FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 13
gennaio/marzo 2009

Nutrimenti

CHE FINE HA FATTO LA SINISTRA ITALIANA?

di Emiliano Sbaraglia



Che ha fine ha fatto la sinistra italiana, in tutti i sensi?
Se lo chiedono in molti in questo periodo, più o meno pubblicamente, più o meno direttamente, più o meno sinceramente. Tra gli altri, un libro appena pubblicato dall’editore Ediesse dal titolo eloquente Ho perso la sinistra, scritto da Eduardo Aldo Carra, economista e direttore dell’Osservatorio congiunturale dell’Ires-Cgil. Carra analizza, come ben definisce il sottotitolo scelto, le ragioni del declino e le proposte per “reinventare” un nuovo e credibile soggetto politico di sinistra in Italia. Il problema, dunque, c’è.
Se si è arrivati a questo punto, molto dipende dalla perdita di percezione del mondo reale, che praticamente tutte le componenti a sinistra dello scenario politico nazionale hanno evidenziato da circa un ventennio a questa parte. Potrà sembrare una banalità, ma è semplicemente così.
Da considerare poi un’altra perdita, quella di credibilità da parte degli esponenti istituzionali, dai sindaci ai “leaders”, problema che si è tornati a riassumere nella berlingueriana formula di “questione morale”: un recente dibattito nazionale della Sinistra democratica a Roma, si è incentrato proprio su questo tema.

Lo sfaldamento si è consumato proprio quando sembrava che una strada diversa si fosse intrapresa. Era quella della “Sinistra Arcobaleno”, che riuniva le quattro componenti rimaste a sinistra dopo la “fusione a freddo” tra Ds e Margherita (scelta di cui oggi si cominciano visibilmente a vedere le pesanti conseguenze): il Partito della Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, Sinistra democratica, i Verdi. Quattro spose per quattro fratelli, si potrebbe definire il progetto politico, con l’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti a battezzare il tutto; e i fratelli dovevano rispettivamente essere Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Fabio Mussi, Alfonso Pecoraro Scanio, questi ultimi due allora ancora ministri del morente governo Prodi. Erano infatti le giornate del 9 e 10 dicembre del 2007, teatro di questo scenario l’orribile struttura del Nuova Fiera di Roma, tra le campagne verso Fiumicino.
La mattina di domenica Pietro Ingrao, il “grande vecchio” riconosciuto come tale da tutta la sinistra italiana rimasta e icona dei nuovi movimenti, la figura che come nessuno riesce a rappresentare e unire il passato, il presente e il possibile futuro di tutti i convenuti, si presenta sul palco per dichiarare la propria adesione a quello che sarà il cartello elettorale del prossimo appuntamento alle urne, che di lì a qualche mese si materializzerà quasi inatteso, almeno tra le nascenti formazioni del Partito democratico e, appunto, della Sinistra Arcobaleno.

Quando Ingrao al termine del suo breve intervento chiama sul palco Nichi Vendola, applaudito da una platea interamente commossa, e lo bacia, il passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo, tra il passato e il futuro, la tradizione e l’innovazione, la storia e il cambiamento della storia, sembra essere compiuto. E invece, esattamente da quel momento in poi, all’interno della neanche neonata sinistra italiana comincia un progressivo e irreversibile processo di autodistruzione. Quella giornata si concluderà con il segretario Prc Giordano che dichiara ai giornalisti che nessuno ha eletto Vendola alla guida del nuovo partito, mentre Diliberto ricorda che lui ha sempre parlato di “federazione”, senza quindi contemplare lo scioglimento delle quattro formazioni politiche, e senza abbandonare, per quanto gli riguarda, la falce e il martello. Mussi e Pecoraro Scanio, numericamente più deboli, si defilano.
Lo spettacolo offerto al popolo della sinistra è desolante prima, deprimente poi, e il giudizio delle urne metterà il sigillo a una crisi già in corso d’opera, al di là della scelta di Veltroni di “correre da solo”, o quasi.
Il resto è storia di oggi, lo sfaldamento progressivo procede implacabile.

A questo punto, il “Che fare?” di leniniana memoria torna prepotente alla ribalta. Lo smarrimento di chi nel nostro paese si sente di sinistra e non sa a quale santo rivolgersi è sin troppo evidente, e le alternative leghiste o dipietriste cercate da un certo tipo di elettorato e certificate dall’analisi del voto, non hanno fatto altro che confermarlo. Il vasto sentimento popolare manifestato dal cosiddetto movimento “no-global” a inizio secolo, del quale le frange estremiste erano ben lontane dal rappresentare la grande maggioranza di società civile che ha partecipato alle giornate di Genova nel 2001 e del Social forum europeo di Firenze qualche mese dopo, è stato un patrimonio politico dissipato sciaguratamente nel giro di breve tempo.
Nel libro di Carra si auspica “una profonda ricostruzione di strategie e di comportamenti”. Tutti d’accordo: ma in cosa dovrebbe concretamente consistere questa ricostruzione?
La ricetta che viene in mente appare scontata quanto difficilmente percorribile, vale a dire ripartire da zero spazzando via i volti dei soliti noti, dei loro adepti, e dei triti e ritriti meccanismi che legano tra loro piccoli gruppi di potere, più o meno posizionati all’interno delle parcellizzate componenti della sinistra che fu. Ma allo stato dei fatti, un percorso di questo genere non si capisce nemmeno da dove poterlo iniziare.
Intanto tra le pieghe della società civile qualcosa continua a muoversi, verrebbe da dire quasi per forza di inerzia, viste le sempre più preoccupanti condizioni economiche in cui versa il nostro paese. Perso per perso, le persone continuano a provare ad organizzarsi, a reagire e a protestare, e l’”Onda anomala” di scuola e università ne è stata l’ultima lampante rappresentazione: non a caso, in molti hanno giudicato il recente movimento l’unica vera opposizione credibile ed efficace con cui l’attuale governo di centrodestra sia stato costretto a confrontarsi, e l’unica opposizione riuscita ad ottenere dei risultati, avendo costretto il ministro Gelmini a “congelare” il tanto contestato decreto che porta il suo nome.

Forse allora bisognerebbe ricominciare da qui, ricominciare ad ascoltare le voci che arrivano dalle strade e dalle piazze, e provare ad aiutarle nella costruzione di un altro futuro rispetto a quello che si prospetta loro.
In che modo?
Comportandosi innanzi tutto in maniera coerente e corretta ogni giorno, rispettando il lavoro e i diritti altrui, magari cominciando da quei luoghi di lavoro che ancora sono gestiti e controllati da una certa sinistra: per fare un esempio, non si può accettare il precariato nelle redazioni di quei giornali e di altri organi di informazione che quotidianamente denunciano il dramma del precariato; non si possono sottopagare o non pagare affatto giovani che offrono il loro entusiasmo e la loro disponibilità; non si può essere credibili se si utilizzano gli stessi metodi che si criticano quando ad adoperarli sono altri.
A pensarci bene, la “questione morale” ruota anche, se non soprattutto, intorno a tutto ciò. In questo senso, con tutti gli errori di strategia politica che gli si possono attribuire, la personalità di Enrico Berlinguer ha di certo insegnato qualcosa.
Ma tra coloro che attualmente ricoprono ancora ruoli-chiave per dare il segnale di una vera e propria svolta, non si vede nessuno realmente intenzionato a raccogliere tale eredità.


emilianosba@tiscali.it