FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 26
aprile/giugno 2012

Botteghe

 

DA PEPPE LU BRUTTU
Botteghe o centri commerciali?

di Armando Santarelli



Oggi ci sono i centri commerciali, i mega-store, i negozi monomarca e quelli di tendenza, gli outlet, i laboratori del gusto, gli atelier di moda. Un tempo c’erano le botteghe e basta: insieme alla scuola e alla chiesa, il cuore pulsante di ogni borgo italiano.
In un paese come il mio, mille abitanti appena, le botteghe avevano la carta d’identità. Infatti, pensate che le chiamassimo “panetteria”, “alimentari”, “pasticceria”, “calzolaio”, “tabaccheria”, “fruttivendolo”? Niente affatto; le botteghe avevano i nomi e i connotati, personali e inconfondibili, dei loro proprietari: “da Sarrafina” (Serafina), “da Peppe lu bruttu”, “da Vincenzo lu zuzzu”, “da Concetta”, da “Bastianu Fusaglia”.
Capirete che non c’era possibilità di malintesi. Esistevano quattro botteghe di alimentari nel mio paese; ma quando voleva comprare del salame mia madre mi diceva “Va’ da Concetta e fatti dare due etti di salame”. Non sbagliavi negozio e non sbagliavi salame, perché Concetta ne vendeva un solo tipo, e a noi piaceva quello.

Il nome restava appiccicato alla bottega per tutta la vita del proprietario, e anche oltre, se il successore non aveva il “carisma” per imporre il suo al posto dell’altro. Un’identificazione sacrosanta, perché la bottega, come già detto, prendeva anche il carattere, il gusto, il senso estetico del proprietario. Ai profumi delle sostanze che vi erano ammassate – pane, dolci, farine, sementi, cuoio, legno, tabacco – si univa la particolare atmosfera generata dall’amore, dalla perizia, dall’esperienza di chi si prendeva cura di ogni aspetto del suo locale: l’arredo, la scelta e l’acquisto delle merci, lo scarico e il deposito, la conservazione e la vendita. Ne prendeva anche l’anima; entravi da Concetta con un certo spirito, e da Sarrafina con un altro. Concetta era seria e sbrigativa, ma così precisa e intelligente che ti leggeva nel pensiero; e se avevi un dubbio su che cosa acquistare, ti dava consigli che si rivelavano sempre esatti, a costo di rimetterci dei soldi. Serafina era più dolce, aveva una parola buona e un sorriso per tutti. Faceva credito pur sapendo che in certi casi non avrebbe recuperato nulla, e accettava di buon grado di barattare la merce con quello che i compratori potevano offrirle.

Per noi bambini, le botteghe erano croce e delizia. Croce, perché mentre giocavi la partita del secolo contro il rione Trabocca, tua madre si affacciava improvvisamente alla finestra: “Armando, vieni, serve mezzo chilo di pane e un etto di formaggio grattugiato”. Rabbia, piedi pestati in terra, proteste; ma a quei tempi si obbediva, e ottenuta la sospensione della gara, partivi come un razzo, senza neppure sperare in una ricompensa: i soldi erano contati, non ci scappava nemmeno una giuggiola o una mora di liquirizia.
Allora ci provavi tu. Se da Sarrafina e da Concetta entravi quasi lacrimando, pregandole di fare presto perché avevi interrotto la finalissima del torneo dei rioni, potevano anche allungarti un dolcetto. Ma se dietro il bancone di Concetta trovavi il marito, non c’era niente da fare. Quando riempivi due buste di roba diventavi più audace, e ci provavi: “Ma con tutto ’sto ben di Dio non ci scappa un cioccolatino?” E lui, guardandoti torvo e ironico: “Eh sì, che ce rimetto de guadampio!”

La croce te la facevano abbracciare nei momenti più impensati. Eri fuori dallo sguardo bionico di tua madre, perduto nei vicoli del centro storico a giocare a nascondino, ma passavi davanti a casa di zia Mariangela, e lei ti fulminava: “Figliu meu, te manna la Provvidenza! Tòcca, vamme a piglià un barattulu de gongole da Concetta”.
“Zia ma sto a gioca’ a nascondino! Ti ci vado dopo”.
“Me servanu mo’. Volarristi dice de no a zia Mariangela?” Ovvero: “Se non ci vai lo dico a tua madre, e sai che lei te le suonerà”.
“Va bene”. Scappo verso la bottega di Concetta, ma per non farmi tanare debbo fare il giro di tutto il paese. Compro il barattolo e arrivo trafelato da zia, che mi aspetta sulla porta di casa. “Eccolo, zia. Però ascolta, si chiamano vongole, non gongole”.
Sbarra gli occhi e la bocca, e gira la testa verso le anziane sedute sul muretto: “Comme è bravu! È propriu della razza nostra!”.

Non ci si mettevano solo i parenti, ogni anziano era autorizzato a comandarti a bacchetta. Gli bastava un cenno: “Regazzì, vamme agliu spacciu, comprame due Esportazioni con filtro”. Tu prendevi i soldi e andavi da Peppe lu bruttu: “Due Esportazioni con filtro”.
E lui: “Pe’ cchi so’?”
“Pe’ Pietro Sconcassa”.
“Pietro ne compra sempre un pacchetto…”
“E che ne so io? Starà senza soldi”.
“Te si missu a fumà? A mi, me sta be’. Ma attentu a mammota, quella te stocca le cianche”.
“Aho, mica penserai…”
“Bravu, bravu testa de broccolo”.
Torno da Pietro: “Ma proprio a me dovevi prende? Peppe ha detto che ne compri sempre un pacchetto, e ha pensato che fossero pe’ me”.
“La prossima vota digli che se ficesse i cazzi se’. E che rengraziesse Dio che ci sta sulu issu, de tabbaccaru”.

Ma Peppe aveva voluto solo sondare il terreno; era furbo, e ci conosceva bene tutti, perciò, per arrivare alla verità, gli bastava guardarci in faccia. Non avrebbe mai forzato la vendita di una sigaretta a un ragazzino; la sua immagine, la sua dignità, avevano più importanza, per lui.
Se la mia stessa richiesta l’avesse fatta Tonino Tammurrinu, non avrebbe avuto dubbi. Tonino guardava il gregge in montagna, e la mattina, prima di andarsene, sua madre gli dava un grosso pezzo di pane e dei soldi.
“Va’ da Alberto Camiciola, e comprate 20 lire de mortadella”.
Ma Tonino prendeva un’altra direzione, quella di Peppe: “Un’Esportazione con filtro, e una Nazionale senza filtro”. Tonino era già grandicello, e Peppe non poteva negargliele.
“Eccole. Venti lire. Ma nun era meglio che te ce riempivi la trippa?”
Tonino negava, ma il totale lo tradiva. Undici lire l’Esportazione, nove la Nazionale, totale venti lire precise. Niente resto, se sua madre l’avesse trovato si sarebbe insospettita.

Vincenzo lu zuzzu era tirchio e scortese, e non faceva credito a nessuno. Ma la sua bottega era l’antro delle meraviglie: ci trovavi mille tipi di chiodi, chiavi e lucchetti di ogni grandezza, piatti da cucina decorati, la colla Coccoina – dal profumo così accattivante che ti veniva voglia di mangiarla – e poi mangimi, sementi, attrezzi per la campagna, coltelli multiuso che ci facevano uscire gli occhi di fuori. Monopolista, trattava tutti allo stesso modo: parla poco, paga e vattene. Ma nel paese trovi sempre la scarpa per il tuo piede. La sua Nemesi si chiamava Nicola, detto Campalacasa. Disoccupato cronico, mezzo autistico, mezzo epilettico, mezzo alcoolizzato, imprevedibile e geniale, capace di contare il quarantotto a scopa mentre parlava tranquillamente d’altro, si vendicava delle angherie di Vincenzo con la cattiveria degli sfigati. Quando aveva la luna storta, aspettava che arrivasse l’ora di chiusura, e proprio mentre Vincenzo metteva la chiave nella serratura, compariva davanti al negozio e si faceva riaprire. Ma era ciò che chiedeva a far imbestialire Vincenzo: cinque lire di semola per i porci, o magari tre chiodi, o due lire di lupini…
E aveva escogitato una vendetta ancor più diabolica: se sentiva arrivare le crisi epilettiche, durante le quali ululava come un lupo, si andava a gettare sempre sull’uscio della bottega di Vincenzo, perché, diceva, “lupi e sciacalli so’ parenti”.

La croce si faceva meno pesante, ogni tanto. Un mio compagno di giochi era Umbertino, uno dei cinque figli di Menicuccia, vedova che viveva in condizioni di estrema povertà. Ci mandava a comprare quasi sempre un etto di conserva di pomodoro e sei etti di pasta. La “conserva” di quei tempi era un grumo concentratissimo di polpa di pomodoro disseccata al sole. A volte, dopo che le avevamo riportato la “spesa”, rimanevo ad osservarla. Metteva la conserva in un tegame di coccio, poi ci versava sopra, lentamente, dell’acqua bollente e qualche verdura rimediata, e rimestava piano. Il risultato era una misera brodaglia rossa, il sugo per la pasta dei figli. Tutti gli alimentari avevano la pasta sfusa, ma Menicuccia ci mandava a comprarla da Camiciola, dove costava meno. E la ragione c’era: Camiciola conservava la pasta dentro enormi sacchi di iuta, sui quali ogni tanto vedevi camminare i vermi o le volarelle (le tignole fasciate). E se volevi comprare una manciata di rigatoni, lui faceva un cartoccio con la carta paglia, ficcava la mano nel sacco, prendeva un pugno di pasta e ti faceva il prezzo a occhio.

La delizia, naturalmente, erano le botteghe che vendevano i dolci. Non c’era bottegante che non si fosse accorto del potere di seduzione dei primi cioccolatini e delle prime lecca-lecche.
La caverna di Alì Baba era la bottega di Serafina. Perché il marito era un tipo freddo e burbero, ma ci sapeva fare. Fu lui a portare in paese la delizia più intrigante e agognata da ogni ragazzino degli anni ’50: la gomma americana.
All’inizio, le nostre mamme fecero resistenza; per loro il chewing-gum era, al contempo, un vizio, una spesa inutile, un’americanata, un veleno per i denti, un appiccica-vestiti, e diavolerie del genere. Non essendo un alimento, se si dovevano spendere cinque lire, qualsiasi mamma preferiva comprare al figlio un pezzetto di cioccolato, e non quella cosa gommosa da ciancicare inutilmente per ore. Ma per noi il chewing-gum era il must, e le mamme si arresero presto.
Qualche tempo dopo, sul banco di Concetta, avvolto in una dorata carta di stagnola, vedemmo un invitante panetto bicolore. Assaggiarlo e innamorarsene fu questione di attimi; crema e cioccolato che si fondevano a meraviglia, squagliandosi in bocca in un sapore pieno e armonioso. Ma restò un amore contrastato, perché la “ciucculata a tagliu” avremmo voluto mangiarla assoluta, mentre le nostre mamme si intestardivano a darcela per merenda, ficcandola tra due enormi fette di pane.

I tempi erano maturi per il più intrigante dei dolci, forse il primo messaggio subliminale di tutti i tempi: da Sarrafina comparvero i golosini, croccanti involucri di cioccolato a forma di mammelle, ripieni di una panna così bianca e soffice da suggerire golose e inebrianti reminiscenze infantili.
E poi ci fu l’esplosione, la cuccagna, la rivincita dei genitori – a nostro vantaggio – sulla fame che avevano patito. Arrivarono i tacchi, grossi pezzi di cioccolato fondente a forma di tacco di scarpa, i pescetti, liquirizie con la silhouette delle creature del mare che costavano una lira l’uno; i gelati di zucchero, friabili delicatezze al gusto di fragola; i lacci, lunghe strisce di liquirizia gommosa e consistente; i formaggini di cioccolato, bruni parallelepipedi di cioccolato al latte farcito con nocciole tritate.
L’ultima chicca di Serafina, di cui ebbe l’esclusiva per anni, furono le pésche. Ovvero, bustine di figurine contenenti le carte da poker, con ognuna delle figure – fante, regina, re e jolly – associata ad un premio: un dolcetto, un adesivo, un pupazzo, un pallone. Era per vincere i palloni che prosciugavamo le tasche e i borsellini dei genitori, perché non ci bastavano mai. Il nostro campo di gioco, la Piazzetta Civica, era chiusa sul lato sinistro dalla casa di Duilio, detto lu Verre. Ogni giorno diversi palloni finivano dentro la sua proprietà, ed era la loro fine. Non solo non ce li restituiva; se era in casa, gli piaceva ostentare quel macabro rituale: usciva dal cancello col pallone in una mano, e una roncola nell’altra. Richiamava la nostra attenzione, metteva il pallone a terra e lo trinciava, gridando: “Vui non v’arrindite, ma mancu io. Tanti ne veu qua dentro e tanti ne spacco!”

Le pésche e le figurine dei calciatori della Panini furono gli ultimi sussulti di Sarrafina e delle vecchie botteghe. Cominciò una nuova era, sorsero nuovi esercizi commerciali, diversi persino nel nome: negozi, non più botteghe. E queste, a mano a mano che si staccavano dai vecchi proprietari, perdevano tutto il loro fascino.
Oggi, non ne sopravvive quasi nessuna. Quella di Serafina passò a una delle figlie, svogliata e paga della clientela ereditata da sua madre. E dopo la figlia ai nipoti, che hanno diviso il vecchio locale, e avviato due distinte attività: un anonimo negozio di abbigliamento e un negozio di fiori. La bottega di Camiciola non c’è più, non c’è più il buco di Checchino, il calzolaio, il rumoroso antro di Aprilio, lo stagnaio, l’emporio disordinato di Vincenzo lu zuzzu, l’odorosa stanzetta di Concetta. La tabaccheria di Peppe lu bruttu, invece, ha resistito; in mano a un erede, ha l’aspetto di una fredda camera da pranzo: vetri, alluminio, mobili lucidissimi, aria asettica, neppure un lontano sentore degli aromi di un tempo: tabacco, fiammiferi, spezie, caramelle.

Il progresso, distruttore a sua insaputa, ha spazzato via le vecchie botteghe. Forse è giusto così: c’è più igiene nei negozi di oggi, più merce, più scelta, più professionalità, più eleganza. Ma chi ha conosciuto le vecchie botteghe non può non ricordare con struggente nostalgia quei buchi pieni di umanità, di amicizia, di comprensione, di spese piccole negli importi e lunghe nel tempo, perché le parole e il contatto umano avevano molto più valore delle monete che uscivano dagli striminziti borsellini delle nostre mamme.


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