PADRE PER ERRORE Capitolo L
Natale. Non più il presepe e nemmeno l’albero, ma tu sei contenta Marguerite, hai avuto il nuovo cellulare con fotocamera, il terzo che possiedi in due anni. Debbo ammetterlo, in tutto questo tempo hai trattato i tuoi telefonini come meglio non si potrebbe, mai un urto, mai fatti cadere o dimenticati in qualche posto, e quando li hai abbandonati erano ancora in ottime condizioni. Adesso c’è il tirocinio col nuovo, ore e ore a consultarti con gli amici, e-mail per l’attivazione di non so quale servizio, telefonate continue, tutte “necessarie”, una rete di compagni e conoscenti stretti attorno al problema del perfetto funzionamento del tuo telefonino. Le tue mani lo sfiorano, lo coccolano in un modo che dice: sei più importante di ogni altra cosa per me, sei il centro pulsante della mia vita.
Sta meglio anche Rita: il nostro disagio ha contorni più precisi, non dobbiamo più nascondere che non ci amiamo più. Don Luigi, immagino, l’avrà convinta a sopportare ogni cosa per amore della famiglia. E poi, lei ha saputo scegliere il rimedio ai nostri mali: raccoglie fondi per i poveri, cucina alla mensa della Caritas, porta la comunione ai malati. Ormai mi nasconde tutto ciò che di negativo accade a Marguerite; e volendo sminuire preventivamente l’effetto di quel che potrei scoprire per caso, mi ripete che un giorno Marguerite darà il meglio di sé, che si riscatterà, che sente che lavorerà a beneficio degli altri. Ogni tanto, sommessamente, aggiunge che in futuro potrebbe farlo a tempo pieno anche lei, per dare alla vita un senso più profondo, e morire in pace con se stessa.
Io, invece, devo fare un po’ pena, perché non c’è persona, ormai, che non mi inviti a preoccuparmi della salute. Parlano per il mio bene, e non si rendono conto di quanto possano far male certe espressioni di commiserazione. I più insistenti sono i colleghi di lavoro; uno dice che non devo vergognarmi di andare da uno psichiatra, un altro mi scongiura di evitare gli psicofarmaci e tornare a fare sport, un altro ancora – che a Medjugorie ha visto roteare il sole – mi consiglia di entrare più spesso negli ospedali e toccare con mano la vera sofferenza, perché è convinto che i miei siano soltanto dei capricci. Mia madre, con la quale cerco di minimizzare il malessere, dice che devo uscire di casa, stare in mezzo alla gente, godermi la vita, perché sino ad oggi sono stato un padre e un marito troppo buono e presente. Un cugino mi assicura che “gira una puttanaggine che non hai idea”, e che perciò non sarebbe male, in un momento così particolare, fregarsene della moglie, e “rompere il cazzo, anzi la fregna, a qualche bella femmina”. Don Luigi mi invita a cogliere la bellezza spirituale del mondo, l’unica capace di sollevare l’animo umano dalle miserie terrene. Lo zio Gino mi dà il consiglio che reputo migliore: andare un po’ di tempo da lui, in campagna, a dare di vanga ogni giorno, fino a cascare morto per la fatica.
Tutti mi sembrano sinceri, tutti hanno una parte di ragione; ma se fossi in grado di mettere in pratica i loro suggerimenti lo avrei già fatto. Invece, fatico a salire le scale, e persino a leggere le pagine di un giornale. Una volta varcata la soglia di casa non ho altro desiderio che rintanarmi nel letto. Il male dell’anima porta a scoperte assurde, a novità paradossali: quando abbandono ogni attività il tempo scorre, quando mi dedico alle cose pratiche pare fermarsi, e i secondi diventano ore. Non posso più fare i lavoretti domestici che mi davano tanta soddisfazione; ne ho appena iniziato uno e già mi agito, la mente va su un altro come se il cambio di luogo e di azione potesse far correre il tempo più velocemente; invece sono passati solo pochi minuti, e l’ansia si fa angoscia, terrore, ossessione. Solo quando sto dentro il letto – mentre Rita e Marguerite si emozionano guardando una trasmissione dove i protagonisti possono vincere milioni di euro scegliendo dei pacchi – il brodo di pensieri che mi bolle in testa si spegne. Freddo e inerte, vivo in letargo come un animale; e in questo momento sono un animale, perché mi sento inferiore a qualsiasi essere umano sulla faccia della terra.
È così che trascorro intere settimane, aiutato dalla neve, che da molti giorni copre tutta la Penisola. Si sta in casa, la vita rallenta, e mi piace pensare che anche per gli altri ci sia tempo per oziare. Chissà come fremono, quelli che hanno sempre qualcosa da fare, che sono in perenne ritardo, quelli che l’ambizione spinge a non sacrificare al riposo neppure un istante. Attaccati alla vita nonostante la sua precarietà, nell’ansia continua di contare di più, di essere ammirati e invidiati, un combattimento quotidiano che mi ripugna, ma al quale non esiterei un istante a inchiodare l’unica persona che mi interessa al mondo.
Fa freddo, continua a nevicare, non si distinguono più le cose, sepolte sotto il sudario bianco che ne arrotonda e sbiadisce i tratti. Forse bisognerebbe vivere così, non riconoscendo più gli oggetti che ci circondano, facendosene di tanto in tanto una nuova immagine, per tornare a vederli con lo stupore e l’entusiasmo di chi ha ancora qualcosa da scoprire. E anche noi, sarebbe bello cambiare identità ogni tanto, abbandonare nome e paese, vivere senza il fardello di ciò che abbiamo sperimentato senza esito, ricominciare daccapo con nuove speranze. Invece mi chiamo Carlo Minervini, ho una figlia di nome Marguerite, insieme alla quale avrei voluto indagare la bellezza del mondo, introdurla a quanto vi è di più importante per il nostro spirito, quella luce che invano cerchiamo nella vita materiale. Si dice che quando non riusciamo a realizzare un desiderio, è questo a cambiare. Ma il mio desiderio era tutta la mia vita, e allora come salvarsi? Azzerare ogni cosa, rassegnarsi, amare, fare del bene, tornare alla fede, continuare a cercare…
Ma chi me ne darà la forza? Com’è possibile che si possano bloccare le funzioni più istintive? Non ho più voglia di fare sesso, neppure da solo. Non ho più il senso del gusto; mangio perché mia moglie mi chiama a tavola a consumare i pasti. Non avendo più appetito, anzi, patendo il tempo che dedico al cibo, soffro gli odori che arrivano alle mie nari. Persino il tatto si è affievolito, perché non tocco più nulla con la gioia di stimare nelle cose la forma e la consistenza. Un unico senso è ancora integro. Non è necessario versare nella mia condizione, per saperlo; ogni genitore affina l’udito per ascoltare ciò che gli occhi non vedono, e le parole non dicono. Mi basta avvicinarmi alla porta della camera di Marguerire per indovinare quel che sta facendo. Ha il libro in mano, lo so, ma è aperto sempre alla stessa pagina; non una volta, per tutto il tempo che sto in ascolto, sento il fruscio dei fogli. Sto lì, teso sino allo spasimo, nella speranza di udire quel lieve rumore, nella preghiera di sentirla ripetere la lezione.
“Marg, ma perché non ripeti a voce alta?”
“Papà, lo sai che non ci riesco, che io studio sottovoce”.
“Non ti ho sentito neppure ripetere sottovoce”.
Mi guarda sprezzante: “Perché, c’iai l’orecchio bionico?”
Chat al computer, merendina, messaggi col cellulare, trucco, prove allo specchio. Dopo, lascia tutto in disordine. Prima di uscire, si affaccia nella mia camera: “Papà, io esco”.
Ciao Marguerite, hai fatto bene a salutarmi, anche se ascoltare la tua voce, ormai, non mi dà più alcuna gioia. Quella dei maschi, a quest’età, cambia di tono. La tua, invece, ha mutato le note, e invece di arricchirsi si è involgarita, rattrappita come la tua mente, come i messaggi monchi che le tue dita inviano senza sosta ogni giorno. La professoressa di italiano ti ha chiesto, qualche giorno fa, di parlare dei valori dei giovani, dei tuoi valori. Dopo mesi che non parlavamo di scuola mi hai pregato di aiutarti, perché – così hai detto, inconsapevole di aggravare il mio tormento – hai il cervello chiuso, e non riuscivi ad esprimere neppure un pensiero. Improvvisamente ti sei ricordata che sull’antologia avevi a disposizione uno schema formato da un grafico e un elenco: “la famiglia, la salute, le amicizie, il benessere, la scuola, il lavoro, la pace”. Neppure questo ti ha aiutato. Il brutto è che non ci riuscivo neppure io, dicevo solo cose banali, pensieri smorti, impersonali. Insieme ci stiamo succhiando il cervello, il cuore, la vita. Mi nutrivo di te, Marguerite, ma ho esagerato, sono arrivato al tuo sangue, ma il sangue di un figlio è veleno per un padre.
Ora sei uscita; dovrei lasciare le tue cose dove le hai sparse, e se le metto via è solo perché stasera non mi va di sentire le urla di tua madre. Le penne colorate, l’involucro di una caramella, un fermacapelli, una salvietta, una penna rossa, il diario. È aperto: sulla pagina, una spessa scritta gotica in rosso carminio: “HARD CORE”. Un’altra: “Giuly, avevi ragione, Kim è proprio bono”; poi “non te lo dico, altrimenti che segreto è?”, “Betty, vaffanculo, c’iai Raggio!!!”, “Apri gli occhi e inizia a sognare. 3MSC tre metri sopra il cielo”, “Mi manki, xkè fai così? Ti adoro…”, “Nient’altro che noi”. E poi una pagina scritta per intero: “Revolution look cantavano i Clash la rivoluzione di un disco che gira al contrario e diventa… il rumore che diventa suono il battito che diventa ritmo forza fratellini spingete la vostra vita a tutta velocità non smettete mai di fare rivoluzione La luna diventa come il sole la notte il giorno perché dietro ad ogni persona se ne nasconde un’altra forse più bella forse più nuova. Forse la tua…”
“FM 107. 03 RADIO CAOS”
“Gira al contrario Clash scratch”
Scratch. Lo sai Marg, c’è un cantante che ha voluto concludere la sua carriera con quel suono, lo scratch che faceva la puntina sui dischi di vinile. Quel cantante si chiama Peter Green, era il chitarrista dei Fleetwood Mac, ed è l’autore di Black magic woman, un classico del rock che certamente conosci. Che storia, Marg! Questo chitarrista, quando è all’apice del successo, comincia ad accusare problemi psichici, ha attacchi di schizofrenia, e allora abbandona il gruppo e se ne va a fare il giardiniere. Ma prima di lasciare il mondo della musica, incide uno splendido disco da solista, The end of the game, che finisce con lo stridore della puntina sfregata sul disco. Un modo davvero originale per congedarsi dal passato: un disco difficile, geniale, che si conclude con uno sberleffo.
Questa storia ti piacerebbe, Marguerite. Perché non abbiamo mai parlato di certe cose, di tutto ciò che poteva farci un po’ complici, unirci magari per un minuto, per la durata di un disco, di un pomeriggio musicale? Avremmo potuto farlo, ma ho sempre pensato che non era di questo che avevi bisogno. Per me era più utile, più appagante, e persino più piacevole, intrattenerti coi discorsi lunghi e complicati che ti sono scivolati sulla pelle senza lasciarti dentro nulla. Ti sono stato accanto quando lo volevo, e lontano quando sarebbe stato più giusto cercare di capirti e sostenerti; non ti ho seguita negli sport per codardia, negli svaghi per pigrizia, nelle emozioni per il terrore di non poterle sopportare. Il fatto è che quelle cose non contavano per me; ho sbagliato, ma ho sbagliato pensando di fare solo il massimo del tuo bene, il ruolo che avevo scelto come mio destino.
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