FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 43
luglio/settembre 2016

Fughe

 

L’INGANNO

di Patrizia Passarelli



Venne a sapere la notizia per caso.

Era una mattina di festa e aveva deciso di prendere la bicicletta; un bel sole di primavera lo incoraggiava a andare.

Una delle due disse: “Senti, Mattia è nato lì, ma sinceramente, dopo quello che è successo mi vengono un sacco di paure.”

”Vabbè, ma ti pare” disse l’altra “Per mille volte che qualcosa va bene, si parla solo di quella andata male.”

”No scusa, ma come fai a parlare così? Ti pare normale morire in questo modo nel terzo millennio! È solo una vergogna!”

Eugenio distolse lo sguardo dal giornale per osservare le due giovani che si avvicinavano per sedersi. Una era incinta e teneva per mano, trascinandolo, un triciclo; l’altra portava a tracolla una sacca dalla quale spuntava il manico di una paletta.

“Le spiace se ci sediamo un po’ qui?” chiesero a Eugenio.

In poche ore, aveva pedalato in modo disteso fino a fermarsi in un parco, vicino a una panchina a leggere il giornale che un ambulante gli aveva venduto al semaforo poco prima. Era un parco fuori zona, lontano da casa sua, ma quel giorno si era svegliato presto e sentiva di avere sufficiente energia per spingersi un po’ più lontano del solito. Non aveva voglia di strade isolate di campagna, né di andare in direzione del mare. Aveva, insolitamente, il desiderio di un posto dove poter incontrare qualcuno. La solitudine in cui viveva ormai da tanto tempo era diventata la sua vocazione. Neanche da ragazzo era mai stato tipo da ambienti troppo frequentati: aveva un carattere ritroso, che diventava schivo nei momenti di difficoltà. Gli piaceva osservare, poteva passare ore seduto al tavolino di un bar a guardare le persone passare o ad ascoltare quelle sedute intorno che parlavano, facendo tra sé scommesse su quello che avrebbero detto o fatto.

Il giornale della domenica, una panchina al sole nel parco, gli pareva uno scenario perfetto per scambiare quattro chiacchiere con chi portava il cane a passeggio o si riposava dalla corsa o dalla passeggiata domenicale. Era diretto verso una panchina meno sgangherata delle altre, appena fuori da un’area giochi per bambini non ancora troppo popolata a quell’ora, si era seduto e aveva iniziato a sfogliare il giornale partendo, com’era sua abitudine, dal fondo: il meteo, i cinema e i teatri, i commenti sul derby, i film in uscita, le mostre.

“Prego” rispose spostandosi un po’ verso l’estremità della panchina per fare spazio alle nuove arrivate. Le due donne si sedettero e poggiarono a terra gli oggetti dei bambini che poco più in là salivano e scendevano da uno scivolo incastrato in una torretta.

Una delle due riprese il discorso interrotto.

“Sì, hai ragione, sono cose che non dovrebbero accadere mai, ma sai che i giornali riportano le notizie come vogliono loro. Magari la madre aveva già dei problemi e chissà come sono andate le cose. Scusa, pare che tutto si sia svolto normalmente eppoi lei ha avuto una complicazione.”

“Complicazione? Ma come fai a dire ’ste cose? Hai un figlio pure tu. Ci pensi se fosse successo a te?”

”No, non ci penso mai. Anzi credo che qualsiasi cosa potrebbe succedermi in qualsiasi momento. Faccio delle scelte, come tutti soffro quando le cose vanno male, ma poi in fondo sono fatalista”.

Eugenio non poté fare a meno di ascoltare. “Essere fatalista” era un suo pensiero ricorrente ma non sempre era stato così. Un tempo era convinto che lottare per imprimere una direzione agli eventi fosse il modo più giusto per viverli con pienezza. Ma poi la vita lo aveva portato da un’altra parte.

Tornò a posare gli occhi tra le notizie, a sfogliare all’indietro quando, nella pagina della cronaca vide una piccola foto. Sentì un flusso di sangue e calore salirgli alla testa. Quella foto: l’aveva tormentato per mesi. Era incredulo prima ancora di averla associata alla notizia che la corredava; qualche secondo di annebbiamento e cercò di capire a cosa si riferisse. La notizia era questa:

Donna muore dopo parto cesareo a Roma

Una donna di 33 anni, Æmma Morbugno, è morta a Roma subito dopo aver dato alla luce il figlio. Il parto cesareo è stato necessario, secondo il comunicato dell’Asl, a seguito di «un’improvvisa sofferenza fetale». Tutti gli interventi messi in atto da parte dei sanitari per salvarla sono stati vani. A causa dell’emorragia interna la 33enne è stata trasportata in ospedale, dove è giunta priva di conoscenza e in stato di shock. La paziente è stata subito sottoposta a intervento, ma nonostante i tentativi dei medici è deceduta poco prima delle 20. Le condizioni del neonato sono definite buone. Il corpo della donna…

La notizia continuava poi con le informazioni di rito ma a Eugenio, leggere non serviva più. Inevitabilmente i suoi pensieri andarono ad Alessio.

Erano cresciuti insieme da bambini. Abitavano l’uno a un paio di traverse dalla casa dall’altro. Si erano conosciuti a scuola e nei pomeriggi d’inverno o d’estate, che piovesse o con un caldo africano, continuavano a trovarsi dopo la scuola, a giocare nel giardinetto, in piazza, o nella casa di uno dei due. Caratterialmente erano molto diversi. Entrambi sensibili e intelligenti, manifestavano queste loro doti in modo differente: Eugenio era riservato, gentile, a volte timoroso. Si muoveva in modo lento ma non era indolente. La lentezza era l’espressione della sua pacatezza e della sua inclinazione alla riflessività. Alessio invece era spavaldo, irruento, sembrava non temere mai nulla e soprattutto questo sentimento, a metà tra il coraggio e la guasconeria, era divenuto in lui più presente da quando divideva le sue giornate con Eugenio come se la sua compagnia lo rendesse più temerario. L’essere capriccioso o a volte prepotente, erano comportamenti che quasi mai però metteva in atto quando era con Eugenio, come se con lui entrasse in una zona franca, in un territorio speciale. Quando Eugenio era bambino, si appassionava a leggere nell’elenco delle carte geografiche, i nomi dei comuni italiani e a trovare quelli insolitamente più lunghi. Poi quando qualcuno gli chiedeva dove fosse nato, sparava a caso “Castiglione Messer Marino” o “Casarsa della Delizia” oppure “Villagrazia di Carini” noncurante che fosse a nord o a sud. Lo faceva solo per guardare le espressioni dei grandi che pur di non farsi cogliere impreparati rispondevano compiacenti “Ah si si” con un’espressione che invece era tutto il contrario di quella sicurezza esibita. Fingersi nato in uno di quei posti lo faceva sentire importante: era convinto che dietro un nome altisonante non potesse esserci una persona da poco! Ad Alessio invece piacevano le sfide, gli piaceva misurarsi con cose più grandi di lui, provocava i ragazzi per far vedere di essere alla loro altezza e spesso, riusciva a sorprenderli o a vincere le sfide. Ma non era bravo a incassare. Quando perdeva, inventava assurdità mascherate di presunta logica pur di non ammettere di essere in torto. La loro era comunque un’amicizia importante che col tempo era diventata un sodalizio. La gente li guardava crescere con ammirazione; nei compagni, a volte, suscitavano invidia perché gli sembrava ingeneroso che tanto affiatamento e affetto fossero vissuti in modo così esclusivo. L’adolescenza li trovò forti e questo gli permise di vivere con disinvoltura le loro diversità. Litigavano di più ora, spesso trascorrevano le giornate con altre persone, le loro intemperanze erano più evidenti ma l’esigenza di ritrovarsi faceva si che non potessero stare troppo a lungo divisi. Eugenio studiava volentieri assecondando il suo carattere introverso e solitario ma curioso. Alessio invece era curioso del mondo, aveva gambe lunghissime che non riuscivano a star ferme e sembrava non si saziasse mai di girare, vedere, conoscere. Nello studio sfruttava Eugenio, copiava, si faceva ripetere da lui e poi scappava via. Era pieno di amici, ragazze, inviti e ogni tanto riusciva a trascinare anche il suo amico che, quando c’era, gli rubava persino la scena. Questa era l’unica cosa che faceva alzare un po’ i toni dei loro battibecchi ma Eugenio si scherniva: “Tanto vengono sempre tutte appresso a te. Di me s’incuriosiscono come di una scimmia allo zoo ma è con te che poi escono, stai tranquillo!” diceva. Era vero, quasi sempre andava così e l’equilibrio tra i due restava saldo perché erano forti di quel sentimento che forse negli uomini più che nelle donne, vive di istinto e di complicità.

Un’estate Alessio invitò Eugenio nella casa di vacanza dei nonni. Altre volte erano stati insieme in quel luogo anche se non con regolarità ma era un posto dove Eugenio tornava volentieri perché sentiva di ritrovare uno dei suoi luoghi di crescita. Lì per la prima volta si era distaccato dalla famiglia e questo lo aveva fatto sentire grande; lì aveva per la prima volta scoperto l’attrazione verso le ragazzine e, insieme ad Alessio, avevano tra i loro ricordi, altre “prime volte” all’attivo. Alessio andò a stare lì all’inizio di luglio, poi una sera telefonò a Eugenio:

“Oh, devi sbrigarti a venire, quest’anno c’è una tipa che fa girare la testa a tutti! Tutti a fare i ‘cavalier serventi!’ Ma lei niente...è superfidanzata.”

“E tu?” chiese Eugenio.

“Io cosa?”

“Tu sei tra i cavalieri?”

“Io sto bene con la mia “Princesse Charlotte” lo sai.”

“Ah beh…allora!”

“Allora che! Sempre ’sti commentini ironici che capisci solo tu.”

“No niente; dico solo che due indizi sono quasi una prova.”

“Ma quali indizi? Una prova di che?”

“Ma dai. Niente. Arrivo venerdì sera col pullman va bene?”

“Ok, scemo. Ti vengo a prendere. Ciao.”

“Ciao.”

Eugenio arrivò, prese posto nella sua solita stanza e ritrovò con facilità le abitudini di quella casa. Era una casa che si sviluppava in altezza, con una bella terrazza da dove si poteva vedere il mare. A Eugenio dava un senso di riservatezza e tranquillità insieme: aveva poche porte, qualche arco separava gli ambienti e questo, come per contaminazione, rendeva i gesti più fluidi, composti con una naturalezza leggera che lo aiutava a ritrovare la sua armonia interiore. La sera in cui arrivò, mentre stavano cenando sulla terrazza, la “tipa che fa girare la testa a tutti” si materializzò. Andò lei a chiamarli perché aveva saputo che sarebbe arrivato “il grande amico di Alessio”. Chiese permesso che era già dentro, diede un bacio ad Alessio e “Tu devi essere Eugenio. Piacere, io sono Æmma con la ae come in latino.” Se tutti facevano i “cavalier serventi” un motivo ci doveva essere. Capelli nerolisci, occhi scuri e il sorriso che mostrava denti un po’ distanziati; non troppo alta, proporzionata, un vestito aderente che le disegnava il sedere e un po’ di pancetta e le lasciava scoperte le gambe tornite e nervose nei polpacci, che facevano intuire un’abitudine alla palestra. Quello che colpì Eugenio furono l’ostentata sicurezza che aveva preso quasi un tono di sfida mentre lo guardava dritto negli occhi e gli stringeva la mano, e il fatto, di cui subito non seppe darsi spiegazione, che in quel suo modo di fare, senz’altro accattivante, trovò un sentore di Alessio. Restarono in quella terrazza a bere vino, inebriati dall’odore dolce dei fiori del glicine e da una leggera brezza di mare. Quando si salutarono, Æmma li baciò entrambi.

Quell’estate travolse tutti: travolse Eugenio, che s’innamorò di Æmma, travolse Alessio che mai aveva visto Eugenio così e che per la prima volta si sentì messo da parte, travolse il superfidanzato di Æmma e “Princesse Charlotte” che non si sa bene che fine fecero e travolse Æmma che tra tanti cavalieri alla fine scelse Eugenio. Eugenio si considerò un eletto: lui, così riservato, pudico nei sentimenti, provò l’amore totale, quello che, era sicuro, avrebbe potuto dire “per sempre”, quello con cui vuoi dividere la vita. Lei era ciò che aveva cambiato il suo esistere in vivere e con la quale a quel vivere voleva dare senso. Passava le sue giornate aspettando di incontrarla, dopo lo studio, dopo l’università, ogni volta che gli era possibile. Æmma faceva lo stesso e solo il fatto che abitassero in due città diverse poneva uno spazio tra loro ma davvero pochi erano i momenti in cui non stavano vicini. Lei era vivace, le piaceva piacere e questo la rendeva vanitosa. A lui sembrava che ogni cosa le riuscisse bene, avevano un sacco di difetti, come tutti, ma insieme riuscivano a superarli, a superarsi.

Vissero la loro storia come una bolla di sapone che sfida la forza di gravità e riflette i colori della luce che coglie, si appassionarono e reciprocamente nutrirono le loro aspettative. Eugenio non si rendeva conto che sono due cose con cui ci si può fare male.

Per Eugenio e Alessio iniziò un periodo di lontananze mai vissute prima. Quando s’incontravano, Eugenio lo travolgeva con le sue certezze, i suoi entusiasmi e gli sembrava che il riflesso della sua felicità dovesse contagiare tutto in modo positivo.

Alessio soffriva e gioiva insieme, era contento e stordito dall’amore provato dal suo amico, dalla sua nuova vita, ma troppo a lungo era stato abituato a essere l’unico sulla scena del suo cuore, a ricevere da lui attenzione esclusiva; solo Eugenio lo capiva nelle sue sfuriate, lo accettava, lo giustificava anche quando sapeva che stava sbagliando; non poteva sopportare, ora, che non lo sapesse più ascoltare, che frettolosamente si accontentasse di sapere che tutto andava bene, non riusciva a controllare la propria gelosia, sentiva un senso di solitudine che lo indispettiva.

Poi un giorno Eugenio tornò: Æmma se ne era andata.

“Non possiamo più stare insieme” gli aveva detto senza riuscire a dare spiegazioni convincenti, anche se sapeva che nemmeno un motivo spiegato con la perfezione delle leggi della fisica avrebbe alleviato la sua pena. Tutt’al più avrebbe potuto lenire qualche rimorso ma nulla di meglio. Se ne era andata in fretta, quasi scappando, travolgendolo così come quando era arrivata, imponendogli la sua assenza tanto quanto aveva imposto la sua presenza e lui si sentì perso, vuoto, abbandonato.

Alessio accolse l’amico e poco a poco ritrovò il rapporto esclusivo in cui si erano formati. La gelosia iniziò a placarsi, tornò al centro del cuore di Eugenio. Eugenio percepì che il suo pianto dava forza all’amico e questo lo infastidì; ma come sempre lo giustificava: Alessio era lì con lui, cosa voleva d’altro? Il dolore troppo grande gli impedì di mettere a fuoco questa sensazione, non quanto necessario. Eugenio non capì, in quel momento, che quello era il particolare che meritava la sua attenzione, quello da cui s’iniziava a scavare l’abisso.

Si riscosse dalla sua tetra fissità e sentì un peso sullo stomaco. Mai aveva augurato il male ad alcuno né mai la morte lo aveva toccato in modo così assurdo. Quello che sentiva gli pareva folle: non provava in quel momento la lacerazione della perdita perché lui Æmma l’aveva già persa tanto tempo prima. Né il senso del distacco perché già sapeva che per lui Æmma non sarebbe più tornata. Le aveva augurato di vivere la sua vita e si era augurato di non doverla sentire mai più. Ma dentro di sé non l’aveva mai perdonata, non né era stato capace.

Quella foto lo riportò al suo dolore passato che si mescolava ora con quello della notizia appena letta. Aveva fatto proprio lui quella foto a Æmma durante un week end al mare quando stavano insieme. Era una foto che gli piaceva tanto all’inizio ma che divenne per lui l’emblema di quanto le cose, inaspettatamente, fossero diverse da come le aveva sentite, da come era convinto che fossero. Se lo ricordava benissimo il momento in cui l’aveva scattata, tra le rovine di una città antica; allora gli sembrava che non ci fosse che lei nella sua vita e lo stesso pensava di essere per Æmma.

Un giorno, l’estate successiva a quella in cui lei lo aveva lasciato, era di nuovo nella casa di Alessio e per caso trovò in un cassetto quella foto insieme ad alcune lettere, una corrispondenza tra Æmma e Alessio. Improvvisamente quelle che prima gli erano sembrate coincidenze, erano adesso diventate segno, immagine e le cose, come un frutto, erano maturate.

“Æmma amore mio, in quella foto hai lo stesso sguardo che mi riservi nei momenti più intimi”. “Il pensiero di te mi riempie il cuore di gioia” “Mi giro nel letto e sento il tuo profumo”.

Erano solo poche frasi tra quelle che negli anni a venire avrebbero continuato a girargli nella testa. Ripensò all’incredulità e allo smarrimento che aveva provato quando le aveva lette, alla vista che gli si era annebbiata, al cuore che sentiva battere nelle tempie. “Stronzo, stronzo, fottuto bastardo” continuava a ripetersi, a denti stretti, scendendo le scale di corsa. In fondo incontrò Alessio che stava rientrando. “Cos’hai?” gli chiese “Sembri sconvolto” e lui, senza rivolgergli parola, gli allungò un pugno sul naso, lo vide barcollare, portarsi le mani al viso. Uscì da quella casa e per lui nulla fu più lo stesso. Era schiacciato dal dolore, da quello strappo brutale, visse un lungo periodo in cui non sapeva più chi fosse, in cui le cose, i valori a cui aveva dato un peso gli sembrarono falsi. Pensava che se Alessio e Æmma, le persone per cui più nella vita aveva provato amore, a cui più aveva dedicato attenzione avevano fatto questo, cosa poteva aspettarsi dagli altri? Si chiuse ancora di più in sé per cercare di capire se valeva ancora la pena ritrovare un senso da dare alle cose. Spesso si lasciava andare, a volte pensava di lasciar perdere tutto e farla finita perché non riusciva ad accettare di non riconoscersi, di non aver saputo riconoscere l’insincerità in chi più gli stava vicino. Si sentiva uno stupido ingenuo. Tutte le convinzioni che per anni avevano guidato le sue scelte, tutto quello che lo aveva emozionato gli sembrò non esistere più. Lo faceva soffrire soprattutto pensare ad Alessio. L’affetto, l’amicizia, le affinità che avevano provato, condiviso e costruito erano state qualcosa di esclusivo nella sua vita e lui ne era stato escluso. Nel ricostruire i ricordi, gli eventi, tornò a provare quella sensazione di ingiustizia che ebbe nell’avere Alessio accanto a sé quando Æmma lo aveva lasciato. Mise a fuoco, ora, quel particolare: non era solo il sentimento del tradimento o della fiducia malriposta ad averlo tormentato, ma capire che tutto questo Alessio lo aveva fatto solo per rimettere sé stesso al centro della scena. Un esercizio di narcisismo, reiterato dal non avere neanche avuto il coraggio di un chiarimento, o la sincerità che in nome della loro amicizia, era dovuta. Questo gli era sembrato crudele e banale insieme e non riusciva a sopportarlo.

La storia di Æmma e Alessio non era durata. Lei aveva provato diverse volte a cercare Eugenio ma lui aveva accettato di parlarle una sola volta per dirle di non cercarlo più.

Ora Æmma era morta e quella foto lo guardava. Provò un dolore acuto, misto a un senso di rammarico e rabbia. Rammarico perché non avrebbe più potuto dirle la tristezza che gli suscitava. Era la sua immagine del profilo su Facebook, sempre la stessa da anni, come se Æmma avesse fatto di quello scatto un rifugio, come se quell’immagine stesse li a ricordarle il momento più alto della sua personale realizzazione.

Ripensò alla loro intesa in quel momento, a quanto si era illuso. Quando la vide messa lì, alla portata di tutti, invece gli sembrò una violazione della loro intimità. Cosa rappresentava quella foto per lei? La loro storia d’amore? La relazione con Alessio? Una promessa di fedeltà a sé stessa?

Aveva il giornale aperto sulle ginocchia e cercava di togliersi quel volto dagli occhi ma non ci riusciva. Quella foto era diventata un’icona che spazzava via gli altri ricordi. Chissà se era solo la sua immaginazione o se veramente Æmma aveva continuato a vivere la sua vita prigioniera di quel ricordo, di quell’istante infinito che la racchiudeva. Nessuno avrebbe potuto dare una risposta alle sue domande, si sentiva fuori tempo massimo ormai e questo gli faceva riaffiorare la rabbia, quella rabbia che come un veleno lento lo aveva intossicato a lungo. Ma no, per nessuna ragione al mondo voleva ricadere in quello stato e in un attimo ritrovò la convinzione che quella storia non aveva fatto bene a nessuno, che tutti ne erano usciti con le ossa rotte e dunque – pensò – fuori tempo massimo per che cosa?

Mentre questi pensieri germogliavano nella sua testa, la foto di Æmma iniziò a sovrapporsi al viso di Alessio. Tornò a casa, accese il computer per cercare una mail che aveva ricevuto da lui l’estate in cui era andato via. Una lettera che allora, gli era sembrata un insieme di discorsi scuciti, un tentativo goffo e funambolico di giustificarsi, in un tono melenso che ai suoi occhi sottolineò una volta di più come Alessio fosse soprattutto abile a mettere sé stesso avanti a tutto. In quella mail provava a difendere Æmma dall’accaduto, come se, in fin dei conti, nessuno dei due fosse responsabile di alcunché e entrambi fossero solo “stati travolti dai fatti”. Niente scuse, nient’altro.

Ora ebbe il timore che rincontrare Alessio potesse annullare la distanza che in tanto tempo aveva costruito tra sé e il suo dolore o scardinare il rituale ordinato e rassicurante della sua solitudine. Ma fu solo un attimo: temere ora che Alessio potesse modificare ciò che dentro di sé era diventato una certezza, significava attribuirgli una dimensione più grande di quella che ormai aveva.

Partecipò al funerale di Æmma, come suo solito, stando in disparte. Per lui era impossibile concepire che tutta la forza vitale di una persona fosse confinata in un corpo e quel corpo confinato in una bara.

Alessio invece, al suo solito era lì in terza fila, ma almeno senza una ragazza al braccio.

Fuori, alla fine della messa, si salutarono, cordiali ma non senza un certo disagio. Si guardarono per scoprire in che modo il tempo li avesse cambiati, parlarono un po’ delle loro esistenze attuali perché non era facile tornare a riannodare il filo lì dove si era spezzato. Poi Alessio fece il primo passo: “Andiamo a prendere un caffè. Non ti ho mai chiesto scusa. Per questo ora, devo scusarmi due volte. Puoi chiedermi quello che ti pare.” Eugenio ebbe un momento di esitazione: “Chiederti? Che vuoi che ti chieda più? Se ti va, puoi dirmi la tua versione dei fatti.”

Seduti a un caffè, Alessio si appoggiò allo schienale della sedia e prese a parlare: “Beh, quell’estate, ti ricordi, avevo incontrato Æmma prima che tu arrivassi. Ero rimasto colpito dalla sua esuberanza, chi non lo era. Era sempre piena di voglia di fare, organizzava cose, era diventata in pochi giorni, amica di tutti. Io stavo con Carla allora e anche Æmma aveva un fidanzato di cui parlava sempre e così, per un po’, tutto rimase com’era. Poi arrivasti tu. Da quando stavi a casa mia, per la prima volta sentii che stava crescendo in te qualcosa di diverso, ti vedevo più svagato, euforico, ma non mi parlavi di quello che provavi. Quando mi capitava di trovarmi solo con Æmma, diventavi spesso il nostro argomento di conversazione. Quanti elogi! Per me era insolito ascoltare qualcuno che mi raccontasse di te, e io, che pensavo di conoscerti come me stesso, ti vedevo, attraverso i suoi occhi, in una luce mai vista prima. Iniziai a provare un sentimento di gelosia perché qualcuno riusciva a scorgere in te cose che io non ero stato capace di notare. Altre volte, quando tu e lei litigavate, sentivo che quello che Æmma ti rimproverava o per cui si arrabbiava era molto vicino a me, al mio modo di sentire, insomma mi capitava di trovarmi più d’accordo con lei che con te. E così iniziammo ad avere una maggiore confidenza e sempre più mi sembrava di specchiarmi in lei. Eravamo uguali, sentivo che se da qualche parte nel mondo ci fosse stata una mia “anima gemella”, quella era lei. Sentivo che lei aveva aperto uno squarcio in me da cui uscivano sensazioni mai provate, cose sepolte da sempre. La desideravo e insieme mi sentivo spaventato da questa relazione. Lei non sapeva che fare. Tu la facevi sentire sicura, la tranquillizzavi ma quando stava con me, diceva, si sentiva libera come non si era mai sentita prima. Ti lasciò per stare con me, senza che nessuno dei due avesse il coraggio di affrontarti. Ma tutto ci ricadde addosso: eravamo troppo uguali, litigavamo sempre più spesso. Quando poi tu scopristi la nostra relazione tutto peggiorò. Abbiamo provato, allora, a parlare con te ma non ci lasciasti spazio e il peso di tutto divenne insopportabile, non riuscivamo più a guardarci negli occhi. Quando ci lasciammo, mi capitò un’opportunità di lavoro all’estero e decisi di accettare. Per qualche tempo, ho avuto sue notizie, di tanto in tanto ci scrivevamo. Spesso ho pensato anche a te. Poi è successa questa cosa terribile ed eccomi qua.”

Si guardarono in silenzio. Eugenio restò fermo, non lasciò che da alcun movimento trapelasse la passione che sentiva riaccendersi per quel vecchio dolore. Quel racconto lo irritava, gli faceva salire la collera, stava per dire qualcosa quando la voce di Alessio si sovrappose alla sua: “Sai, ora che ci siamo rincontrati, mi sento meglio. Mi dispiace per il dolore che hai provato, mi rendo conto che non è giusto. Ma sappi che vederti mi crea e mi creerà sempre una grande emozione.”

Eugenio si contrasse in una smorfia: “Cerca di non essere ridicolo… ti senti meglio, ti creerà…ma che dici? Pensi me ne fotta qualcosa del tuo sollievo o della tua tranquillità? Tu davvero immagini un nostro futuro?” Tacque per un po’, poi riprese: “Hai mai provato a metterti nei miei panni, a chiederti cosa è stato tutto questo per me? No, non credo. Vediamo se riesco a fartelo capire: quando il nostro legame si è interrotto, ho provato un dolore insopportabile. Mi sono isolato dal mondo, ho trascorso un lungo periodo da solo, in difesa. Mi riparavo dalla vita per timore delle sue delusioni, soffrendo a volte anche molto per questo isolamento che se da un lato mi proteggeva, dall’altro mi ammalava l’anima. Mi sembrava di essere diventato autistico nei sentimenti, come morto ma incapace di morire davvero. Sono restato impantanato in questo stato fino a non poterne più e lentamente mi sono adattato all’idea di essere cambiato. A volte mi rattristava sentire di aver perso l’innocenza, la fiducia verso il mondo che mi rendeva così aperto alla vita. Ma poi ho capito che questo poteva avere dei lati positivi: per esempio avevo imparato ad accettare ciò che succedeva anche se non era come piaceva a me, a non combattere per ciò che non poteva essere modificato, a non dolermi se non riuscivo a realizzare qualcosa, ad accontentarmi di cose piccole, a sorridere – con un po’ di malizia ma senza supponenza – dei grandi guai che così grandi non sono. Ma ero sempre a disagio con le emozioni profonde: mi ci è voluto del tempo per accettare l’idea che l’amore o il dolore che proviamo è solo nostro nel modo in cui lo proviamo. Che nemmeno la persona più cara può percepire quello che noi percepiamo o soffrire quello che noi soffriamo e dunque aspettarsi qualcosa da qualcuno era privo di senso e forse anche ingiusto. Quando ho conquistato questa consapevolezza, ho capito anche che la solitudine mi spaventava di meno e mi sono sentito finalmente più sicuro di affermare me stesso, di scegliere ciò che volevo o non volevo, ciò che mi piaceva e non mi piaceva fare. Non era poco, in fondo. Ora che mi hai parlato, mi sento più libero di dirti quello che già avevo capito e che ho sperato – inutilmente – fosse diventata anche la tua verità. Oh certo Æmma non era persona da passare inosservata ma mi sono convinto che tutto, tutto quello che è successo, tu lo hai fatto per punirmi, perché non hai potuto accettare che io avessi un mio spazio, affettivo e vitale, indipendente da te, che per una volta fossi io senza di te al centro delle mie scelte e non tu al centro della scena. Quando lessi la lettera sgangherata che mi avevi scritto, non so come, mi venne davanti agli occhi l’immagine di te in bella posa su un piedistallo. E oggi, dopo tanto tempo? Che racconto! Vedo esattamente le stesse cose: il tuo narcisismo, il tuo egoismo stanno lì in bella posa, immutati. E anche tu, immutato, stronzo come allora.”

Lo guardava negli occhi mentre parlava e Alessio sosteneva lo sguardo in silenzio, ma non c’era tra loro quel senso di sfida che accompagnava i loro litigi da ragazzi. Eugenio aveva capito che ora come allora aveva incassato male e continuò: “Quando ero da solo, tra le tante, ho anche provato a mettermi al tuo posto. So che è un errore mettersi al posto degli altri, ma mi sarei sentito male per aver trattato con tanta disattenzione il nostro legame, la nostra amicizia. Ma siamo diversi e non ti porto rancore per questo, non più. Ora Æmma è morta e ha ragione su tutti noi. A noi che continuiamo a vivere, forse è data un’altra possibilità, non possiamo saperlo e già solo per questo possiamo provare a essere contenti. Lei questa possibilità non l’ha più”.

Tacquero per qualche minuto. Alessio era pallido, sembrava impietrito. Eugenio riprese: “Non sarai a disagio, vero? D’altronde è solo a se stessi che si può rendere conto e certo non avevi bisogno di me per capire che il torto più grande l’hai fatto tu, mentendo a te stesso e continuando a farlo. Su una cosa ti do ragione: tu e Æmma in qualcosa vi somigliavate, l’ho sentito quando le strinsi la mano la prima volta. Eravate egocentrici allo stesso modo, piacere vi gratificava e l’unica generosità che sapevate mettere in atto era verso voi stessi.”

Tacque di nuovo e capì che non aveva più nulla da dire, non voleva dire più nulla. E in quel momento gli mancarono le parole per accomiatarsi. Si guardarono intorno forse per distogliere lo sguardo l’uno dall’altro o forse a voler fermare nella memoria quello che li circondava. Alessio si alzò di scatto, imbarazzato: “Credo che ci siamo detti tutto” disse e si allontanò con passo veloce. Eugenio restò seduto, a scaldarsi il petto al tepore di un sole di primavera.


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