretesto che il potere degrada coloro che lo prendono sembra insensato dal momento che da lì ha da passare il cambiamento. Come garantirsi contro la degradazione? Dal controllo che serviva come base alla Comune, il quale prevedeva che i delegati restassero sotto lo sguardo dei loro elettori…
Questo sistema implica che ogni delegazione del potere sia alla mercé di un contropotere rappresentato dall’insieme degli elettori. Tale è teoricamente il caso delle nostre democrazie, ma questo non funziona a causa dell’allontanamento degli eletti, della lunghezza del loro mandato e, oramai, a causa dei media che hanno fatto della politica uno spettacolo e sostituito l’opinione con l’auditel.

Un tempo si pensava che la Rivoluzione transitasse prima attraverso l’appropriazione dei mezzi di produzione; oggi, naturalmente, passa dall’appropriazione dei mezzi di comunicazione allo scopo di regalare a ciascuno una testa pensante e una coscienza cittadina.
Non è un’utopia?
I rivoluzionari dell’Ottocento, in particolare Blanqui, erano persuasi che la Rivoluzione non potesse provenire che dai «declassati», ovvero dai figli della classe dirigente che rinunciassero ai loro privilegi per mettere la loro libertà al servizio degli interessi del popolo. Si può oggi «declassare» i media affinché giochino un ruolo comparabile?
Il gusto del potere è così contagioso da essere riuscito a contaminare tutti i tentativi di rovesciamento, di cambiamento, di trasformazione. Bisognerebbe screditare il potere, ma lo è già grazie alla sua corruzione, ai suoi abusi, alle sue ingiustizie. Nella società dello spettacolo, tutto ha una portata spettacolare che imbottisce ogni avvenimento di vanità mentre ne annienta la gravità. L’informazione non è più che allenamento all’indifferenza.
La necessità della Rivoluzione ha quindi tutto a sfavore e da qui la convinzione della sua impossibilità. Perché questa impossibilità non potrebbe essere ugualmente utopica? Un’utopia di potere che, piuttosto che allontanarla con la repressione, ha avuto l’intelligenza perversa di rendere le menti inadatte a reclamarla.

Il problema è sempre, da Marx e da Rimbaud in poi, di trasformare il mondo e di cambiare la vita. Coloro che non vi rinunciano sono più che mai isolati: hanno in comune di non rassegnarsi poiché la necessità li arma di una pazienza senza limiti fuori dalla quale la vita non avrebbe alcun senso. Eppure non s’illudono: sanno bene che la necessità deve venire alla luce con una brusca rivelazione che, d’un tratto, la generalizza. Allora, proprio in quella precipua luce, le menti si educano in fretta, e provvisoriamente o definitivamente, mettono fine all’impossibile…


Traduzione dal francese di Viviane Ciampi