FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 5
gennaio/marzo 2007

Alterazioni climatiche

È NECESSARIA UNA NUOVA ETICA ECOLOGICA?

di Armando Santarelli


Pare che ci siamo convinti che stiamo compromettendo l'equilibrio di quella sottile striscia di terra, acqua e aria - la biosfera - che costituisce l'unico luogo dove per noi è possibile vivere.
Forse abbiamo anche capito che il problema della sostenibilità ambientale è un problema planetario, e che se vogliamo sopravvivere dobbiamo cambiare atteggiamento in molti importanti settori della nostra vita.
Gia, ma come? E fino a che punto? Purtroppo, l'etica occidentale ha molte responsabilità per lo spietato sfruttamento della natura; allora, è necessaria una nuova etica per invertire la rotta nei nostri rapporti con l'ambiente?

Su questo aspetto continuo a essere d'accordo con chi - come John Passmore, il filosofo australiano che ha indagato per anni i termini della nostra responsabilità per la natura - crede che non sia necessario arrivare a tanto. Alcuni secoli fa, John Stuart Mill ci aveva già messo in guardia contro le chiacchiere sull'armonia con la natura. Cresce la popolazione mondiale, aumenta il fabbisogno energetico, vogliamo vivere il più comodamente possibile; ebbene tutto questo non può essere ottenuto senza arrecare danni all'ambiente. Una centrale idroelettrica produce energia relativamente poco inquinante, e costituisce tuttora una buona soluzione nel bilancio costi-benefici, ma non può essere realizzata se non distruggendo un pezzo di natura.
Per prima cosa dobbiamo convincerci che un approccio emotivo al problema ambientale non costituisce una buona base di partenza. Gli errori commessi quando alcune soluzioni "morali" immediate si sono imposte a scapito di analisi più profonde e razionali sono lì a dimostrarlo. Nei decenni scorsi, nella persuasione che "si dovessero tagliare meno alberi e usare meno legno", quasi tutti i movimenti ambientalisti hanno adottato politiche anti-silvicoltura. Oggi - ammette Patrick Moore, uno dei membri fondatori di Greenpeace - sappiamo che sarebbe stato più efficace adottare la politica "pianta più alberi e usa più legno". In questo modo si sarebbe ridotto l'utilizzo di carburanti fossili e di altre risorse non rinnovabili, con l'ulteriore vantaggio di diminuire le emissioni di anidride carbonica e di altri gas nocivi.

Se vogliamo affrontare al meglio il problema della sostenibilità ambientale, dobbiamo anzitutto riconoscere che siamo davanti a un problema sociale, che comporta la soluzione di questioni di carattere scientifico e tecnologico, ma anche economico, politico, e, ovviamente, morale.
Naturalmente, la risoluzione delle questioni scientifiche è alla base di ogni ulteriore decisione. Può lasciarci perplessi, ma c'è ancora parecchio da definire nel campo delle emissioni e dei loro effetti. Per esempio, dato per inevitabile un certo grado di inquinamento dell'aria che respiriamo, qual è il livello che possiamo definire accettabile? Chi sapeva, fino a qualche anno fa, che le polveri sottili (come il pm 2,5) riescono a penetrare sino ai bronchi, influendo sullo scambio di ossigeno con il sangue?
Purtroppo, fino a quando non avremo dati completi e sicuri sulle sostanze inquinanti - in particolare sui danni che provocano a uomo e ambiente - l'azione di chi deve provvedere a una loro riduzione rischia di essere incerta e inefficace. È necessario perciò un forte incremento della ricerca scientifica sull'inquinamento e i suoi effetti, e un impulso delle indagini interdisciplinari, in modo da comprendere le relazioni tra quei processi fisici che normalmente sono studiati da scienze diverse. Ed è anche chiaro che ciò non si potrà ottenere se non devolvendo alla ricerca scientifica una quantità molto maggiore di risorse rispetto a quelle che attualmente le sono messe a disposizione.

Il passo successivo coinvolge il mondo tecnologico e quello politico. È vero che la tecnologia ci ha consentito di limitare la produzione e i danni di molti agenti inquinanti. Ma è anche vero che, a dispetto delle enormi capacità tecnologiche dell'Occidente, le nostre macchine vanno ancora a benzina, e le nostre fabbriche scaricano nell'aria enormi quantità di gas pericolosi.
Il problema è che la tecnologia non è l'unico fattore a entrare nelle scelte. Nessuno può illudersi sulle difficoltà economiche (e di conseguenza politiche) che si frappongono all'adozione di efficaci misure antinquinamento in molte nazioni della Terra. Anche quando siamo in possesso di dati sufficienti per affermare che una certa soluzione è scientificamente e tecnicamente la migliore per risolvere un problema ecologico, dobbiamo convincere ad applicarla chi ne rimane coinvolto. L'analisi costi-profitti degli interventi necessari per controllare l'inquinamento ha rappresentato spesso lo scoglio sul quale sono naufragati gli impegni che le parti si erano assunti. Ma qualcosa sta cambiando, su questo versante. Recentissimi studi dedicati ai risvolti economici del taglio delle emissioni di gas serra mostrano che contenere il riscaldamento globale può diventare addirittura conveniente. Come dimostrato nel Rapporto Stern sull'economia dei cambiamenti climatici, e in analoghi studi della Fondazione ENI Enrico Mattei e dell'Università di Cambridge, una rigorosa politica di riduzione delle emissioni avrebbe l'effetto di spingere l'industria verso l'adozione di tecnologie più pulite, perché più vantaggiose rispetto a quelle inquinanti. Senza contare il risparmio sugli alti costi sanitari connessi alle malattie generate dalla polluzione.

Alcuni movimenti ecologisti si spingono molto più avanti con l'ottimismo tecnologico: i membri del gruppo ambientalista Viridion, fautori di una politica di "riconciliazione ecologica", ritengono che il Pianeta potrà salvarsi solo coniugando la teoria di Gaia con un uso massiccio della tecnica.
In attesa del nuovo Eden fondato sulle macchine, all'attuale abitante di Gaia non resta che un'arma per combattere le industrie più restie al cambiamento: la coercizione. In sostanza, aumentare le tasse sui consumi di anidride carbonica; non possiamo più permettere alle industrie che inquinano di lasciare i costi ambientali fuori dalla loro contabilità. Il problema è che una coercizione efficace sulle corporazioni industriali può essere svolta solo dagli apparati di governo. Ma a parte le frequenti collusioni fra chi amministra la cosa pubblica e le grandi multinazionali; a parte le pressioni che queste, costituendo un'enorme fonte di occupazione e di profitto, sono in grado di esercitare; c'è da dire che le odierne società industriali hanno spesso dimensioni sovranazionali, per cui i governi hanno perso il controllo che un tempo esercitavano su di esse.

Sappiamo tutti che negli Stati Uniti d'America le corporazioni hanno fatto abortire più volte le misure antinquinamento, prima fra tutti la mancata adesione al protocollo di Kyoto. E purtroppo, nessuno si aspetta che George W. Bush possa convincersi a fare qualcosa di importante per ridurre l'enorme consumo energetico del suo paese, e il conseguente impatto sui sistemi naturali.
Per fortuna, molti americani - dai comuni cittadini ad autorevoli uomini della scienza, della cultura e dello spettacolo - non la pensano come il loro presidente, e si stanno dando parecchio da fare per la difesa dell'ambiente. Anche alcune grandi multinazionali si sono convinte che devono delle risposte a chi gli chiede di pagare il costo sociale delle loro azioni. E stati come la California e il Texas stanno facendo passi molto significativi verso un'economia maggiormente incentrata sulle energie rinnovabili. Io penso che non ci sia ragione di credere che una democrazia avanzata come quella degli Stati Uniti d'America non arrivi ad adottare una seria politica legislativa per ridurre l'inquinamento.
Ma qui subentra un fattore molto importante, forse decisivo: la spinta dei cittadini. Spesso, il principale ostacolo a una riconsiderazione dell'impatto ambientale delle politiche industriali è costituito proprio dalla gente comune. Ciò che è bello e giusto in linea di principio diventa terribilmente scomodo quando ci colpisce personalmente. Per quanto le corporazioni ci vogliano influenzare e orientare, la domanda, quella che determina l'offerta di un prodotto, è frutto di una scelta che dipende da ognuno di noi. Qualche anno fa, dopo aver dedicato alcune lezioni al tema dell'ecologia, distribuimmo agli alunni delle scuole elementari e medie del mio paese un memorandum con 10 semplicissime regole da seguire quotidianamente per aiutare l'ambiente. Quando, dopo qualche mese, invitammo genitori e alunni a dirci con sincerità se le avessero osservate, la maggior parte di loro dovette ammettere che non l'aveva fatto.

Ma se le nevi perenni si ritirano in tutto il mondo, se dal 1900 i ghiacciai alpini hanno visto ridursi del 40% la loro massa, il problema ecologico non può più essere evitato da nessuno. Grazie alla militanza nel WWF, qualche anno fa ho avuto modo di conoscere uno dei più importanti studiosi mondiali di foreste primarie, il professor Janusz B. Falinski, Direttore del Parco Nazionale di Bialowieza, in Polonia. Durante la visita del parco, Falinski pronunciò una frase che è rimasta impressa nella mia mente in modo indelebile, perché racchiude in poche parole una delle realtà più crude e spaventose del nostro tempo: "Ogni sistema di vita sulla Terra è in declino".
Ogni sistema... che cosa stiamo aspettando, dunque? È ora di liberarci una volta per tutte dalla dottrina agostiniana secondo cui la natura esiste solo per essere usata dall'uomo. Senza scomodare l'etica, abbiamo bisogno di una filosofia della natura meno antropocentrica, che ci aiuti a comprendere che formiamo un'unica comunità con la biosfera e i suoi elementi.
Per fortuna, non si è ancora fatta sera. A dispetto dei catastrofisti, sono convinto che la tradizione morale e culturale dell'Occidente possa trovare al suo interno le basi per sviluppare una cultura ecologica più attenta alle nostre responsabilità verso l'ambiente.

 

armando.santarelli@inwind.it