FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 13 gennaio/marzo 2009 Nutrimenti |
ÁLVARO MUTIS, LE OPERE PERDUTE di Martha Canfield |
Le due voci di un solo grande poeta L’opera di Álvaro Mutis è divenuta un punto di riferimento nella letteratura contemporanea europea e americana, tradotta in moltissime lingue, insignita di alcuni dei premi internazionali più importanti - il Medicis in Francia, il Grinzane Cavour in Italia, il Cervantes in Spagna - e costantemente ristampata e studiata. Quando gli autori diventano così famosi è consuetudine pubblicare le sue opere riunite, complete o quasi, e così avviene per il creatore di Maqroll il Gabbiere: abbiamo grossi volumi con i sette romanzi della famosa saga, oppure la poesia completa, ma diventa più difficile trovare edizioni autonome delle singole raccolte. Quindi questa volta si è voluto andare contro corrente e proporre al lettore italiano l’edizione di un singolo libro emblematico, Le opere perdute, in uscita la prossima primavera per i tipi della casa editrice Ponte Sisto di Roma, nella collana «Doppiofondo», iniziata da Carmen Leonor Ferro e attualmente diretta da Héctor Febles e Stefano Tedeschi. Il libro è molto significativo nell’insieme della poetica di Mutis, sia perché lì si trova la genesi di Maqroll, sia perché in esso affiora, indubbia e possente, la maturità poetica dell’Autore. Nella sezione intitolata Reseña de los hospitales de ultramar (Rassegna degli ospedali di oltremare), in effetti, il suo costante personaggio acquista forza e definizione psicologica e metaforica; inoltre, nella sezione che dà titolo al volume, Los trabajos perdidos (Le opere perdute), emerge una voce poetante che non è Maqroll e che si andrà rafforzando via via lungo la vita di Mutis, fino a impadronirsi del tutto del suo dettato poetico, relegando il personaggio nello spazio della narrativa.
Forse una delle ragioni per cui l’opera di Mutis desta appassionata adesione in una vera folla di lettori è perché ognuno di noi vorrebbe in fondo attraversare la vita come un’avventura affascinante e misteriosa, per arrivare infine sulla spiaggia serena dell’illuminazione. E ognuno di noi ha avuto in parte, o avrebbe voluto avere, un compagno segreto, come Maqroll, con il quale dialogare; ma soprattutto che sia in grado di accettare e di realizzare quel terribile compito che noi, consapevolmente o meno, gli affidiamo: di andare avanti e provare al posto nostro quei dolori e quelle esperienze estreme - Maqroll conosce la sconfitta, il tradimento e perfino l’omicidio - mediante le quali la natura umana si rivela in tutto il suo orrore e anche in tutta la sua grandezza. Cosa può pensare Maqroll dell’essere umano o della Provvidenza o del destino, quando scopre che la prostituta con cui ha appena trascorso la notte è una figlia sconosciuta del suo stesso padre? Quale ragione banale o suprema trovare al fatto che parte della sua vita la trascorre come sorvegliante di una miniera abbandonata dove la luce riesce appena a insinuarsi sui fiori spinti dal vento nelle gallerie, dove le voci che si ascoltano sono forse unicamente prodotti dei suoi incubi? Come non pensare vallejianamente che lui - ma forse ognuno di noi - fu creato «un giorno che Dio era malato»? Come sopportare la vita quando si arriva a concludere, come fa appunto il Gabbiere, che «nessuno ascolta nessuno»? E lui sostiene, con disarmante e calma sicurezza, che «la parola di per sé è un inganno», che la memoria costantemente ci tradisce e che «Vivere senza ricordare sarebbe forse il segreto degli dèi».3 2Credo che la forza carismatica di Maqroll derivi dalla sua stessa “disperanza”, parola molto usata da Mutis per esprimere un concetto che può sembrare paradossale: quando non ci si aspetta più nulla dalla vita, quando non si “spera” più, allora siamo finalmente liberi di godere l’attimo fuggente, di prendere a pieno quello che la vita vorrà darci, proprio perché siamo preparati all’eventualità di perderlo tutto. Ma non è facile liberarci dallo scudo della speranza. Chissà se Mutis l’ha veramente fatto. Di sicuro sappiamo che l’ha fatto Maqroll ed è sicuro che se l’ha fatto Maqroll, Mutis ne ha ricevuto i benefici: il vecchio amico si è congedato tempo fa, ma la sua memoria non può scomparire. Ed è per questo che lo vediamo tornare, romanzo dopo romanzo, per illuminarci ancora attraverso il suo disincanto, attraverso il suo rifiuto a insegnare niente, e proprio a partire dalla forza etica del suo comportamento: trasgressivo quanto vogliamo, spregiativo delle leggi deboli e imperfette degli uomini, ma ubbidiente alla legge superiore. Tanto da poter assicurare: «Ricorda Signore che il tuo servo ha osservato pazientemente le leggi del branco».4 Con gli anni, in assenza di testi nuovi per rinnovare il dialogo con Maqroll, ritorneremo a leggere il suo vasto testamento, sparso tra poesie, sentenze, canzoni e storie raccontate. Lo leggeremo ancora e ancora. Impareremo dalle sue storie disordinate. E la tristezza lasciata dal suo allontanamento diventerà fede nei valori intramontabili: l’amicizia, la memoria dell’infanzia, la luce del mattino, l’acqua pulita dei fiumi... Avremo così, grazie a questo inconsapevole dono di Maqroll, il più efficace antidoto contro la disperazione, contro la miscredenza, contro il subdolo pericolo della sciocca gioia immotivata.5 1Studio introduttivo, in Álvaro Mutis, Gli elementi del disastro, Le Lettere, Firenze, 1997, pp. 5-27. 2Nocturno en Compostela / Notturno a Compostella, della raccolta Un homenaje y siete nocturnos / Un omaggio e sette notturni (1987) si può leggere in Ibid., pp. 220-223. 3La visita del Gaviero / La visita del Gabbiere, in Ibid., pp. 156-167; le frasi citate in pp. 160-161. Il testo, nato come poesia in prosa o prosa poetica della raccolta Los emisarios (1984), venne poi inserito come appendice al romanzo La nieve del almirante (1986; tr. it. La neve dell’ammiraglio, a cura di Ernesto Franco, Einaudi, Torino, 1990, pp. 135-143). 4Preghiera di Maqroll, in Gli elementi del disastro, cit., p. 43. 5Ho parafrasato l’inizio della Preghiera di Maqroll, cit. Álvaro Mutis nasce a Bogotà il 25 agosto 1923, ma la sua infanzia la trascorre a Bruxelles, dove suo padre è inviato come diplomatico. Il francese, che i genitori parlano perfettamente, diviene la sua seconda lingua. La vita del bambino Mutis si svolge quindi in Europa, tra il Belgio e la Francia, e per le vacanze in Colombia. A Parigi si reca spesso con sua madre, a trovare parenti presso i quali conosce “la vita alla Barnabooth”, cioè il lusso e la raffinatezza, la cultura, i grandi alberghi. Le vacanze estive, invece, le trascorre nella grande hacienda dei nonni, in Colombia, nella regione del Tolima, immortalata nei suoi romanzi, e vicino ai fiumi Coello e Cocora, più volte presenti nella sua poesia. I lunghi viaggi in nave, la traversata dell’Atlantico e poi del canale di Panama, e il percorso lungo il Pacifico fino al porto colombiano di Buenaventura si trasformeranno in memorie imperiture e in materiale letterario che più tardi si addenserà attorno alla figura del marinaio Maqroll il Gabbiere.
L’adolescenza e la gioventù Mutis le trascorre a Bogotà. Rifiuta di studiare all’Università e ben presto comincia a lavorare. Tiene sempre ben distinti i suoi interessi letterari dal tipo di lavoro che sceglie per vivere. A 19 anni sposa Mireya Durán Solano, e deve pensare a mantenere la famiglia che cresce subito con l’arrivo della figlia María Cristina, e poco dopo di due maschi, Santiago e Jorge Manuel.
Mentre lavora alla Radio Nacional, essendo ancora poco più che ventenne, scopre la sua vena poetica. Le prime poesie le pubblica nel 1948, in un volume intitolato La balanza, condiviso con l’amico Carlos Patiño (che in seguito abbandonerà la letteratura per la filosofia). Il libro scompare nei disordini che seguono all’uccisione del leader popolare Jorge Eliécer Gaitán, ma non passa inosservato dalla critica, che sottolinea le “novità” introdotte da questi due giovani, novità legate sostanzialmente all’abolizione della retorica “piedracielista”, ancora imperante in Colombia, e all’introduzione di un dettato affine al flusso di coscienza e alla poetica surrealista. Nel 1953, a Buenos Aires, nella collana della Losada “Poetas de España y de América” che dirigono Rafael Alberti e Guillermo de Torre, esce Los elementos del desastre, un libro molto maturo, con la cifra inconfondibile dell’Autore e dove è già presente Maqroll il Gabbiere, con i suoi tratti caratteristici e il suo insolito nome. Anche le amicizie artistiche e letterarie più importanti e durature della vita di Mutis sono già definite in questi anni: Gabriel García Márquez, Alejandro Obregón, Alberto Zalamea, Gonzalo Mallarino, Álvaro Castaño, e coloro che lui considera in buona misura i suoi maestri: i frattelli León e Otto de Greiff, Casimiro Eiger, Ernesto Volkening. Nel 1954 sposa María Luz Montané Zañartu, dalla quale avrà un’altra figlia, María Teresa.
Nell’ottobre del 1956, accusato di peculato dalla Esso e per sfuggire alla minaccia del carcere, Mutis si trasferisce a Città del Messico. Nella sua nuova residenza, che sarà definitiva nella sua vita, rincontra amici colombiani di vecchia data, in particolare Fernando Botero e sua moglie Gloria Zea, con i quali inizia un’assidua frequentazione; e conosce e stabilisce duratura amicizia con Octavio Paz, Carlos Fuentes, Elena Poniatowska e Luis Buñuel. Dalle amichevoli polemiche con quest’ultimo nasce il romanzo gotico La mansión de Araucaíma (La casa di Araucaima). Poco dopo Mutis ottiene un contrato di lavoro con Telerevista e inizia un’importante collaborazione con Manuel Barbachano e con il mondo del cinema. La sua famosa voce lo porta inoltre a doppiare il narratore in off della famosa serie televisiva Gli intoccabili (1959). Si può dire quindi che egli si sia rifatto una nuova vita, piena di stimoli e in cui la propria opera comincia a essere riconosciuta e apprezzata. Tuttavia, tre anni dopo, l’incubo mai scomparso della possibile estradizione si avvera. Messo agli arresti, non viene però mandato in Colombia ma rinchiuso nel carcere di Lecumberri in attesa di giudizio, dove resterà per quindici mesi; finalmente il suo avvocato colombiano - grazie al costante interessamento del fratello Leopoldo - riesce a far annullare la causa di estradizione e Mutis viene riconosciuto non colpevole e messo in libertà. Siamo agli inizi del 1961. Nel frattempo, nel 1959, è uscita una plaquette come supplemento al n° 26 della Rivista «Mito» (agosto-settembre ’59), col titolo sbagliato e sconfessato dall’Autore, Memoria de los Hospitales de Ultramar (dove “memoria” è refuso per “reseña”). Il direttore della rivista, il poeta Jorge Gaitán Durán, la invia a Octavio Paz, che la recensisce molto elogiativamente (oggi in O. Paz, Puertas al campo, UNAM, México, 1966, pp-131-136). Il volumetto doveva uscire con le illustrazioni di Fernando Botero, preparate appositamente, ma i disegni vengono smarriti in una notte di festa, da un amico e membro del gruppo, lo scrittore Hernando Valencia Goelkel.
A Lecumberri Mutis ha scritto i racconti Sharaya, La muerte del estratega, Antes de que cante el gallo, una prima versione di El último rostro (che anni dopo servirà di stimolo a García Márquez per il suo romanzo su Simón Bolívar), diversi componimenti che più tardi raccoglierà in Los trabajos perdidos, e il diario di cui pubblicherà una scelta di brani con il titolo Diario de Lecumberri, anni dopo ristampato con il titolo Cuadernos del Palacio Negro, come veniva anche chiamato il famigerato penitenziario.
Lo scrittore vive ancora oggi a Città del Messico, circondato o comunque spesso visitato da una vasta stirpe, accresciuta con sette nipoti, oltre a Nicolás, e quattro bisnipoti, di cui la prima è stata Camila, figlia di Eleonora, figlia di Santiago. Purtroppo è venuta a mancare, tragicamente e prematuramente, Francine, deceduta nell’agosto del 2006.
Opere pubblicate
Si citano le prime edizioni di tutte le opere di Álvaro Mutis e si fa una scelta fra le molte seconde edizioni e antologie.
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POESIE SCELTE DI ÁLVARO MUTIS
¡Miren ustedes cómo es de admirar la situación privilegiada de esta gran casa de enfermos! ¡Observen el dombo de los altos árboles cuyas oscuras hojas, siempre húmedas, protegidas por un halo de plateada pelusa, dan sombra a las avenidas por donde se pasean los dolientes! ¡Escuchen el amortiguado paso de los ruidos lejanos, que dicen de la presencia de un mundo que viaja ordenadamente al desastre de los años, al olvido, al asombro desnudo del tiempo! ¡Abran bien los ojos y miren cómo la pulida uña del síntoma marca a cada uno con su signo de especial desesperanza!; sin herirlo casi, sin perturbarlo, sin moverlo de su doméstica órbita de recuerdos y penas y seres queridos, para él tan lejanos ya y tan extranjeros en su territorio de duelo. ¡Entren todos a vestir el ojoso manto de la fiebre y conocer el temblor seráfico de la anemia o la transparencia cerosa del cáncer que guarda su materia muchas noches, hasta desparramarse en la blanca mesa iluminada por un alto sol voltaico que zumba dulcemente! ¡Adelante señores! Aquí terminan los deseos imposibles: el amor por la hermana, los senos de la monja, los juegos en los sótanos, la soledad de las construcciones, las piernas de las comulgantes, todo termina aquí, señores. ¡Entren, entren! Obedientes a la pestilencia que consuela y da olvido, que purifica y concede la gracia. ¡Adelante! Prueben la manzana podrida del cloroformo, el blando paso del éter, la montera niquelada que ciñe la faz de los moribundos, la ola granulada de los febrífugos, la engañosa delicia vegetal de los jarabes, la sólida lanceta que libera el último coágulo, negro ya y poblado por los primeros signos de la transformación. ¡Admiren la terraza donde ventilan algunos sus males como banderas en rehén! ¡Vengan todos feligreses de las más altas dolencias! ¡Vengan a hacer el noviciado de la muerte, tan útil a muchos, tan sabio en dones que infestan la tierra y la preparan!
Guardate un po’ quanto sia da ammirare la privilegiata situazione di questa grande dimora di malati!
Osservate la cupola degli alti alberi le cui foglie scure, sempre umide, protette da un alone di peluria argentata, fanno ombra sui viali lungo i quali passeggiano gli afflitti!
Ascoltate il passo attenuato dei lontani rumori, che denunciano la presenza di un mondo che in ordine si avvia verso il disastro degli anni,
verso l’oblio, verso il nudo stupore del tempo!
Aprite bene gli occhi e guardate come l’unghia pulita del sintomo incide ogni persona con il suo segno di speciale disperanza!;
senza ferire quasi, senza turbare, senza spostarla dalla sua orbita familiare di ricordi e di pene e di cari congiunti,
per lui ormai tanto lontani e così stranieri nel suo territorio di lutto.
Entrate tutti per indossare l’occhiuto mantello della febbre e conoscere il tremore serafico dell’anemia
o la trasparenza cerosa del cancro che custodisce la sua materia molte notti,
fino a sciogliersi sul bianco tavolo illuminato da un alto sole voltaico che ronza dolcemente!
Avanti signori!
Qui hanno fine i desideri impossibili:
l’amore per la sorella,
i seni della monaca,
i giochi nelle cantine,
la solitudine delle costruzioni,
le gambe delle comunicanti,
tutto finisce qui, signori.
Entrate, entrate!
Ubbidienti alla pestilenza che conforta e procura oblio, che purifica e concede la grazia.
Avanti!
Assaggiate
la mela marcia del cloroformio,
il morbido passaggio dell’etere,
il copricapo nichelato che cinge il viso dei moribondi,
l’onda granulata dei febbrifughi,
l’ingannevole delizia vegetale degli sciroppi,
la solida lancetta che libera l’ultimo coagulo, già nero e abitato dai primi segni della trasformazione.
Ammirate il terrazzo dove c’è chi ventila i propri malanni
come bandiere in ostaggio!
Venite tutti
devoti dei più superbi acciacchi!
Venite a fare il noviziato della morte, così utile per tanti, così esperto di doni che infestano la terra e la preparano!
...de donde salían al amanecer las vagonetas cargadas de enfermos con dirección al Hospital de las Salinas. Una pequeña y muy antigua locomotora de vivos colores, llevaba, lentamente y con esfuerzo, el largo tren de vagonetas pintadas de blanco con una raya azul celeste en el borde superior, en cada una de las cuales viajaban hasta cinco enfermos cómodamente recostados. A lo largo de la herrumbrosa vía, reventaban las grandes olas en otoño o iban a morir tranquilamente, después de un largo y luminoso rodar por las arenas, en verano. ¡Qué inolvidable visión la de las blancas sábanas que envolvían los cuerpos lastimados en el hediondo aceite de los males, flotando sobre la fresca lejanía de las aguas, como una dicha que desenrolla sus símbolos! Todo el día duraba el viaje de los enfermos. Al caer la tarde y con las primeras y quietas luces nocturnas, descendían, entumecidos y quejosos, pero tranquilos ya y purificados, como si hubieran llegado de las más apartadas y vírgenes regiones del agua. El tren volvía por la noche con un ruido de hierros que golpean neciamente, con un escándalo metálico de oxidadas armas en desuso, con un chirrido amargo de cadalso imposible en la soledad marina y lunar. Un gran resplandor se hacía poco rato después, producido por la incineración de las sábanas y vendajes que habían cubierto los cuerpos durante el viaje. El humo subía hasta oscurecer una parte del cielo y...
...da dove uscivano all’alba le carrozze cariche di malati verso l’Ospedale delle Saline. Una piccola e molto antica locomotiva dai colori vivaci portava, piano piano e con fatica, il lungo treno dalle carrozze dipinte di bianco con una striscia blu chiaro sul bordo superiore, in ognuna delle quali viaggiavano fino a cinque malati confortevolmente sdraiati.
Lungo i binari arrugginiti, rompevano le grandi onde in autunno o andavano a morire tranquillamente, dopo un lungo e luminoso rotolare sulle sabbie, d’estate.
Che indimenticabile visione quella dei bianchi lenzuoli che avvolgevano i corpi offesi dal puzzolente olio dei malanni, galleggiando sulla fresca lontananza delle acque, come una gioia che dispiega i suoi simboli!
Tutto il giorno durava il viaggio dei malati. Al tramonto e con le prime e fisse luci notturne, essi scendevano, intorpiditi e lamentosi, ma ormai tranquilli e già purificati, come se fossero arrivati dalle più appartate e vergini regioni dell’acqua.
Il treno tornava durante la notte con un rumore di ferri che battono stupidamente, con uno scandalo metallico di ossidate armi in disuso, con uno stridio amaro da patibolo impossibile nella solitudine marina e lunare.
Un grande bagliore compariva poco dopo, prodotto dall’incinerazione dei lenzuoli e delle bende che avevano coperto i corpi durante il viaggio. Il fumo saliva fino a oscurare una parte del cielo e...
Al terminar una calle y formando una plazuela cuadrangular, se elevaba un oscuro edificio de cuatro pisos de ladrillo rojo con amplias ventanas iluminadas, noche y día, por una luz amarilla y mortecina. Allí padecían los Soberbios, los que manejaban la ciudad, los dueños y dispensadores de todas las prebendas, los que decidían en última instancia desde el contrato para la construcción de un gran estadio hasta la mínima cuenta de un albañil de las alcantarillas. El desorden de sus poderes, la horrible variedad de sus soberbias, expresada en cada caso con los más hondos e hirientes matices; la larga historia de sus enfermedades – que era preciso oír con devota atención antes de explicar la razón de la visita –; la fetidez de las salas en donde moraban y despachaban al mismo tiempo sus asuntos, rodeados siempre de frascos y recipientes en los que se mezclaban las drogas y las deyecciones, los perfumes y los regalos en especies que acumulaban los solicitantes y que servían a los dolientes de constante alimento a su irritable gula; la luz siempre escasa de las salas, que hacía tan difícil leer la multitud de papeles, documentos, pruebas, recibos y cuentas que se requerían en cada caso; todo ello hacía para mí detestable la visita de aquel puerto adonde llegábamos todos los años, ya entrada la estación, cargados de húmedos fargos de mercancías y en medio de nieblas que dificultaban las labores de atraque. El permiso para descargar las mercancías y todos los trámites de uso para zarpar, debía yo arreglarlos en el Hospital, pues al Capitán le estaba vedado entrar allí, por no sé qué razones de sangre, religión y precedencia de castas, que según los más arbitrarios designios habían instituido los moradores de la gran casa de ladrillo. A menudo coincidían mis gestiones con el día de permiso para entrada de las mujeres. Sus repelentes risitas de rata se escuchaban entonces en el fondo de las salas y los enfermos alargaban interminablemente sus asuntos mientras satisfacían su deseo con desesperante lentitud, en presencia de los fatigados solicitantes que debían permanecer de pie. Nunca pude ver bien el rostro o siquiera las formas de las mujeres que visitaban las salas, pero jamás olvidaré sus risas contenidas y agudas, simiescas e histéricas, que puntuaban las largas esperas hasta agotar los nervios. En un desorden de cobijas y sábanas manchadas por todas las inmundicias, reposaba su blanda e inmensa estatura de diabético, el enfermo que conocía de los asuntos de embarque. Su voz salía por entre las flemas de la hinchada y fofa garganta en donde las palabras perdían toda entonación y sentido. Era como si un muerto hablara por entre el lodo de sus pecados. Gustaba dar largas explicaciones sobre el porqué de cada sello y la razón de cada firma, a tiempo que se extendía caprichosamente en comentarios y detalles sobre sus dolencias y sus medicinas. Al salir del Hospital, aún seguían flotando ante mis ojos los pliegues de su lisa papada, moviéndose para dar paso a las palabras, como un intestino de miseria, y el largo catálogo de las pócimas se mezclaba en mi mente con la enumeración interminable de los requisitos exigidos para zarpar de aquel puerto de maldición.
Alla fine di una strada e dando inizio a una piazzetta quadrata, s'innalzava uno scuro palazzo di quattro piani di mattoni rossi con grandi finestre illuminate, giorno e notte, da una luce gialla e fievole.
Lì soffrivano i Superbi, coloro che gestivano la città, i padroni ed elargitori di tutte le prebende, quelli che decidevano in ultima istanza tutto, dal contratto per la costruzione di un grande stadio fino all’insignificante preventivo di un muratore delle fogne.
Il disordine dei loro poteri, l’orribile varietà delle loro superbie, manifestata in ogni caso con le più profonde e le più offensive delle sfumature; la lunga storia delle loro malattie – che bisognava ascoltare con dovuta attenzione prima di spiegare la ragione della visita –; il fetore delle sale dove dimoravano e sbrigavano insieme i loro affari, circondati sempre da flaconi e contenitori in cui si mescolavano medicine e deiezioni, profumi e regali in natura che i richiedenti accumulavano e che agli afflitti servivano come perenne alimento per la loro esasperata ghiottoneria; la luce sempre scarsa nelle sale, che rendeva difficile la lettura di un’enorme quantità di carte, documenti, prove, ricevute e scontrini che venivano richiesti in ogni caso; tutto quello mi rendeva detestabile la visita di quel porto dove arrivavamo ogni anno, ormai a stagione inoltrata, carichi di pesanti fagotti di merci e in mezzo alla nebbia che rendevano più difficili le manovre di attracco.
Il permesso per scaricare le merci e tutte le pratiche regolari per salpare, le dovevo eseguire io all’Ospedale, dato che al Capitano era vietato entrarvi, per non so quali ragioni di sangue, religione e priorità di caste, che seguendo i disegni più arbitrari avevano istituito gli abitanti della grande casa di mattoni.
Spesso coincidevano le mie pratiche con il giorno di permesso per l’ingresso delle donne. Le loro schifose risatine da topo si ascoltavano allora in fondo alle sale e i malati prolungavano indefinitamente i loro affari mentre davano soddisfazione al loro desiderio con esasperante lentezza, in presenza degli affaticati richiedenti che dovevano rimanere in piedi. Non ho mai potuto vedere bene il volto né tanto meno le forme delle donne che visitavano le sale, ma non potrò dimenticare il loro ridere trattenuto e penetrante, scimmiesco e isterico, che scandiva le lunghe attese fino a rovinare i nervi.
Sul disordine di coperte e di lenzuoli macchiati da ogni sporcizia, faceva riposare la sua morbida e sterminata corporatura da diabetico quel malato esperto di faccende riguardanti l’imbarco. La sua voce veniva fuori in mezzo al catarro della gonfia e flaccida gola, attraverso la quale le parole perdevano ogni intonazione e senso. Era come se un morto parlasse mediante il fango dei propri peccati. Gli piaceva dare lunghe spiegazioni sul perché di ogni timbro e la ragione di ogni firma, mentre si dilungava capricciosamente in commenti e particolari sui suoi acciacchi e sulle sue medicine.
Quando uscivo dall’Ospedale, continuavano a galleggiare davanti ai miei occhi le pieghe del suo levigato doppio mento, che si muoveva per far passare le parole, come un intestino di miseria, e il lungo catalogo dei decotti si mescolava nella mia mente con l’interminabile enumerazione dei requisiti necessari per salpare da quel porto di dannazione.
Se internaba por entre altos acantilados cuyas lisas paredes verticales penetraban mansamente en un agua dormida. Navegaba en silencio. Una palabra, el golpe de los remos, el ruido de una cadena en el fondo de la embarcación, retumbaban largamente e inquietaban la fresca sombra que iba espesándose a medida que penetraba en la isla. En el atracadero, una escalinata ascendía suavemente hasta el promontorio más alto sobre el que flotaba un amplio cielo en desorden. Pero antes de llegar allí y a tiempo que subía las escaleras, fue descubriendo, a distinta altura y en orientación diferente, amplias terrazas que debieron servir antaño para reunir la asamblea de oficios o ritos de una fe ya olvidada. No las protegía techo alguno y el suelo de piedra rocosa devolvía durante al noche el calor almacenado en el día, cuando el sol daba de lleno sobre la pulida superficie. Eran seis terrazas en total. En la primera se detuvo a descansar y olvidó el viaje, sus incidentes y miserias. En la segunda olvidó la razón que lo moviera a venir y sintió en su cuerpo la mina secreta de los años. En la tercera recordó esa mujer alta, de grandes ojos oscuros y piel grave, que se le ofreció a cambio de un delicado teorema de afectos y sacrificios. Sobre la cuarta rodaba el viento sin descanso y barría hasta la última huella del pasado. En la quinta unos lienzos tendidos a secar le dificultaron el paso. Parecían esconder algo que, al final, se disolvió en una vaga inquietud semejante a la de ciertos días de la infancia. En la sexta terraza creyó reconocer el lugar y cuando se percató que era el mismo sitio frecuentado años antes con el ruido de otros días, rodó por las anchas losas con los estertores de la asfixia... A la mañana siguiente el practicante de turno lo encontró aferrado a los barrotes de la cama, las ropas en desorden y manando aún por la boca atónita la fatigada y oscura sangre de los muertos.
Procedeva attraverso alti dirupi di levigate pareti verticali che penetravano dolcemente in un’acqua sonnolenta.
Navigava in silenzio. Una parola, il battere dei remi, il rumore di una catena in fondo all’imbarcazione, rimbombavano a lungo e agitavano la fresca ombra che andava addensandosi a mano a mano che entrava nell’isola.
All’imbarcadero una piccola scala s’innalzava soavemente fino al promontorio più alto sopra il quale ondeggiava un vasto cielo in disordine.
Ma prima di arrivarci e mentre saliva la scala, scoprì, a diverse altezze e in direzioni diverse, ampie terrazze che probabilmente erano servite in passato per riunire l’assemblea di uffizi o riti di una fede ormai dimenticata. Non erano protette da alcun tetto e il pavimento di pietra rocciosa restituiva di notte il caldo immagazzinato durante il giorno, quando il sole batteva in pieno sulla brunita superficie.
Erano sei terrazze in tutto. Sulla prima si fermò a riposare e dimenticò il viaggio, le sue traversie e miserie.
Sulla seconda dimenticò la ragione che l’aveva portato e sentì nel suo corpo la mina nascosta degli anni.
Sulla terza ricordò quella donna alta, dai grandi occhi scuri e carnagione grave, che gli si offrì in cambio di un delicato teorema di affetti e sacrifici.
Sulla quarta il vento vorticava senza sosta e spazzava perfino l’ultima traccia del passato.
Arrivato alla quinta, ebbe difficoltà a passare a causa dei teli messi ad asciugare. Sembravano nascondere qualcosa, che alla fine si dissolse in una vaga irrequietezza, simile a quella di certi giorni dell’infanzia.
Sulla sesta terrazza gli sembrò di riconoscere il posto e quando capì che era proprio quello che aveva frequentato anni addietro con i suoni di altri giorni, rotolò lungo le lastre di pietra con il rantolo dell’asfissia...
La mattina dopo l’infermiere di turno lo trovò afferrato alla testiera, i vestiti in disordine e con la bocca attonita che versava ancora il sangue scuro e lento dei morti.
Un cardo amargo se demora para siempre en tu garganta ¡oh Detenido! Pesado cada uno de tus asuntos no perteneces ya a lo que tu interés y vigilia reclamaban. Ahora inauguras la fresca cal de tus nuevas vestiduras, ahora estorbas, ¡Oh Detenido! Voy a enumerarte algunas de las especies de tu nuevo reino desde donde no oyes a los tuyos deglutir tu muerte y hacer memoria melosa de tus intemperancias. Voy a decirte algunas de las cosas que cambiarán para ti, ¡oh yerto sin mirada! Tus ojos te serán dos túneles de viento fétido, quieto, fácil, incoloro. Tu boca moverá pausadamente la mueca de su desleimiento. Tus brazos no conocerán más la tierra y reposarán en cruz, vanos instrumentos solícitos a la carie acre que los invade. ¡Ay, desterrado! Aquí terminan todas tus sorpresas, tus ruidosos asombros de idiota. Tu voz se hará del callado rastreo de muchas y diminutas bestias de color pardo, de suaves derrumbamientos de materia polvosa ya y elevada en pequeños túmulos que remedan tu estatura y que sostiene el aire sigiloso y ácido de los sepulcros. Tus firmes creencias, tus vastos planes para establecer una complicada fe de categorías y símbolos; tu misericordia con otros, tu caridad en casa, tu ansiedad por el prestigio de tu alma entre los vivos, tus luces de entendido, en qué negro hueco golpean ahora, cómo tropiezan vanamente con tu materia en derrota. De tus proezas de amante, de tus secretos y nunca bien satisfechos deseos, del torcido curso de tus apetitos, qué decir, ¡oh sosegado! De tu magro sexo encogido sólo mana ya la linfa rosácea de tus glándulas, las primeras visitadas por el signo de la descomposición. ¡Ni una leve sombra quedará en la caja para testimoniar tus concupiscencias! “Un día seré grande...” solías decir en el alba de tu ascenso por las jerarquías. Ahora lo eres, ¡oh Venturoso! y en qué forma. Te extiendes cada vez más y desbordas el sitio que te fuera fijado en un comienzo para tus transformaciones. Grande eres en olor y palidez, en desordenadas materias que se desparraman y te prolongan. Grande como nunca lo hubieras soñado, grande hasta sólo quedar en tu lugar, como testimonio de tu descanso, el breve cúmulo terroso de tus cosas más minerales y tercas. Ahora, ¡oh tranquilo desheredado de las más gratas especies!, eres como una barca varada en la copa de un árbol, como la piel de una serpiente olvidada por su dueña en apartadas regiones, como joya que guarda la ramera bajo su colchón astroso, como ventana tapiada por la furia de las aves, como música que clausura una feria de aldea, como la incómoda sal en los dedos del oficiante, como el ciego ojo de mármol que se enmohece y cubre de inmundicia, como la piedra que da tumbos para siempre en el fondo de las aguas, como trapos en una ventana a la salida de la ciudad, como el piso de una triste jaula de aves enfermas, como el ruido del agua en los lavatorios públicos, como el golpe a un caballo ciego, como el éter fétido que se demora sobre los techos, como el lejano gemido del zorro cuyas carnes desgarra una trampa escondida a la orilla del estanque, como tanto tallo quebrado por los amantes en las tardes de verano, como centinela sin órdenes ni armas, como muerta medusa que muda su arco irirs por la opaca leche de los muertos, como abandonado animal de caravana, como huella de mendigos que se hunden al vadear una charca que protege su refugio, como todo eso ¡oh varado entre los sabios cirios! ¡Oh surto en las losas del ábside! * Moirologhia es un lamento o treno que cantan las mujeres del Peloponeso alrededor del féretro o la tumba del difunto. (N del A).
Un amaro cardo si ferma per sempre alla tua gola
Oh Detenuto!
Avendo vagliato ognuno dei tuoi affari
non appartieni più a quello che il tuo interesse e la tua veglia richiedevano.
Adesso inauguri la fresca calce dei tuoi nuovi indumenti,
adesso disturbi, oh Detenuto!
Voglio elencarti alcune delle specie del tuo nuovo regno
da dove non ascolti i tuoi che deglutiscono la tua morte e
fanno memoria mielosa delle tue intemperanze.
Voglio dirti alcune delle cose che per te cambieranno,
oh irrigidito senza sguardo!
I tuoi occhi saranno due gallerie di vento fetido, calmo, facile, incolore.
La tua bocca accennerà lentamente la smorfia della sua diluizione.
Le tue braccia non conosceranno più la terra e riposeranno in croce,
inutili strumenti solerti nei confronti dell’aspra carie che li domina.
Ahi, esiliato! Qui finiscono tutte le tue sorprese,
i tuoi rumorosi stupori da idiota.
La tua voce si farà con il silente rastrellamento di molti e piccoli animali di colore scuro,
con delicati abbattimenti di materia polverosa ormai e innalzata in ridotti tumuli
che imitano la tua statura e che sono sostenuti dall’aria riservata e acida dei sepolcri.
Le tue sicure credenze, i tuoi vasti piani
per stabilire una complicata fede di categorie e simboli;
la tua misericordia nei confronti degli altri, la tua carità in casa,
la tua ansia per il prestigio della tua anima tra i vivi,
i tuoi lumi da intenditore,
in quale nero buco battono ora,
come inciampano in vano con la tua materia sconfitta!
Delle tue prodezze di amante,
dei tuoi segreti e mai totalmente soddisfatti desideri,
della contorta direzione dei tuoi appetiti,
cosa dire, oh pacificato!
Dal tuo magro sesso rattrappito emana ormai soltanto la linfa rosata delle tue ghiandole,
le prime a essere visitate dal segnale della decomposizione.
Nemmeno una lieve ombra rimarrà nella cassa a testimoniare le tue concupiscenze!
“Un giorno sarò grande…” eri solito dire all’alba
della tua ascesa attraverso le gerarchie.
Ora lo sei, oh Fortunato, e come!
Ti distendi sempre di più
e trabocchi dal posto che ti è stato assegnato
all’inizio per le tue trasformazioni.
Sei grande per odore e per pallore,
nelle disordinate materie che si rovesciano e ti prolungano.
Grande come non l’avresti mai sognato,
grande fino a rimanere unicamente al tuo posto, come testimone del tuo riposo,
il breve cumulo terroso delle tue cose più minerali e ostinate.
Ora, oh tranquillo diseredato delle più care specie!,
sei come una barca incagliata sulla chioma di un albero,
come la pelle di un serpente dimenticata dal suo proprietario in una lontana regione,
come un gioiello che la meretrice conserva sotto il suo trasandato materasso,
come finestra tappata dalla furia degli uccelli,
come musica che chiude una fiera di provincia,
come lo scomodo sale tra le dita dell’officiante,
come il cieco occhio di marmo che ammuffisce e si copre d’immondezza,
come la pietra che procede a tonfi senza sosta in fondo alle acque,
come cenci a una finestra della periferia urbana,
come il fondo di una triste gabbia di uccelli malati,
come il rumore dell’acqua nei bagni pubblici,
come il colpo inferto a un cavallo cieco,
come il fetido etere che aleggia sui tetti,
come il lontano gemito della volpe
con le carni lacerate da una trappola nascosta in riva allo stagno,
come tanti steli spezzati dagli amanti nei pomeriggi estivi,
come sentinella senza ordini né armi,
come medusa morta che scambia il suo arcobaleno con l’oscuro latte dei morti,
come animale da carovana abbandonato,
come orme di mendicanti che sprofondano nel guadare l’acquitrino che protegge il loro rifugio,
come tutto quanto, oh arenato fra i sapienti ceri!
Oh imperturbabile tra le lastre dell’abside!
* Moirologhia è una lamentazione o threnos che cantano le donne del Peloponneso attorno al feretro o alla tomba del congiunto (N d’A).
Que te acoja la muerte con todos tus sueños intactos. Al retorno de una furiosa adolescencia, al comienzo de las vacaciones que nunca te dieron, te distinguirá la muerte con su primer aviso. Te abrirá los ojos a sus grandes aguas, te iniciará en su constante brisa de otro mundo. La muerte se confundirá con tus sueños y en ellos reconocerá los signos que antaño fuera dejando, como un cazador que a su regreso reconoce sus marcas en la brecha.
Che la morte ti accolga
con tutti i tuoi sogni intatti.
Di ritorno da una furiosa adolescenza,
all'inizio delle vacanze che non ti hanno mai concesso,
la morte t’individuerà con un suo primo avviso.
Aprirà i tuoi occhi alle sue vaste acque,
t’inizierà nella sua brezza costante d'altro mondo.
La morte confonderà i tuoi sogni
e in essi riconoscerà i segni
da lei lasciati un tempo,
come un cacciatore che di ritorno
riconosce le sue tracce sull'aperto sentiero.
Respira la noche, bate sus claros espacios, sus criaturas en menudos ruidos, en el crujido leve de las maderas, se traicionan. Renueva la noche cierta semilla oculta en la mina feroz que nos sostiene. Con su leche letal nos alimenta una vida que se prolonga más allá de todo matinal despertar en las orillas del mundo. La noche que respira nuestro pausado aliento de vencidos nos preserva y protege «para más altos destinos».
La notte respira,
indica i suoi spazi nitidi;
le sue creature, da infimi rumori,
dallo scricchiolio lieve dei legni,
si tradiscono.
La notte riconferma
un certo seme occulto
nella mina feroce che ci regge.
Col suo latte letale
nutre in noi
una vita che si prolunga
oltre ogni risveglio mattutino
sulle rive del mondo.
La notte che respira
il nostro faticoso alito da vinti
ci riserva e ci protegge
«per i più alti destini».
Bien sea a la orilla del río que baja de la cordillera golpeando sus aguas contra troncos y metales dormidos, en el primer puente que lo cruza y que atraviesa el tren en un estruendo que se confunde con el de las aguas; allí, bajo la plancha de cemento, con sus telarañas y sus grietas donde moran grandes insectos y duermen los murciélagos; allí, junto a la fresca espuma que salta contra las piedras; allí bien pudiera ser. O tal vez en un cuarto de hotel, en una ciudad a donde acuden los tratantes de ganado, los comerciantes en mieles, los tostadores de café. A la hora de mayor bullicio en las calles, cuando se encienden las primeras luces y se abren los burdeles y de las cantinas sube la algarabía de los tocadiscos, el chocar de los vasos y el golpe de las bolas de billar; a esa hora convendría la cita y tampoco habría esta vez incómodos testigos, ni gentes de nuestro trato, ni nada distinto de lo que antes te dije: una pieza de hotel, con su aroma a jabón barato y su cama manchada por la cópula urbana de los ahítos hacendados. O quizá en el hangar abandonado en la selva, a donde arrimaban los hidroaviones para dejar el correo. Hay allí un cierto sosiego, un gótico recogimiento bajo la estructura de vigas metálicas invadidas por el óxido y teñidas por un polen color naranja. Afuera, el lento desorden de la selva, su espeso aliento recorrido de pronto por la gritería de los monos y las bandadas de aves grasientas y rijosas. Adentro, un aire suave poblado de líquenes listado por el tañido de las láminas. También allí la soledad necesaria, el indispensable desamparo, el acre albedrío. Otros lugares habría y muy diversas circunstancias; pero al cabo es en nosotros donde sucede el encuentro y de nada sirve prepararlo ni esperarlo. La muerte bienvenida nos exime de toda vana sorpresa.
Sia pure sulla riva del fiume che scende dalla cordigliera
e colpisce con l'acqua i tronchi e i metalli addormentati,
sul primo ponte che lo attraversa per il quale passa il treno
con un boato che si confonde con quello delle acque,
lì, sotto la lastra di cemento,
con tutte le sue ragnatele e le sue crepe
dove vivono i grandi insetti e i pipistrelli dormono;
lì, vicino alla schiuma fresca che salta contro le pietre;
lì sarebbe bene.
Oppure in una stanza d'albergo,
in una città dove arrivano i mercanti di bestiame,
i venditori di miele, i torrefattori di caffè.
All'ora del più grande chiasso sulle strade,
quando si accendono le prime luci
e si aprono i bordelli
e dalle cantine sale lo schiamazzo dei giradischi,
lo schioccare dei bicchieri e il colpo delle palle del biliardo;
a quell'ora andrebbe bene l'appuntamento
e nemmeno quella volta ci sarebbero testimoni scomodi,
né persone della nostra compagnia,
né nulla di diverso di ciò che prima ti ho riferito:
una stanza d'albergo, con il suo profumo di saponetta scadente
e il suo letto macchiato dal coito urbano
dei latifondisti sazi.
O forse dentro l'hangar abbandonato nella selva,
dove approdavano gli idrovolanti per portare la posta.
Lì c'è un certo sussiego, un gotico raccoglimento
sotto la struttura delle travi metalliche
divorate dalla ruggine
e ricoperte da un polline colore arancia.
Fuori, il lento disordine della selva,
il suo denso alito attraversato
a un tratto dal vocio delle scimmie
e dagli stormi di uccelli grassi e collerici.
All'interno, un'aria soave popolata da licheni
segnata dal suonare delle lastre.
Anche lì la solitudine necessaria,
l'indispensabile abbandono, l'acido arbitrio.
Altri luoghi ci sarebbero e circostanze molto diverse;
ma in fondo è in noi
che avviene l'incontro
e non serve a nulla prepararlo o aspettarlo.
La morte benvenuta ci esime da ogni vana sorpresa. * Si tratta del poeta colombiano Jorge Gaitán Durán (1924-1962), fondatore insieme a Hernando Valencia-Goelkel della rivista «Mito», morto tragicamente in un incidente aereo. (N del T)
Un llanto, un llanto de mujer interminable, sosegado, casi tranquilo. En la noche, un llanto de mujer me ha despertado. Primero un ruido de cerradura, después unos pies que vacilan y luego, de pronto, el llanto. Suspiros intermitentes como caídas de un agua interior, densa, imperiosa, inagotable, como esclusa que acumula y libera sus aguas o como hélice secreta que detiene y reanuda su trabajo trasegando el blanco tiempo de la noche. Toda la ciudad se ha ido llenando de este llanto, hasta los solares donde se amontonan las basuras, bajo las cúpulas de los hospitales, sobre las terrazas del verano, en las discretas celdas de la prostitución, en los papeles que se deslizan por solitarias avenidas, con el tibio vaho de ciertas cocinas militares, en las medallas que reposan en joyeros de teca, un llanto de mujer que ha llorado largamente en el cuarto vecino, por todos los que cavan su tumba en el sueño, por los que vigilan la mina del tiempo, por mí que lo escucho sin conocer otra cosa que su frágil rodar por la intemperie persiguiendo las calladas arenas del alba.
Un pianto,
un pianto di donna
interminabile,
soffocato,
quasi tranquillo.
Nella notte, un pianto di donna mi ha svegliato.
Prima il rumore di una serratura,
dopo dei piedi che tentennano
e in seguito, a un tratto, il pianto.
Sospiri intermittenti
come cadute di un'acqua interna,
densa,
imperiosa,
inesauribile,
come una chiusa che accumula e libera le acque
o come elica segreta
che interrompe e poi ricomincia il suo lavoro
travasando il bianco tempo della notte.
Tutta la città si è impregnata a poco a poco di questo pianto,
perfino i terreni abbandonati dove si getta la spazzatura,
sotto le cupole degli ospedali,
sopra le terrazze dell'estate,
nelle discrete celle della prostituzione,
nelle carte che girano sui viali spopolati,
con l'emanazione tiepida di certe cucine militari,
sulle medaglie che riposano dentro le teche speciali,
un pianto di donna che è durato lungo tempo
nella stanza vicina,
per tutti coloro che scavano la propria tomba nel sonno,
per coloro che sorvegliano la mina del tempo,
per me che lo ascolto
senza conoscere altro
che il suo debole rotolare all'aria aperta
per inseguire le silenti sabbie dell'alba.
Cada poema un pájaro que huye del sitio señalado por la plaga. Cada poema un traje de la muerte, por las calles y plazas inundadas en la cera letal de los vencidos. Cada poema un paso hacia la muerte, una falsa moneda de rescate, un tiro al blanco en medio de la noche horadando los puentes sobre el río, cuyas dormidas aguas viajan de la vieja ciudad hacia los campos donde el día prepara sus hogueras. Cada poema un tacto yerto del que yace en la losa de las clínicas, un ávido anzuelo que recorre el limo blando de las sepulturas. Cada poema un lento naufragio del deseo, un crujir de los mástiles y jarcias que sostienen el peso de la vida. Cada poema un estruendo de lienzos que derrumban sobre el rugir helado de las aguas el albo aparejo del velamen. Cada poema invadiendo y desgarrando la amarga telaraña del hastío. Cada poema nace de un ciego centinela que grita al hondo hueco de la noche el santo y seña de su desventura. Agua de sueño, fuente de ceniza, piedra porosa de los mataderos, madera en sombra de las siemprevivas, metal que dobla por los condenados, aceite funeral de doble filo, cotidiano sudario del poeta, cada poema esparce sobre el mundo el agrio cereal de la agonía.
Ogni poesia un uccello che fugge
dal luogo indicato dalla piaga.
Ogni poesia un vestito della morte,
attraverso strade e piazze invase
dalla cera letale dei vinti.
Ogni poesia un passo verso la morte,
una moneta falsa di riscatto,
un tiro al segno nel bel mezzo della notte
traforando i ponti sul fiume,
le cui acque addormentate viaggiano
dalla vecchia città verso i campi,
dove il giorno prepara i suoi falò.
Ogni poesia il tatto irrigidito
di chi giace sulla lastra di pietra delle cliniche,
avida esca animale che percorre
la melma morbida delle sepolture.
Ogni poesia un lento naufragio del desiderio,
uno scricchiolio di alberi maggiori e di sartie
che reggono il peso della vita.
Ogni poesia un boato di tele che precipitano
sopra il ruggito gelido delle acque
con il crollo del pallido paranco delle vele.
Ogni poesia tesa a invadere e a lacerare
l'amara ragnatela della noia.
Ogni poesia nasce da una sentinella cieca
che urla nel vuoto profondo della notte
la parola d'ordine della propria sofferenza.
Acqua di sogno, fonte di cenere,
pietra porosa dei mattatoi,
legno in ombra dei semprevivi,
metallo che suona per i condannati,
olio funereo a doppio taglio,
quotidiano lenzuolo funebre del poeta,
ogni poesia semina nel mondo
l'aspro cereale dell'agonia.
DIALOGO CON ÁLVARO MUTIS
Il dialogo che segue, come accennato nell’Introduzione, è stato fatto a più riprese, prima a Firenze nell’ottobre del 1994, e negli anni successivi fino ad oggi per lettera o per fax – mezzo di comunicazione molto apprezzato da Mutis –, talvolta per telefono, o in molti altri incontri in varie città del mondo, nella sua Bogotà, a Città del Messico, a Madrid, a Venezia, a Trieste, ancora a Firenze... Ho dato un relativo ordine a queste conversazioni, spesso tumultuose, guidate dall’intensità di certi suoi ricordi, dalla sua memoria vivissima, dalla sua capacità di convivere con fatti e personaggi a volte tramontati da tempo. Ho diviso quindi il tutto in sezioni sottotitolate in base all’argomento principale anche se non unico di quella specifica conversazione. Mi scuso quindi con il lettore se qualche volta i rimandi a colloqui precedenti non sono chiari. Ho indicato in nota le notizie fondamentali su luoghi o persone molto familiari in ambito colombiano o latinoamericano ma meno in ambito europeo.
MC – Parliamo di un tuo libro fondamentale che è Reseña de los Hospitales de Ultramar. Questo libro tu l’hai pubblicato separatamente in principio, prima di avere composto Le opere perdute? AM – Sì. Me l’hanno pubblicato. Ero già in Messico e Jorge Gaitán Durán lo passò alla tipografia dove si stampava la rivista «Mito» e lo tirarono fuori perché ci fosse un mio libro con cui aiutarmi a uscire dal carcere. Serviva a dare un’immagine diversa di me, che contrastasse la persecuzione giudiziaria e il processo in corso. Quando è stata scritta la Rassegna? L’ho scritta tra il 1954 e il 1955, in Colombia, a Bogotá, e alcuni dei testi che la compongono sono usciti sulla rivista «Mito». Il libro ha una storia molto curiosa, come genesi. Un giorno nel mio ufficio della ESSO, con matita in mano, scrissi le tre epigrafi (che ancora trovi nel libro). Non mi domandare perché le ho scritte. Non lo so. Ma quando le ho viste, lette, mi piacquero tantissimo, mi sembrarono belle, piene di possibilità, e mi dissi “adesso scriverò un libro sugli ospedali di oltremare”. E come trascinato dalle epigrafi, il giorno dopo cominciai a scrivere. Pensa che un professore della Fairfield University, il professor Nick Hill, mi raccontò che aveva fatto una vera ricerca, presso la sua Università e presso la Biblioteca di Washington, e da altre parti, senza trovare nulla, naturalmente, perché tutti quegli autori e quei titoli sono inventati. Tornando a Maqroll, in questo libro lui è sempre presente. Quella raccolta potrebbe andare in appendice a uno qualsiasi dei miei romanzi. Quindi mi vuoi dire che l’idea dell’ospedale non ti è venuta da una lettura ma è nata come un’immagine tutta tua, molto personale? Sì, molto mia, molto personale. E mi pare di avere rammentato gli ospedali prima, in altre poesie. Come anche le malattie, no? Sì, certamente. Nel primo componimento de La Balanza si parla di «una oscura casa de salud», una casa di cura. E poi, non so, gli ospedali sono per me luoghi carichi di una presenza e di una forza poetica enorme; è lì che andremo finalmente a morire... Forse la parola “ospedale” ha per te più di un significato. Sì, certo, è ovvio. L’ospedale è uno spazio carico di dolore, è una prova, una sorta di transito verso la salute o verso la fine, ma comunque un passaggio, che ti mostra la vicinanza della morte. E poi c’è tutta quella pomposità attorno agli ospedali che dà peso alla parola stessa. La parola “ospedale” trascina con sé di già una determinata immagine. A me l’idea di scrivere quelle epigrafi mi è venuta a partire da qualcosa che ho letto sulla vita di Vivaldi: che lui aveva un’orchestra di donne, di monache, in un ospedale di Venezia, non mi ricordo il nome... Era il conservatorio della Pietà, dove lui è stato anche maestro del coro. Esatto, il conservatorio della Pietà! Allora mi colpì molto il fatto che «il prete rosso», come veniva chiamato, che poi vestiva sempre in maniera molto elegante, componesse una musica così esuberante e allegra in un ospedale e che avesse un’orchestra o un coro di donne. Mi sembrò molto suggestivo, e allora dopo un po’ mi venne l’idea di scrivere quelle tre epigrafi. Apocrife. Inventate di sana pianta. Ma ti ripeto - anche se non potrei farti delle citazioni precise - che gli ospedali appaiono di sicuro in altri componimenti miei precedenti la Rassegna, e dopo continueranno ad apparire molte volte. Per esempio, nella prosa intitolata La visita del Gabbiere c’è un episodio, evocato dal Gabbiere, su un individuo ricoverato in un ospedale dell’Amazzonia che si spara alla testa. È un episodio terribile. L’uomo ripete costantemente «Domani esco da qui, che bello, finalmente» e poi si spara. Ecco. Proprio così. D’accordo, l’ospedale è un tema ricorrente per te. Ma non soltanto singoli componimenti, anche l’insieme della Rassegna è stato pubblicato dalla rivista «Mito»,vero? Alcune delle poesie di certo, Moirologhia per esempio, che io ritengo un pezzo molto importante nella mia opera. Sento che in quella poesia affronto la mia morte. Credo che si tratti di una poesia che determina molte conseguenze e molte possibilità. Lì sto dando molte chiavi, no? In seguito uscì l’edizione completa della raccolta, sempre per i tipi di Mito, ed è stata memorabilmente recensita da Octavio Paz. Esattamente. E la recensione l’inserì dopo nel suo libro Puertas al campo. Nelle edizioni di Mito uscì il libro con un titolo leggermente diverso: Memoria de los Hospitales de Ultramar. Che anno era? Era il 1959, poco dopo il mio arresto. Come ti dicevo prima, l’hanno fatto apposta per aiutarmi a uscire dal carcere, e il titolo risultò con un errore. In questa raccolta, in particolare in una delle poesie, Bando degli ospedali, appaiono due parole rare, o almeno poco frequenti, che ritengo molto significative nella tua opera: sono dombo, cioè “cupola”, e desesperanza, che preferisco tradurre “disperanza”. Cominciamo dalla prima: tu la usi molto, ti riferisci spesso al dombo de los cafetales. Credi che sia comune trasferire questo termine architettonico al mondo della natura? O lo ritieni un’immagine tutta tua? È mia, e in quell’immagine c’è Coello. Tu li hai visti gli alberi del caffè, che sembrano ombrelli, dentro ti potresti nascondere. E in effetti lì mi nascondevo io per fare all’amore con le raccoglitrici di caffè. Perché lì dentro nessuno può vederti. Oppure, nel caso ti vedano, non dicono nulla perché si tratta del figlio della padrona [Mutis ride come evocando una birbonata, e poi molto serio:] C’è qualcosa di rituale in tutto quello, sai...
Io credo di sì, che qui compaia per la prima volta. Dopo diventa ricorrente, fino a che si trasforma nel centro di una tua teoria, non è così? Precisamente. Nella conferenza che ho letto a Città del Messico, nella Casa del Lago, più o meno in quell’epoca, credo. Tutto questo avveniva in un periodo molto vicino al tempo del carcere, poco prima o poco dopo. Il concetto di disperanza lo senti più legato a te o a Maqroll? Questo concetto, che considero essenziale per affrontare la vita e che spiego minuziosamente nella conferenza, è fondamentale inoltre per capire la condotta, la psicologia e la vita del Gabbiere. Puoi riassumerlo brevemente? Penso che vivere dietro a una speranza sia una sorta di inganno che funziona come la famosa carota davanti all’asino. Penso che vivere così è uguale a dipendere da una droga. Bisogna sapere che non c’è nulla da sperare, e che è bene accettare quello che ha da venire. Dirai che questa è una visione fatalista, certo, e molto musulmana se vuoi, molto islamica. Ciò che ti capita ti è capitato e non bisogna vivere di illusioni, né costruire castelli di sabbia, né pensare che abbiamo una destinazione. Noi non andiamo da nessuna parte, andiamo a morire, a scomparire, all’oblio. Sono convinto che sia meglio sapere questo fin dall’inizio, perché quando hai accettato questo, ogni piacere, ogni soddisfazione, per quanto piccola, ha un vero peso e un senso. La speranza come traditrice. C’è un bellissimo sonetto di Suor Juana Inés de la Cruz, che dice «Diuturna infermità della Speranza, / che intrattieni così i miei stanchi anni […] chi ti ha sottratto il nome di omicida?». Perfetto. Vorrei sapere un’altra cosa sulla disperanza. C’è uno scrittore venezuelano di fine Ottocento, José Antonio Ramos Sucre, che usa la parola «desesperanza» (disperanza) e che inoltre preferisce la prosa poetica ai versi, per cui mi fa pensare a te. Lo conosci? L’ho conosciuto dopo. Non ho preso esempio da lui, se è questo che vuoi sapere. Ma non trovi che ci siano delle affinità fra te e lui? Certo che ci sono. Come dopo anche ho trovato delle affinità con Cioran. Ma Ramos Sucre l’ho scoperto addirittura dopo Cioran. È uno scrittore notevole, veramente notevole. Molto vicino a tante cose mie... o meglio dovrei dire, molte cose mie sono vicine a lui. Credo che tu non l’abbia potuto conoscere perché purtroppo lui è stato completamente dimenticato per molto tempo. Ma ci sono dei punti in comune fra te e lui, per esempio, come ti dicevo prima, il fatto che lui adoperi spesso la parola «desesperanza», cioè disperanza. Questo non l’avevo notato, o non ci ho fatto caso. Ma ti ricordi quando l’hai letto per la prima volta? Sì, l’ho conosciuto perché qualcuno mi regalò un suo libro, un’edizione venezuelana. Ed era, più o meno, negli anni ’60... aspetta! io lavoravo già alla Fox, quindi dev’essere stato dopo il ’65. Ed è precisamente negli anni ’60 che si riprende a pubblicare l’opera di Ramos Sucre. Nel 1960 esce un volume che raccoglie poesie, lettere e traduzioni di Ramos Sucre; il titolo era Los aires del presagio. Ma tornando a te, ho l’impressione che nel componimento L’ospedale della baia inizi già qualcosa che non si può più considerare “poesia”, perché l’impianto è ormai narrativo. Anche se magari mi dirai che non c’è bisogno di definire il genere in maniera esclusiva; mi dirai che ti muovi in una zona di frontiera tra più generi. Quello che hai notato è vero: quella non è più “poesia” in senso stretto, e non è neanche prosa poetica. Credo che lì ci sia una ricreazione del Gaspard de la Nuit, da una parte, dall’altra di certe prose dello Spleen de Paris di Baudelaire, o di Une saison en enfer di Rimbaud, oltre che delle Prosas de Gaspar di León de Greiff, naturalmente. Ma io ti devo dire che più li leggo quei testi (diciamo pure questa brutta parola) e più li considero vere narrazioni, non solo L’ospedale della baia, anche gli altri. C’è sempre un’azione, un fatto raccontato. Sì, anch’io la vedo così. Il soggetto è Maqroll come personaggio emblematico, ma è un soggetto narrativo. Le singolarità di quell’ambiente rimandano a luoghi insoliti dell’umanità, più che a luoghi poetici. Per esempio, sempre nell’Ospedale della baia, le malattie hanno nomi da ragazza, perché? Come ti è venuta questa idea? A me personalmente mi sembra che si tratti di piaghe che vanno consumando l’individuo ma che nello stesso tempo insegnano qualcosa alla vittima. Ecco perché sembrano donne. Ti consumano ma ti fanno crescere. Ti torna? Beh, non è stato cosciente. Mi è venuto in mente a un tratto, e tu sai bene che quando queste cose succedono all’improvviso hanno una ragione profonda. Mi sembrava un gesto di tenerezza, da parte dell’infermiere, il fatto di non chiamare la malattia «tifo», o «sifilide» o altro, ma darle un nome di donna, come se la malattia fosse stata una ragazza, perché non lo divorasse, ma che fosse piuttosto una compagnia per lui, capito? Sicuramente è stata questa la mia prima intenzione. Se la malattia deve divorare il malato, lo faccia almeno con un certo garbo, questo intendevi? Sì.
Nella poesia successiva, Nel fiume, sembra che si definisca l’identità di sognatore di Maqroll, me lo confermi? E anche questo: Maqroll non scrive versi, ma rappresenta un’entità poetica. Lui è in qualche modo un poeta o, detto in altri termini, lui incarna la figura del poeta. Lui ha una voce poetica; ne La neve dell’ammiraglio compaiono delle litanie sue. Quello che scrive sulle pareti della sua osteria, la Neve dell’Ammiraglio, è pura poesia, non ti pare? Certo, e dopo c’è quella preghiera contro la corrente. E anche la poesia che si trova in Amirbar. Certo, certo. Ma pure prima che si manifesti con evidenza, in lui si sente che vive un poeta, anche se non dice versi. È vero. Un’altra domanda: il rimorchiatore che trascina le zattere che risalgono il fiume - vedi appunto il componimento Nel fiume si muove «con una lenta e ostinata difficoltà d’asmatico», dice il narratore. L’immagine è quanto meno inconsueta. Come ti è venuta? Dà l’idea di quel respiro affannoso delle navi in disgrazia, no? Sicuramente suggerisce qualcosa di penoso e di sfortunato. E proprio Nel fiume si dice che Maqroll dovette fuggire da quel tempio perché si era incaponito a voler sposare la donna nera che esibiva i suoi seni davanti al tempio. Quindi c’è la fuga, il fallimento, la persecuzione che segnano la vita sventurata di Maqroll. Ma soprattutto c’è un’altra cosa, mi pare, e vorrei sapere se sei d’accordo: un desiderio violento di appropriazione del sacro. È vero, l’hai visto molto bene. Non c’è dubbio. E questo desiderio convive con una forma di violenza, o no? Sì, molto bene, molto bene. Mi sembra che sotto la parvenza del grottesco, si nasconda qui qualcosa di molto serio. E di fatti lui viene punito per questo, per l’appropriazione del sacro, viene perseguitato e punito. Quindi Maqroll si definisce come un eterno esiliato. Hai già parlato dell’esilio, ma vorrei sottolineare che questo esilio di Maqroll è una condizione metafisica. Sì, è l’esilio di cui abbiamo già parlato. In parte l’hai già spiegato, ma vorrei sapere ancora cosa c’è in te del “perfetto esiliato”. Non è stato facile per me capirlo. C’è stato un momento, forse quando sono tornato in Colombia, dopo aver vissuto in Messico circa dodici anni, in cui mi sono accorto che anche nel mio paese ero un esiliato, perché era radicalmente cambiato, e molti amici erano scomparsi. Allora mi sono convinto che, in realtà, sei un esiliato costante, da sempre. Hai perso il paradiso, l’hai perso con l’infanzia. Il Gabbiere che risale verso le terre alte e si perde nelle gallerie abbandonate delle miniere, come si racconta in Nel fiume, anticipa in qualche modo... Il romanzo Amirbar. Ecco, annuncia questo romanzo, è chiaro. E prima di Amirbar, troviamo la stessa situazione nel Canyon di Aracuriare. Sì, forse la presenza della miniera ricorre perché è un mio ricordo, di una miniera reale che si trovava a Coello. Una miniera che tu hai visitato, una miniera abbandonata? Sì; mio nonno la fece aprire, ma alla fine dovette rinunciare e l’abbandonò. Vorrei sapere se quando tu scrivevi questi testi eri consapevole della ricorrenza di questi paesaggi, del fatto che Maqroll ne ha bisogno e li cerca: lande, canyon, miniere abbandonate. Oppure è casuale che siano comparsi nella tua opera? No, non è casuale. Quei paesaggi appartengono al mondo di Maqroll e alla sua vita. Sono un suo segno. Ne La cascata, per esempio, abbiamo di nuovo il Gabbiere che si isola tra alte pareti di roccia, nel canyon, e si concentra nella meditazione. Quella è un’esperienza che ho vissuto io stesso. Quello volevo sapere. Quella cascata la conosco io e l’ho vissuta io. È successo una volta che sono andato a Coello. Eravamo ormai stabiliti in Colombia, e sono andato a fare le vacanze a Coello. Devo premettere che ho il terrore, una vera fobia, delle farfalle nere, quelle grandi, mi terrorizzano... E una volta, mentre facevo il bagno in quella cascata che descrivo lì e che esiste tale quale, a un tratto ho visto che entrava qualcosa: era una farfalla nera, grande, che si fermava su una roccia e chiudeva le ali e rimaneva ferma. Allora io sono uscito, tutto sudato, mi ricordo, per il panico, con i vestiti in mano, e mi sono rivestito quando ero ormai lontano, per strada. Quella è una cascata che cade in mezzo a pareti di roccia, l’acqua cade lì e poi continua e attraversa un percorso dove stanno le nostre piantagioni di caffè, vicino al fiume. Molti anni dopo, con Álvaro Castaño Castillo, in uno dei miei viaggi in Colombia, ho voluto andare a Coello, e parlando di quell’episodio, lui mi domandò: “Ma tu saresti capace di ritrovare la cascata?”, e io gli dissi “Ma certo, senza problemi”. Allora siamo andati insieme, a piedi, percorrendo quei paraggi che conosco benissimo, e lui era stupito del fatto che io gli potessi insegnare tanti particolari, come se fossi vissuto sempre lì... Perché dentro di me c’è una memoria perfetta, una presenza molto forte di ogni angolo dell’hacienda. Alla fine siamo entrati nella cascata e allora, senza dire una parola, ci siamo spogliati e abbiamo fatto il bagno. Dimmi anche se hai mai avuto un’esperienza di meditazione simile a quella che fa il Gabbiere. No, non in quel momento almeno. Volevo dire che il meccanismo della fobia nell’infanzia, secondo la psicanalisi, è una forma di scaricare un affetto molto grande che provi per qualcuno, che non ti ricambia o tu non ti senti ricambiato. Allora trasferisci quell’impressione su un animale. Mi pare che la mia spiegazione sia un po’ goffa, ma non saprei fare di meglio. Che affetto o che persona riesci a individuare dietro la tua fobia? Non lo so. Può darsi che da bambino, in un certo momento, abbia avuto bisogno di mia madre, oppure che mi sia sentito trascurato o dimenticato da mia madre, non riesco a ricordare, ma ad ogni modo quella è un’esperienza che ti scuote profondamente. Allora è chiaro, tu l’associ con la morte, voglio dire, con la perdita della vita. In quel caso non ho avuto l’esperienza della meditazione, ma altre volte sì, in altre circostanze. Il Gabbiere che si ferma e si siede su quelle rocce, e rimane lì immobile, evoca la figura del Buddha, non trovi? Sì, sì. Mi sembra un Buddha in processo di pietrificarsi. Certo, è come un Buddha, esattamente. Quindi vorrei che tu mi dicessi se quando hai scritto quelle pagine e hai dato quell’immagine del Gabbiere, era per te chiaro che lì c’era in ballo un’esperienza di meditazione. Senz’altro, non c’è dubbio. Dopo ho scritto un racconto che s’intitola Sharaya, che è appunto un santone. Certo. E le tue esperienze di meditazione, quando e come sono avvenute? Beh, non ricordo con precisione, ma sì nel carcere, in più di un’occasione. E a volte negli alberghi, in città che non conosci, dove c’è solitudine... Gli alberghi hanno qualcosa di impersonale, ovviamente non sei nella tua stanza, non ci sono le tue cose, non sei protetto dai piccoli totem che ti rassicurano, perché ti confermano che sei in un ambito creato da te. Allora, un posto così si presta a pensare precisamente chi sono, cosa faccio, cos’è tutto questo, perché sono vivo, e così entri in uno stato di meditazione. Dal quale io cerco di uscire prima possibile, perché dopo non mi rimane altro che una paura spaventosa. Ti rimane la paura? Sì, sì, eccome! E non mi fa per niente bene. La meditazione non ti conforta in nessun modo? Non mi conforta affatto. Vivo un momento di serenità, è vero; ma poi avviene un’accelerazione, una sensazione molto particolare, e arrivo alla paura, proprio a quella paura che descrivo nella poesia. Esattamente così! Secondo i mistici, quel tipo di esperienza conduce a un momento de piacere mistico, di estasi. Certo. Quando hai con Dio un rapporto positivo e sicuro; ma quando vivi nel dubbio, e sai che quel qualcosa esiste ma non sai come è, allora non è tanto facile. La paura, secondo te, deriva dalla situazione di dubbio? Certo. Ti domandi, cosa mai sarà questo, dove siamo... Un altro momento di isolamento del Gabbiere è ne La vettura di seconda, che è una carrozza di un treno abbandonato su un binario mai finito. Questa immagine del treno... Quello l’ho visto io nell’hacienda. Un’epoca si pensò di unire con le ferrovie Ibagué e Armenia. Cioè, col treno si andava da Buenaventura fino ad Armenia, e dopo da Ibagué fino a Bogotà, ma mancava la tratta Ibagué-Armenia. Allora gli ultimi governi conservatori pensarono che valeva la pena fare questo collegamento e unire in un solo percorso la costa del Pacifico con la capitale. Ma attraversare la Cordigliera Centrale è un’impresa dura. Io credo che alla fine i finanziamenti non bastarono e per quello l’opera rimase a metà. I lavori non furono mai finiti, e rimasero carrozze abbandonate qua e là, che erano quelle che fungevano da uffici per gli ingegneri. Quindi nell’hacienda si vedevano percorsi coperti da binari, e ogni tanto delle carrozze, tutto rovinato, distrutto. Quindi tu le hai viste queste vetture abbandonate? Non le hai inventate? No, no. Si trovavano vicino al fiume. Quell’immagine del Gabbiere rifugiato dentro un treno abbandonato, non ti sembra l’immagine di una sconfitta totale? Il marinaio chiuso in un treno sembra un paradosso totale. Quello è il Gabbiere cento per cento, sicuro. Sono i momenti in cui lui tocca fondo. È la fine della corda. Poi ci sono le scene con quella donna che gli porta da mangiare e fanno sesso in maniera quasi meccanica, completamente privo di erotismo. Mi ha sempre colpito quella scena in cui lui è molto malato e la donna gli porta gli avanzi degli operai che lavorano lì vicino, e allora, qualche volta, ha dei rapporti con lui; ma dalla descrizione che fa il narratore sembra che non ci sia nessun sentimento, né erotismo né emozione, quasi una pura animalità. È così? Assolutamente, è così. Voglio precisare la mia domanda: hai conosciuto donne così? Le contadine colombiane, possono essere così? Alcune di loro. Certe contadine, nei loro rapporti erotici, hanno quel tipo di impersonalità, come se non elaborassero la relazione. È puramente animale, sì. Ed è abbastanza frequente. Ti sembra tipico di un ceto sociale? Non importa che sia colombiana, potrebbe essere armena o di qualsiasi parte del mondo? Sicuro. La gente primitiva è così, i contadini sono così. Naturalmente ci sono delle eccezioni. In genere, quando manca l’immaginazione erotica c’è piacere, sì, ma è totalmente privo di aura.
Passiamo al componimento successivo, che è Frammento. È molto bello. E presenta una caratteristica speciale: ha l’inizio tagliato e finisce anche con una frase tronca. È dove si parla delle carrozze che portavano i malati all’Ospedale delle Saline. Sì. L’acqua è molto presente: si dice che i bianchi lenzuoli avvolgevano i corpi che galleggiavano sulle acque. Possiamo dire che l’acqua ha in questo contesto, o addirittura in generale per te, un valore di purificazione? Penso di sì. In generale. E anche un senso di allegria, di salute, di vita, di movimento, e di tutto questo insieme. Tutto molto positivo... Sì. Per me l’acqua è la cosa più positiva del mondo. Ti ho già raccontato che quando faccio sogni con l’acqua so che tutto va bene, e sento che mi fa molto bene. Ma non sempre. Ci sono dei momenti in cui non è così. I simboli a volte hanno il loro rovescio, no? Andiamo avanti. Nella poesia successiva, L’ospedale dei Superbi, compare un’altra immagine totalmente metafisica, quella dei Superbi. In quell’ospedale sono ricoverati appunto i “superbi”. Che vuol dire? Il ricovero si deve intendere come una punizione morale? A me è sembrato quasi una sorta di girone dantesco. Certo, è così, almeno in una certa misura. Quelli sono uomini provvisti di grande autorità, che gestiscono il porto, la città... Sì, c’è qualcosa di cerchio dell’Inferno. Invece in Dimora, quello che descrivi è un sogno, un sogno di Maqroll. Lui sogna che attraversa sei terrazze e nell’ultima muore. Ti ricordi bene la successione delle varie fasi rappresentate dalle terrazze? Sì. Quella è la prima morte di Maqroll. Quando si sveglia sta ormai agonizzando e buttando sangue dalla bocca. Il narratore dice che versava dalla bocca «il sangue scuro e lento dei morti», ma siccome dopo non muore, allora il lettore pensa che il finale sia ambiguo: si tratta di un sogno, di una visione... No, quella è una prima morte di Maqroll. È così, e l’ho sempre segnalato. Ho sempre detto che la sua prima morte non è quella di Un bel morir. Allora la sua prima morte non è quella che si racconta in En los esteros (Nelle paludi), di Caravansary, ma questa. In Dimora ci sono sei terrazze che lui percorre, e in ognuna delle terrazze sembra compiere una fase di un rito misterioso. Forse un rito di purificazione che lo prepara appunto per la morte, perché in ogni fase dimentica qualcosa, si libera di una parte del peso della memoria. È vero, è così. Prima dimentica il viaggio, poi le ragioni che l’avevano condotto lì, e alla fine l’unica cosa che resta è il ricordo dell’infanzia. E lì muore. Sì, è un comportamento rituale. Non l’ho scritto con quella intenzione, ma risulta così. Forse quando l’hai scritto pensavi che nel sogno si può intuire la morte. Beh, certo. Anzi, senza dubbio è così. Hai avuto esperienze in questo senso? Sì, terribili. I miei sogni sono in genere spaventosi. Sono sogni profetici. Me lo spiegava, come forse ti ho già detto, uno psicanalista. Ora non so se questo l’ho detto a te o a un’altra persona. Me l’hai accennato. Uno psicoanalista brasiliano mi spiegò che nel processo della creazione si mettono in moto molte zone profonde dell’essere, e si cominciano a muovere le acque dell’inconscio, che entrano come in uno stato di ebollizione. Allora quei sogni angosciosi e carichi di incidenti terribili, di pericoli, di assilli spaventosi, sono tutto quel materiale che tu stesso hai messo in moto, ed è a quel materiale che ricorri, capito? Almeno, io credo che tutti gli scrittori cerchino proprio quello. È il materiale che ti nutre, no? È la materia prima. Nello stesso tempo, per tirare fuori questo, metti in moto e scombini quello che in qualche modo aveva raggiunto un equilibrio. Allora, sì, direi che la morte è molto presente nei miei sogni. E anche le persone care che ho perso mi si presentano nei sogni con grande frequenza. Mio fratello quasi ogni giorno, a volte con molto dolore, altre volte con grande felicità. Anche tuo padre ti visita? Anche mio padre. Mi si presenta in un sogno abbastanza ricorrente, ma che ora non faccio da un po’ di tempo. Lui arriva, e io sono felice e gli dico: “Che bello. Che meraviglia che sei qui, caspita, ora tu non dovrai lavorare né farai niente, soltanto resterai qui e io penserò a te, a mantenerti, e tutto andrà bene, che bello che sei tornato!”. I dolori spirituali diventano “malattie” nel tuo immaginario, vero? E le “piaghe” di Maqroll - c’è un componimento intitolato proprio così - sono sicuramente i mali dell’anima. Sì, certo. C’è una di quelle piaghe che mi sembra particolarmente significativa: la scomparsa dei piedi. Davvero? Sai che non me lo ricordo? Allora te lo rileggo. Nell’elencare le sue “piaghe” - e chiarisce il narratore che Maqroll dava questo nome a «le malattie e le sofferenze che lo portavano negli Ospedali di Oltremare» - una la definisce così: «La scomparsa dei piedi come ultima conseguenza della sua mutazione vegetale in disubbidiente tranquilla materia». Vedi? Lui non ha piedi. Accidenti! È molto impressionante. Come lo spiegheresti? È molto curioso... Per un tipo errante come lui, che vive in un perenne spostamento, immagina l’angoscia spaventosa nel vedere che i suoi piedi diventano materia vegetale. È una maledizione! E se fosse il contrario? Non una maledizione, bensì una liberazione, perché con la scomparsa dei piedi non è più legato alla terra. No, perché se diventa una cosa vegetale, rimane legato. Dice: «La scomparsa dei piedi come ultima conseguenza della sua mutazione vegetale in disubbidiente tranquilla materia». È rimasto fissato. Basta, non si può muovere più, fisso. È come una radice, come un tronco. Pensa che tortura tremenda! È impossibile non associare questa immagine a quella di Maqroll morto alla fine del componimento “Nelle paludi”, te lo ricordi? Lui viene trovato morto, insieme alla donna, in una chiatta incagliata fra le mangrovie e dice che il suo corpo sembrava «un mucchio di radici castigate dal sole». Accipicchia! Sono stato conseguente! Proprio! Quell’immagine di un libro dell’81, cioè Caravanserraglio, è praticamente la stessa cosa che dice in un libro del ’59, cioè Rassegna..., vale a dire che Maqroll rimane trasformato in un mucchio di radici. Allora mi domando se questa non sarà una vocazione segreta di Maqroll. Ma no! È tutto il contrario. Rimanere fissato è terribile. E se il vagabondaggio fosse un comportamento paradossale che nasconde una segreta nostalgia del legame, del radicamento? Non l’ho mai pensato così. D’accordo. Passiamo allora all’ultimo componimento della raccolta, ossia Moirologhia. La considero una poesia chiave. E da lì si può dedurre forse che la poesia è profetica, in ogni testo poetico si nasconde una profezia... Ricorda che io ho sempre detto, e l’ho ribadito ogni volta che ho potuto, che la poesia dev’essere visionaria o non è. La condizione visionaria della poesia talvolta è evidente ed esplicita, altre volte è nascosta, implicita, ma comunque non può mancare. Deve esserci comunque? Per me sì, per altri non lo so. In quello che io scrivo c’è sicuramente un’intenzione invocativa. E di annunciazione. Dunque, Moirologhia è una poesia che scrissi nell’anno ’54 o ’55 e fu pubblicata da «Mito». Conservo una copia di quel numero. Ed è per me una poesia molto importante. L’hai pubblicata subito dopo averla scritta? Sì, l’ho data subito a Jorge Gaitán Durán. È stata l’unica volta che ho collaborato con «Mito». Dopo mi hanno inserito nel gruppo di Mito, ma per pura pigrizia e faciloneria. Mi sembra che tu non abbia fatto parte di nessun gruppo, consapevolmente almeno. No, per niente. Io non ho mai fatto vita letteraria. Non ho mai frequentato i caffè letterari, né ho fatto parte della redazione di nessuna rivista. Niente. Io mi guadagnavo da vivere con altre attività, e scrivevo indipendentemente dal mio lavoro. Ho sempre tenuto ben distinte le due cose. Adesso facciamo un gioco di associazione libera: io ti dico una cosa e tu mi devi dire la prima cosa che ti suggerisce, che ti salta in mente, senza riflettere. D’accordo? Allora, pelle di serpente abbandonata in un angolo del paesaggio. Ahi ahi ahi, Gesù! Quell’immagine mi colpisce, ma va bene: credo che tutti noi ci si lascia dietro delle pelli. Quello è il passato. È inoltre quel passato che hai cancellato, che rimane indietro in maniera irrimediabile. E ha qualcosa dell’avanzo, del residuo. Sono gli anni, il tempo perso, le sciocchezze, le cose che non ci appartenevano. E rimangono lì, come gli avanzi inutili di un pasto non finito, come la pelle del serpente. La lasci lì, ma nel lasciarla, nello stesso tempo, ti rinnovi, te ne liberi e ti rifai. Certo, ti liberi, ti pulisci. È un atto che ha della... Della rigenerazione? Sì, esatto. Un’altra associazione: «una barca incagliata sulla chioma di un albero». Quell’immagine Gabriel García Márquez la introduce dopo in Cent’anni di solitudine! Beh, non lo so, è un’immagine libera. Anni dopo credo che compaia un’immagine così in Remedios Varo. C’è un quadro di Remedios Varo dove si vede una barca così? Mi pare, anche se ora non ne sono sicurissimo... In ogni caso, tu l’avresti visto dopo? Molto dopo. E l’immagine di Gabo18 del galeone incagliato in mezzo alla foresta, sicuramente nasce da qui, perché questa poesia precede di molti anni Cent’anni di solitudine, che uscì nel ’67. Forse sì. Ti vedo pensoso. Ti preoccupa l’immagine della barca nell’albero? Non so se l’ho vista in un quadro di Remedios. Può essere stato anche un dipinto di Bosch... Non me lo ricordo bene. Sarà un falso ricordo? Può essere un falso ricordo. Potrebbe essere anche un tuo sogno. Oh, sì. Tipico poi.
Entriamo ora nel vivo di Los trabajos perdidos, che io ho tradotto Le opere perdute, perché mi sembrava che ci fosse un’eco, un riferimento a Esiodo, Le opere e i giorni. In entrambi i casi trabajos/opere rimandano al prodotto della creazione cosmica o poetica. Credi che sia così? È così. Questo libro tu l’hai scritto interamente in Messico, dove ormai avevi stabilito la tua residenza definitiva. Eppure emerge sempre la Colombia, la terra, gli amici, gli scritti che hai letto e amato molto presto. Mi piacerebbe sentire qualcosa, ad esempio, a proposito di Matías Aldecoa. Nella mia poesia ci sono due omaggi a León de Greiff: questo, ossia La muerte de Matías Aldecoa, e un altro, più avanti... Sì, in effetti, El regreso de Leo Le Gris, un altro eteronimo di León de Greiff, nella raccolta Los emisarios, del 1984. Ma parlami del primo. Matías Aldecoa è un personaggio di León de Greiff. La sua poesia mi segnò moltissimo, mi inquietava moltissimo. Dopo mi sono annoiato della sua verbosità, del gioco verbale gratuito in cui credo sia caduto León. Ma lui ha momenti di grande poesia, in particolare nelle prose di Gaspar. León è un altro lettore del Gaspar de la Nuit. Allora io ho voluto rendergli un omaggio. E ho voluto dirgli: «quei personaggi tuoi, quei Maqroll inventati da te, io li amo, sono i miei complici, sono la mia gente». Ma a lui quella poesia non piacque affatto. Mi disse che come mi permettevo innanzi tutto di ucciderlo, e cioè uccidere una sua creatura, e poi buttarlo in un fiume che è per l’appunto l’unico che va a finire in una fogna, alla periferia di Ibagué. Ed è vero! [qui ride di buon gusto]. E va beh... non abbiamo mai chiarito del tutto la faccenda ma mi ripeteva che io non avevo il diritto di interferire con il suo personaggio, soltanto lui poteva ammazzarlo o farne quello che voleva. O buttarlo nelle acque del Combeima. Ecco lì, è quello il famoso fiume, che sfocia nelle acque di un crepaccio che si chiama La Pioja, dove arrivano pure le fognature di Ibagué. Quello lo fece arrabbiare tantissimo [e ride ancora]. «…cadavere rigonfio e verdastro / nelle frettolose acque del Combeima, / a girare nei vortici di schiuma, / senza più occhi né labbra, / mentre trasuda i suoi mieli più segreti, / nudo, mutilato, battuto seccamente / contro le rocce, / per scoprire, a un tratto, / in un punto ancora vivo / del suo tramortito cervello, / la vera, l'essenziale materia / dei suoi giorni nel mondo». L’hai trattato davvero male il povero Matías Aldecoa, ma la tua intenzione non era quella, vero? Piuttosto far vedere come la rivelazione può avvenire proprio nel centro della miseria. Certo, certo! E così si vede precisamente in un altro componimento, che ritengo fondamentale della stessa raccolta: Grieta matinal, che ho tradotto Squarcio del mattino. Mi sembra molto importante proprio nell’evoluzione della tua teoria poetica e nella definizione della poesia come necessariamente legata alla miseria. Quella poesia è stata scritta in Messico. Vi leggo un desiderio di interpretare la propria miseria come una fonte di conoscenza. Sì, di non evitarla, di non rimuoverla. Quella è un'altra chiave, senza dubbio. E mi domando se non la vedi pure come una chiave della propria individualità. Come se tu volessi dire che la tua forma più personale, più tua, risiede precisamente nella forma della tua miseria. Certo. La domanda è questa: vedi la miseria come un fattore di diversità? In ognuno di noi la propria miseria è un fattore di diversità? Sì, sicuro. E definisce l’essere. Per la stessa ragione si può trasformare in un tesoro se la sai valutare. È così? La chiave è quella. Invece nella poesia Un bel morir - con quel titolo che dopo adotterai ancora per il terzo romanzo maqrolliano - mi sembra che la citazione da Petrarca si trovi in contrasto con quello che la poesia stessa dice. Vorrei che tu mi chiarissi questo. Spiegati meglio. La citazione del Petrarca dice «Un bel morir tutta una vita onora», come se la culminazione perfetta di una vita fosse un certo tipo di morte. In Abdul Bashur sognatore di navi c’è un dialogo con Maqroll dove si parla proprio di questo, e si spiega che ognuno di noi porta in sé l’immagine della propria morte. È una teoria di Rilke, se ricordo bene. C’è una poesia di Rilke che recita «Signore, concedi a ognuno la propria morte». Esatto. Allora non bisogna trascurare questo... Loro spiegano come in due occasioni avrebbero potuto avere una morte che non apparteneva a loro: una quando Bashur s’è trovato sul punto di ricevere una morte che non era destinata a lui, per mano del Rompispecchi, e l’altra capitata a Maqroll, quando si trova con una prostituta alle Filippine. Capisco. Tuttavia in Un bel morir sembra come fosse la vita stessa a trascendere, ossia, come se il ciclo della vita, che continua dopo la morte, cancellasse completamente l’individualità e la morte di ognuno. Dice così: «Ogni cosa svanirà nell'oblio, / e il grido di una scimmia, / il bianco sgorgare della linfa / attraverso la corteccia spaccata del caucciù, / lo sciabordio delle acque contro la chiglia in viaggio / saranno più memorabili dei nostri lunghi amplessi». Ma certo, certo. È così. Ti sciogli, scompari, ti dissemini, non esisti più... Entri nell’oblio totale. È avvenuta la tua morte, sì, d’accordo, ma alla fine non importa nulla. C’è un’armonia in questo: va bene per te, ancora consapevole, poter vedere la tua morte e dire va bene, è così. Ma dopo? Dopo neanche importa nulla. Dalla poesia si deduce questo: che alla fine ogni cosa si fonde in una sorta di insieme indistinto universale... Quell’onorare tutta una vita dura un solo istante. È un istante di armonia e... pam, finisce tutto! Ma l’opera letteraria, il «sogno» dello scrittore, come lo chiami tu nella poesia dedicata a Marcel Proust, vince la morte, vince il tempo in qualche modo, diviene - dici - «fertile permanenza». Dimmi qualcosa su questo splendido componimento: Poesia di compianto per la morte di Marcel Proust. Sì, c’è qualcosa del cacciatore babilonese nel suo volto, che emerge e si conferma nella serenità che arriva dopo aver lottato inutilmente nell’agonia. La lotta con la morte, che non può che perdere - sembra che tu voglia dire - gli ha concesso tuttavia una tregua «di anni, mesi, / settimane di asfissia», in cui però lui vince, costruendo la sua opera, «un labirinto duraturo». Che senso ha per te la parola “labirinto” e perché la applichi a Proust? Credo che l’opera di Proust, una delle grandi creazioni letterarie di tutti i tempi, sia quel labirinto della memoria, pieno di trappole, pieno di falsi ricordi... una trappola che personalmente mi turba molto, e lo dico anche nei miei romanzi, il modo come uno esalta certi momenti, li rimpiangi, e poi, se ti fermi un attimo a ripensarli, risulta che non sono stati così importanti... Quindi perché li esalti così? Come fissare delle boe nel percorso... e lui che cerca, cerca, entra nel labirinto di se stesso, dei suoi ricordi, della sua infanzia, dei suoi rapporti con Odette, e dopo, no, non è lui, è Swan, insomma, il labirinto dei personaggi pure. E sempre alla ricerca della stessa cosa. In Le temps retrouvé, nelle ultime pagine, si trova la chiave di tutta l’opera di Proust ed è la chiave della vita dell’uomo... Quel rincontrare i suoi personaggi, che non hanno più l’aureola né il prestigio che avevano quando lui era giovane, ora sono persone piuttosto spregevoli, che si sono riuniti gli uni con gli altri, di modo che niente corrisponde al modo come erano organizzati nella società, ecco, tutto questo è labirintico. Non è indecifrabile, è labirintico. Sono strade nascoste sempre più faticose e più difficili, che vanno a finire nella morte. Bisogna ricordare che quella mia poesia si riferisce alla vita di Proust. Perché lui scrive la sua opera nei suoi ultimi anni... Ormai a letto. A letto, in condizioni che gli amici neanche capivano. Dicevano "Ma che! Lui si chiude a scrivere ma non è malato, è tutto nervoso, psicosomatico”. E il disgraziato stava morendo! E fra l’altro è morto praticamente di fame, perché prendeva un caffè con una brioche e a volte questo era tutto nell’intera giornata. C’è un libro fondamentale su di lui, il libro di Céleste Albaret, la domestica che lo accudì fino alla fine, e leggendolo capisci la vita di quest’uomo esausto, sempre a scrivere, senza dormire, cosciente di dover vincere questa sfida con la morte. E non la vinse. Perché gli ultimi tomi non arrivò a correggerli. E l’ultima cosa che detta - lui muore alle tre del pomeriggio - è alle undici del mattino, quando chiama Céleste e le dice “prenda nota di questo” e corregge due particolari magnifici di due personaggi, fa due correzioni essenziali. Che ossessione quella di rimanere sempre dentro il labirinto! Che è fatto dei suoi personaggi, della sua vita, il libro è costruito con la materia della sua propria vita, non voler uscire da lì... È un destino impressionante! È un destino segnato da una scelta assoluta: salvare la “materia” - parola molto tua, Álvaro - attraverso la letteratura. Attraverso la letteratura. Attraverso la scrittura. Giustificare l’opera d’arte, no? Che è la stessa tua scelta, quando dicevi «salvare il mondo di Coello mediante la scrittura, che non vada perso». Esattamente. E lui era un altro che diceva, e in questo io sto con lui - non l’ho imparato da lui ma coincidiamo -, che quello che hai letto e vissuto tra i sei-otto anni e i dodici anni è quello che conta per il resto della vita, le certezze sono lì, le letture autentiche. Dopo viene l’inganno, la menzogna. Diventare adulto vuol dire mentire. E accettare, rassegnarsi, adeguarsi, non è forse così? E lui lo dice. Quella ricerca all’interno del suo passato, la morte della madre che lo turba tanto... Lui ha la visione di sua madre pochi giorni prima di morire. La vede così e non dice che è sua madre, dice che è una donna vestita di nero, grossa, con un’espressione di rimprovero. È la madre, che non ha mai voluto, non ha saputo accettare l’omosessualità di Proust. Né la vita che conduceva, gli incontri fugaci con ragazzini... quella vita di certi omosessuali che a me ha sempre dato una grande tristezza… Compassione? Compassione! Io non ho mai giudicato. Una delle persone con cui ho un debito profondo, dal quale ho ricevuto cose magnifiche e definitive per la mia vita e per la mia scrittura, è Casimiro Eiger, che era omosessuale. Per te giudicare è un atto di superbia, vero? Io credo che non siamo giudici, non abbiamo il diritto di giudicare gli altri. O provi compassione e rimani accanto alla persona incriminata, o la ignori e prosegui per la tua strada. Ma non devi giudicare né segnalare. Questo è stato il primo atto pubblico di Cristo nell’incontro con la donna adultera, ed è un insegnamento straordinario: chi è libero di colpa, scagli la prima pietra. E la donna adultera se ne va, intatta, non sfiorata. E così deve essere. Non siamo giudici... Dunque, allora, ti dicevo, a Proust appare sua madre e lui prova un dolore tremendo e urla: «Toglietemi quella donna! Che se ne vada!». E il fratello, che era lì con il medico, gli domanda: «Cosa c’è, che vedi?», e lui: «Quella donna, quella lì, vestita di nero, sulla porta della stanza». Era sicuramente la febbre dell’agonia... Ma il suo delirio era pieno di senso. Certo, in quel momento gli piomba addosso tutto. Ecco, allora la mia poesia riprende rigorosamente dei particolari della vita di Proust che trovo sublimi e terribili. Nella poesia successiva, che hai intitolato Esilio, ritorna il tema della perdita («la irrescatable soledad de lo perdido»: l'irrecuperabile solitudine di ciò che è perso) come spazio di desolazione dove ci si sente precisamente “esiliati”. Voglio domandarti, cosa significa per te la parola “esilio”? Nel momento in cui l’ho scritta quella poesia significava soprattutto la mia amicizia e la mia frequentazione dei rifugiati spagnoli, iniziate in Colombia con Luis de Zulueta e una serie di amici. In Messico, naturalmente e senza volerlo, si ripete lo stesso che mi era successo in Colombia, e cioè che con loro ho più comunicazione e più affinità che con i nazionali, sia colombiani sia messicani. E provo una grande simpatia e una grande compassione per la loro condizione di esiliati. Perché essere esiliato dalla Spagna penso che sia qualcosa di molto grave. La Spagna ha per me un lato sacrale: è uno degli ultimi rifugi di un mondo con Dio. E anche se ci mandano fuori dai gangheri un’infinità di volte, come entri a Toledo, o ti trovi a Segovia, vedi, senti la Spagna di don Antonio Machado. Questo commuove chiunque. Allora ho voluto fare un omaggio alla Spagna e nello stesso tempo al Tolima. Ma oggi come oggi non scriverei quella poesia. Perché ora sono convinto che si nasce esiliati. Lo stesso fatto di nascere è un esilio. Dove ti trovi sei con te stesso, trascini i tuoi ricordi, tutti i tuoi errori, le tue debolezze, le tue menzogne e le tue certezze. Non c’è altro. Sarai esiliato da tutto. E soprattutto dalla tua infanzia. Quello è l’esilio più terribile. Ci sono certe immagini del tuo passato che a un tratto tornano e ti riportano in quel mondo perso, nel mondo di Coello: per esempio, il profumo del caffè, le foglie del banano, i fiori del càmbulo. Questo fiore è ricorrente nella tua poesia ed è presente anche in Esilio. Dimmi qualcosa del fiore del càmbulo. Il càmbulo è un albero bellissimo che produce un fiore di colore arancione, meraviglioso, talvolta lillà, che serve per dare ombra alle piante del caffè. Ci sono due modi per ombreggiare il caffè: con un altro tipo di albero, il carbonero, che è più piccolo e quando tocchi una sua foglia, si contrae, e che produce un’ombra molto vicino alla pianta, e poi ci sono i càmbuli, che producono un ombreggiato generale. Hanno poche foglie e molti fiori. Sono una vera bellezza. Una vera meraviglia. E io li guardavo dal terrazzo di Coello, sdraiato sull’amaca, laggiù si ergevano i càmbuli... Sono molto grandi questi fiori? Enormi. Per me sono un altro modo di dire "Coello". Quando parlo di loro sto pensando a Coello. La penultima poesia de Le opere perdute è la Canción del Este (Canzone dell’Est). Mi sembra che questo componimento offra una chiave per capire Maqroll, come dopo ti dirò. Ma prima vorrei sapere, perché «dell’est»? Cos’è l’Est per te? Caspita! Fammi pensare... vediamo... Questa era una poesia che piaceva molto a Volkening. «Colui che non sei stato, colui che è morto / a forza di essere stato te stesso ciò che sei»: è quello che tu stesso uccidi. L’altro. Quando Maqroll rimane a un tratto a guardare l’acqua, ne La neve dell’ammiraglio e dice «c’è un’altra vita, quella vita che non viviamo, quell’angolo di strada che non gireremo mai». E c’è anche una poesia di Borges che dice qualcosa come «C’è una strada che ho percorso per l’ultima volta, c’è un libro che non leggerò mai...». E poi dice: «Per sempre hai chiuso una certa porta / e c’è uno specchio che ti attende invano». Sì, la ricordo bene: è la poesia Limiti. E c’è anche la famosa teoria di Unamuno su quello che lui chiama l’ex-futuro, ciò che avremmo potuto essere e non siamo stati... Certo, l’ex-futuro... Ma questa cosa dell’est, non lo so, sai? Non me lo ricordo. Forse “est” vuol dire “oriente”. Forse l’est per te significa il principio, così come da lì inizia il giorno. Può darsi. E anche le civiltà. Loro iniziano a est e si diffondono verso ovest. Iniziano in Mesopotamia, Grecia, Roma, Europa, attraversano l’Atlantico... Ecco, in questa poesia mi sembra che ci sia una chiave per comprendere Maqroll, perché lì compare quello che si diceva prima: l‘ex futuro unamuniano. La gioia era vicino ma risulta irraggiungibile perché implica un cambiamento d’identità. Qui si annuncia di già il Maqroll che tu rammentavi prima: di fronte alle acque dice che avrebbe potuto essere stato questo e non lo è stato, e parla di una gioia che era destinata a lui ma che non è riuscito a vivere. E poi c’è questo concetto del “non vissuto” che comunque ritorna sempre. Una sorta di nostalgia del non vissuto. Certo, di quello che avrebbe potuto essere. E mi sembra che Maqroll riassuma tutto questo, no? Certo, certo. Ma, come abbiamo già detto, in questo libro si alternano due soggetti poetici, Maqroll e te stesso. E la consapevolezza del tempo che distrugge - «che lavora come lupa che sotterra i suoi cuccioli» dici in una delle Sonate è anche tua. Soltanto che quando un’amorosa figura femminile appare per contrastare l’effetto del tempo, come appunto in quella Sonata che ho citato, mi pare che il soggetto non possa essere Maqroll, sei tu senza dubbio. E ti domando se questa «amica» che convochi non sia forse Carmen. A lei ho dedicato quella Sonata e tutta la raccolta. Allora finiamo ricordando quei versi bellissimi:
un'acqua mansueta di ruscello mi restituisce ciò che di te serbo per aiutarmi ad arrivare alla fine di ogni giorno.
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