Ho nove, dieci anni. Sono a casa di un amico, una villa di fianco a un terreno percorso da una pista di catrame: serve ai camion che fanno la spola con il deposito dei prodotti in cui commercia il padre del mio amico.
Per noi, bambini in bicicletta, questa pista è un circuito sportivo. Essendo giudiziosi, o inibiti dai genitori, non facciamo la corsa, ma ci alterniamo a compiere un giro o due il più veloce possibile.
I rettilinei sono lunghi una trentina di metri; le curve, a gomito – angoli retti delimitati da un recinto di ferro con lo zoccolo basso in muratura. Al centro c’è un quadrato di erba ben curata.
Sto pedalando a tutta forza quando, arrivato all’ultima curva, la ruota anteriore slitta su una patina di catrame e sabbia. Sbando, perdo il controllo. Cercando di correggere la traiettoria finisco con la manopola destra del manubrio contro il recinto. La manopola e la maniglia del freno sbattono nelle sbarre, scorrendo con un rapido arpeggio metallico. Poi cado, ma su un fianco, senza farmi male. Il mio corpo infantile, tonico e leggero, rimbalza appena contro il grigio scuro, quasi nero, del catrame.
Quattro anni dopo mi succede più o meno la stessa cosa. Però lo sfondo, e anche lo svolgimento, sono più articolati, ben più rischiosi e ambigui, come propone l’adolescenza a cui ormai appartengo.
È diversa la bicicletta, che non è più una Legnano con le ruote da 22 pollici, ma un’altra della stessa marca, una 26 a quattro rapporti: la misura più grande prima di quella da adulto che non ho mai comprato, fino a oggi, ereditando vecchi esemplari di famiglia. Ma la novità decisiva è che sto attraversando il paese da solo nella speranza di incontrare una ragazzina di cui sono innamorato. Trovarla in giro non è difficile, in queste vacanze estive iniziate da poco, ma mi inquieta l’ansia che, se succederà, possa essere sotto gli occhi di altri: di sue amiche pettegole, di miei amici beffardi. Peggio ancora, di conoscenti adulti. Questo senso di timore ed eccitazione accompagna la mia ombra che pedala davanti a me sulla strada deserta.
E forse è proprio l’ombra a distrarmi, per averla osservata di continuo con l’occhio di chi, sotto un guscio di accessori recenti (i capelli lunghi, una collana hippie), si teme inadeguato all’incontro. Comunque svolto a sinistra dalla via principale in una traversa che immette nel quartiere dove sarà più probabile trovare la mia amata; svolto senza guardare, e in quel momento esce dalla traversa una macchina. La ruota anteriore della bicicletta va a urtare a perpendicolo nell’anteriore destra della Fiat 850 con un piccolo tonfo elastico che – forse solo nella mia memoria – diffonde una lieve vibrazione sonora; ciò di cui sono certo è che anche stavolta c’è un rimbalzo, qui di gomma da gomma, e vengo respinto indietro, ma non cado. Alzando gli occhi vedo che alla guida della macchina c’è un’amica di mia madre, il cui spavento stizzito si allarga al riconoscermi in un finto sorriso.
Quell’anno stesso, quella stessa estate, un ragazzo e una ragazza della stessa età. Spingono le loro biciclette camminando su una strada di campagna, si allontanano dal paese passando sotto il ponte di ferro che trasporta oltre il fiume un canale per l’irrigazione. Da qualche anno vanno a scuola in città, ma quello che li circonda qui è ancora quasi tutto il loro mondo: ed è dentro il paese, in questi due corsi d’acqua che si incrociano e nelle carrarecce che portano ai cascinali già spopolati.
Il loro mondo è in questo verde smorto onnipresente, impolverato dall’estate, e nei pennacchi di fumo nerastro che si alzano dalla discarica poco lontano. A quei pennacchi sono indifferenti, muovono i loro passi in una coltre d’afa, di febbre e desiderio, con gli occhi indolenziti nella speranza del bacio interminabile che drenerà il polmone troppo pieno dei loro corpi ancora non molto differenziati.
E mentre escono dall’ombra di un pioppo confinario il sole pizzica col suo primo raggio i raggi delle ruote. Pizzica il primo, poi il secondo e il terzo, risuonando dei loro sogni intatti.
Una ragione trascurata per cui possiamo vivere la vita come i sogni è che da un solo filo, per quanto esile, sentiamo il bisogno di tessere una tela. Sogniamo i nostri sogni scombinati, viviamo i nostri momenti slegati e ci studiamo di dare loro un ordine convenzionale, come se vita dovesse essere storia; come, soprattutto, se non potesse essere niente di meglio che una storia.
Biciclette nei sogni. La notte del giorno in cui esco per l’ultima volta dalla casa dei miei genitori sogno me stesso nel luogo dove sono cresciuto, in compagnia di amici dell’infanzia che nella vita vigile non vedo da tanti anni. E sembra, sì, una specie di ritrovo, ma della cui natura allusiva tutti siamo misteriosamente consci: anche perché, pur apparendo nell’aspetto adulti, siamo andando tutti in bicicletta come da bambini, una banda di adulti in bici che scorrazzano per il paese. La bicicletta è quella di mia madre: non la vedo, ma sento sotto di me la sella troppo bassa, alle mie spalle gli elastici tesi perché la gonna non si impigli tra i raggi.
Insieme a uno degli amici sto pedalando verso la casa di un altro – proprio la villa con la pista di catrame – per chiedergli di uscire a fare un giro con noi, ma mi accorgo in un attimo che è arrivato l’autunno, e sta scendendo il buio. Non potrò ritornare in bicicletta a casa mia, quella di città dove abito ora: dista molti chilometri, e i freni non funzionano e non sono abbastanza coperto, avrei freddo.
Poi l’amico è scomparso, e allora penso di chiedere a mio padre di accompagnarmi in macchina, e tutti quegli anni ritornano di colpo nel passato: perché adesso ricordo che nella casa dei miei non c’è quasi più nessuno e mio padre è troppo vecchio, e col buio potrebbe scendere la nebbia, e qui anche il sogno come il tempo della vita s’inclina, comincia a roteare in un imbuto, ma al contrario del tempo della vita il buio che ormai ha avvolto il paese riapre gli occhi, semplicemente, al buio della notte.
|