FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 40
ottobre/dicembre 2015

Forza & Debolezza

 

PERSISTENZA DEL DEBOLE

di Rafael Courtoisie



Nacqui a Sparta quasi tremila anni fa. Vissi esattamente trenta minuti da quando venni fuori dal ventre di mia madre, che si vergognò per avere generato un figlio così debole.

Il medico che si prese cura di me e la levatrice diedero lo stesso identico parere: non ero degno di essere un cittadino spartano. La mia costituzione minuta, le fragili ossa, le rughe della pelle simili a quelle d’un vecchio, con le ramificazioni delle piccole vene spezzate sul dorso delle minuscole mani, e una trasparenza non umana di pelle di pesce, con la sua delicata membrana da girino, contribuivano al grottesco spettacolo. Nacqui debole.

Persino mia madre provò imbarazzo per me e vedendomi disse: «Sono stata fatta per partorire uomini, non rane».

Vissi poco più di mezz’ora. Trenta minuti passati tra le grandi e brusche palme delle mani di coloro che mi esaminarono con disprezzo perché non ero adatto alla loro casta di guerrieri.

Trascorsi quei minuti, la mia breve razione di vita sulla Terra, tra pianti e stridule voci. Il medico designato dagli anziani per decidere sulle attitudini di quelli che nascevano mi tenne qualche secondo tra le grosse dita che mi sembrarono legnose, ricoperte di corteccia incallita ed estremamente dure, senza una goccia di linfa. Invano cercai il seno di mia madre che mi respinse dal primo all’ultimo istante.

I miei fratelli, i miei compagni di generazione, nacquero forti e muscolosi, con ossa robuste e flessibili che avrebbero resistito alle cadute e ai colpi vibrati con la parte piatta della spada. Loro, e unicamente loro, erano degni di portare lo scudo con il disegno dell’ape.

I muscoli del dorso, le loro lunghe e agili gambe imputridirono, ormai da parecchi secoli, sotto il peso dell’oblio. Le loro poderose braccia, i loro perfetti ormoni, svanirono nel nulla. Io sono morto subito, a una mezz’ora dalla nascita. Non potei nemmeno conoscere la luce del giorno, dato che venni al mondo di buon mattino e prima che il sole spuntasse mi scaraventarono nel dirupo dei bambini nati deboli, giù nell’abisso degli inutili e privi di forza, nella città fantasma dei miserabili innocenti di Sparta, di coloro che nessuna opportunità meritavano sulla Terra.

Avrei voluto scrivere un lungo poema. Un poema duro come le rocce contro le quali si scontrò il mio volto di neonato, a Sparta. Un poema con fili di silicio e unghie di pietra per penetrare nella carne e spezzare il destino così come si frantumò il grigio calcare delle mie ossa delicate come spugne, la provvisoria instabilità del mio corpo.

Io non ebbi fondamenta, né fui costruito per durare. Prima dell’alba del primo giorno della mia vita giacevo sul fondo d’un precipizio e divenni l’insipido pasto dei ragni, una razione in più con minuscole braccia e gambe nella mangiatoia dei corvi.

Né mio padre, il cui scudo guerriero già da molto tempo è scomparso sotto l’oceano dei giorni, vide il mio pallido viso uscire dal grembo di mia madre per immergersi nella vita soltanto per un istante.

Mio padre muscoloso, flessibile come un giunco e glorioso d’una gloria provvisoria – visto che ormai da secoli nessuno più ricorda il suo nome – non si degnò di vedermi.

Io non fui. Né mi diedero un nome. Porto i nomi di coloro che vennero scaraventati in quel burrone di Sparta. Il mio unico nome è quello della brace non certo dell’incendio. Nulla resta di me se non quel poco che potei essere: qualche minuto nell’ombra della notte.

Per questo ora sono qui: ho diritto a questo breve spazio sulla carta in cui tornare per mano di un altro che mi scrive.

Io sono durato. I miei fratelli, i forti, si sono putrefatti da molto tempo rivelando l’artificio dei loro toraci: dalla loro feroce guardia non giunge un alito. Sono stati.

Io esisto. Morto a Sparta quasi tremila anni fa, con un soffio di vita. Torno su questo foglio e in una lingua estranea perché io, il debole, non conobbi alcuna lingua. Inesistente per il suono articolato e per l’amore delle donne. Imparai soltanto la pienezza del grido rauco del biasimo, il precoce grugnito dell’odio nella smorfia delle bocche, non il bacio. La mano mi scrive ed io ora esisto.

C’è un fiume incessante fatto dei cadaveri dei potenti, il fiume dei forti che cadono in continuazione, le acque brumose di persone che vogliono trionfare.

Io sono nelle terre alte, distante da quelle sponde. E perduro.


Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini


Persistenza del debole è stato pubblicato per la prima volta nel libro di racconti di Rafael Courtoisie El Mar Rojo (1991) e poi nell’antologia poetica Instrucciones para leer ceniza (Colombia, 1994). In seguito è entrato a far parte sia di antologie di racconti che di poesia.


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