FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 43
luglio/settembre 2016

Fughe

 

EVADERE

di Matteo Moscarda



Ho sempre considerato Manfredi un genio, ha detto Taddeo, e continuo tutt’oggi a considerarlo un genio, per quanto del genio di Manfredi non sia rimasta traccia, e mi sia di conseguenza impossibile dimostrare a chicchessia la mia tesi.

Gli anni in cui Manfredi ha dimostrato di essere un genio, erano anni in cui la documentazione digitale non era compulsiva come quella di oggi, non si facevano trenta foto affinché almeno una fosse buona, ma se ne facevamo massimo due, con maggiore concentrazione. In quegli anni molte personalità geniali rischiavano di non lasciare traccia e, di fatto, molte non l’hanno lasciata. Allo stesso modo, se vogliamo fare un passo indietro nella storia, se vogliamo guardare la storia nella sua interezza, possiamo dire che tutta la storia sia una storia di documentazioni faziose, una storia scritta dai vincitori, come si dice. Ma concentriamoci su un arco di tempo più circoscritto, concentriamoci in quel periodo che va dall’inizio del XX secolo fino agli anni ottanta. È l’epoca della riproducibilità tecnica, come diceva Benjamin, della perdita dell’aura dell’artista, perché in un'epoca in cui l’opera d’arte non è più unica, e non c’è più bisogno di andare a vederla in un museo, magari in un’altra nazione, perché se ne trovano foto ovunque, in quell’epoca l’opera d’arte vale quanto la sua riproduzione, e quindi nulla. Poi, dagli anni ottanta, facciamo un salto in avanti fino al 2000, ovvero a quando Internet e il digitale hanno ormai preso il sopravvento, e sono state inventate delle pagine personali e personalizzabili, archetipi dei cosiddetti social network, pagine che permettono a chiunque di ricavarsi un proprio spazio d’espressione e, se è bravo o furbo o ricco, anche un proprio pubblico. Una versione digitale dei tradizionali speaker’s corners britannici. Parlo di siti come MySpace, un Facebook ante litteram, tendenzialmente rivolto ai creativi di vario genere. Ecco, MySpace è il varco dimensionale dal quale è esondato l’espressivismo, non quello pittorico, ma quello concettualizzato da Taylor, non quello delle catene di montaggio, ma il filosofo, ovviamente. Dal 2003, ovvero dall’arrivo di MySpace, chiunque avesse una anche misera predisposizione artistica ha avuto modo di metterla online, quanto meno. Da lì in poi si è innescato il cosiddetto «effetto della coda lunga» teorizzato da Chris Anderson, secondo il quale qualsiasi nicchia può avere il suo pubblico, per quanto piccolo, e l’insieme di questi pubblici di nicchia, messi insieme, può equivalere il grande pubblico del mainstream. Bene, da quel momento in poi, chiunque è diventato artista. Chiunque scrive poesie, racconti e romanzi. Chiunque dipinge, fotografa o recita. Chiunque fa arte, perché nell’arte la competenza non vale più nulla dai tempi di Duchamp, e per fare arte basta farla, senza aver imparato il come. Oggi tutti in Italia vogliono pubblicare un romanzo, e tutti ne scrivono uno, e tutti se lo auto-pubblicano, e cercano di convincere il panettiere a comprarlo, del tutto incapaci di capire che hanno scritto una stronzata, ma la stessa cosa non sarebbe e non sarà mai possibile con ciò che non è arte. Se un giorno diventasse di moda fare i medici non basterebbe trovare delle cavie e fargli un’appendicectomia e chiedere al panettiere cosa ne pensa della nostra appendicectomia. Prima, perché sarebbe difficile trovare cavie così, in modo amatoriale, perché le cavie si rivolgono ai medici e non ai dilettanti. Secondo, perché probabilmente una cavia umana operata di appendicectomia da dei dilettanti morirebbe, mentre un libro auto-pubblicato alla fine non fa del male a nessuno, se non al panettiere. Ma comunque, per chiudere, il succo è che dal 2000 o 2003, o forse poco prima o poco dopo, non importa, insomma, da un certo momento in poi di quest’epoca dominata da Internet e dal digitale, è diventato impossibile distinguere un artista vero da un coglione, uno con molta tecnica e nessun talento da uno strepitosamente dotato di talento ma magari timido o disorganizzato. E così, all’improvviso, quell’artista strepitosamente dotato di talento, ma timido e disorganizzato, quel genio che corrisponde al nome di Manfredi Damasco, quel povero disgraziato ha dovuto far marcia indietro, soccombendo all’orda di neo-artisti, alla coda lunga di Anderson, all’espressionismo di Taylor.

Ricordo, ha detto Taddeo, il giorno in cui Manfredi decise di eliminare le poche prove del suo talento. E non parliamo di un cestino virtuale su un pc, ma di cartacei, tele, audiocassette e altre cose tridimensionali che farò una fatica cane a spiegare a mia figlia, un giorno. Manfredi Damasco eliminò le poche tracce del suo genio, e la sua attività di genio si era comunque manifestata prima del boom dell’espressivismo. A cercarlo oggi, si trova soltanto un libro illustrato per bambini, intitolato Natòmi, un’orribile scopiazzatura del Coraline di Neil Gaiman, con un presupposto arguto, ma una resa pessima. Oggi, cercando su Google il nome di uno dei più grandi talenti italiani degli ultimi trent’anni, si trova soltanto la sua creazione più ributtante, un lavoretto imbarazzante fatto per necessità economiche, che Manfredi rinnegò fin da subito, e che oggi continua a rappresentarlo, agli occhi del suo pubblico inesistente. Ricordo anche che Manfredi ha tentato di rimuoverne le tracce, a più riprese, ma Internet è una memoria collettiva esaustiva e immutabile, e una volta che un dato vi entra dentro è impossibile rimuoverlo. Internet è un buco nero, un Aleph, eterno, onnicomprensivo, vorace e inappellabilmente inutile.

Eppure, oggi, secondo la maggior parte delle persone, se digitando il tuo nome su Google non ottieni risultati allora non esisti. Ed è per questo che Manfredi Damasco ha cambiato nome. Per evadere dal suo passato geniale, per non essere più associato a quell’unico libercolo prostituito, per non aver più nulla a che fare con l’arte in un’epoca in cui chiunque ha a che fare con l’arte. Un nuovo modo di fare arte, da un certo punto di vista. Ma principalmente una vera e propria evasione, soprattutto se si considera il lavoro che Manfredi Damasco, anche se con un altro nome, svolge con lena, dedizione e zelo da quasi quindici anni, uno dei lavori più anonimi, ripetitivi e impersonali che esistano, ma che Manfredi considera la sua salvezza, perché insieme al suo nome fittizio questo lavoro fittizio gli concede l’illusione di non essere mai esistito.



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